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lunedì 5 maggio 2014

Pasolini poeta offeso

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini poeta offeso
di Federico De Melis da "il Manifesto" del 2/11/95 pagina 2


Pier Paolo Pasolini "poete d'opposizione", come recita il titolo della manifestazione romana che lo celebra a vent'anni dalla morte? nel documentario Comizi d'amore, a Pasolini che gli chiede che cosa sia per lui l'anormalita' sessuale, Giuseppe Ungaretti risponde: e' improprio rivolgere questa domanda a un poeta, il quale per sua natura non conosce norma dunque neanche infrazione della norma. Un poeta non puo' essere "d'opposizione". Alberto Moravia, colui che meglio ha colto il carattere civile, in senso dantesco, della poesia pasoliniana, il 2 novembre '75, nello smarrimento per l'assassinio all'idroscalo aveva perso "un suo grande poeta". Non si tratta di difendere cronicamente il sacro recinto della poesia assediato dalla realta'. Ma di cogliere uno snaturamento che l'industria culturale italiana ha fatto di Pasolini, a suo uso e a nostro consumo. Esso consiste nella politicizzazione integrale dell'opera sua. Questo snaturamento ha favorito l'affermarsi dell'immagine di Pasolini come Tiresia del tempo nostro, grande preveggente dei torbidi italiani che sarebbero emersi in piena luce non tangentopoli. E' davvero poetica, per contrasto, l'immagine del vero Tiresia, che lui volle per l'Edipo re nelle scarne fattezze di Julian Beck: il quale vedeva cose che non si possono dire, impossibili da comprendere nell'universo della politica. In questo universo e' stato invece imprigionato Pasolini, per essere smembrato e servito fumante a un grande banchetto post-moderno. L'ultimo esempio e' di ieri: un ennesimo imbarazzante tentativo di annetterlo al pensiero fascista, firmato dall'ideologo della "nuova destra" Marcello Veneziani, ospite per una cosiddetta "provocazione giornalistica" sulle pagine di Repubblica. d'altro canto notevoli detrattori del Pasolini politico, come Alberto Asor Rosa quando contestava la congruenza d'una discussione sulla modernita' a partire dai presupposti pasoliniani, si sono messi al passo: e hanno cominciato a usare la sua prospettiva apocalittica in chiave politica. Ricordo un infervorato dibattito nei primi anni ottanta a Castel Sant'Angelo in cui si stentava, da giovanissimi, ad accettare le sferzate di Asor Rosa contro i concetti "apolitici" di Palazzo e Omologazione, difesi invece da Pietro Ingrao. Solo Franco Fortini, forse - e del tutto a parte Alberto Arbasino, la cui cinica umanissimo disinvoltura ancora in questi giorni ha profuso parole di disincanto, tra acido e amaro - ha tenuto duro fino alla fine: conservando bene in luce l'origine narcisistica, cioe' poetica, delle incursioni politiche di Pasolini: additando in esse il frutto di un vitalismo che finiva per portare al centro della scena il Corpo del Poeta, straziato e adorato, a scapito della realta' che la sua parola intendeva redimere. Pasolini amava troppo voracemente la realta' per conservarla intatta al giudizio politico: come il centauro Chirone all'inzio della sua Medea vedeva "tutto santo", niente di "naturale" ma tutto "miracoloso". La realta' era la sua ostia quotidiana. La stessa contraddizione di passione e ideologia, che dopo la guerra sentiva dal corpo a corpo con la figura di Gramsci, era apriori risolta nella poetica accettazione di una realta' mitica, indivisa: "il paese di temporali e primule". L'Appennino "dove azzurri gli ,,,,,,,,,,,,,,,,,,,, dormono". Il Testaccio nell'aria "impura" di maggio, il perso oriente... E mitica e indivisa sarebbe risultata poi, con l'omologazione e i suoi mostri, nel segno freddo di Salo'-Sade. Un mito buono si rovesciava, come seguendo l'ordine dei cicli stagionali, in un mito cattivo. Naturalmente non v'e' costruzione di miti laddove non lo richieda la realta', e assai ne richiedeva l'atroce sviluppo italiano. Ma essi non possono essere confusi con la realta', com'e' nel consumistico appiattimento politico che s'e' fatto dell'opera pasoliniana. Solo tenendoli separati, i miti pasoliniani possono illuminare la nostra realta', darsi come strumento energico di comprensione politica. Oggi un paese civile dovrebbe limitarsi a ricordare un suo poeta. Un poeta che non si e' espresso soltanto in forme disparate di poesia, ma finanche in politica. Che nella trasformazione del "popolo gramsciano" in "massa neo-capitalistica" avvertiva la poesia in pericolo - da tardo francofortese, come ancora suggerisce Fortini. Studio' disperatamente il modo di conservare alla poesia una voce in capitolo: a rischio e con l'ebbrezza di snaturarla, fino a renderne irriconoscibili le forme: e lui di mascherarsi da grande opinionista politico. Si dovrebbero riportare gli Scritti corsari o le Lettere luterane alle proprie ragioni prime: leggerli come opere di poesia. Solo cosi' sara' possibile comporre le spoglie di Pasolini, che vagano inquiete tra le pagine dei rotocalchi d'opinione: dare loro una cristiana sepoltura. 



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Pasolini e piazza Fontana

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini e piazza Fontana
di Federico De Melis da "Il Manifesto" del 15 dicembre 1992 pag 15 da Gian Carlo Ferretti

I dialoghi di Pier Paolo Pasolini, prefatto e curato da Giovanni Falaschi per gli Editori riuniti (pag 803). 


Il volume raccoglie i testi scritti da Pasolini per le rubriche "Dialoghi con Pasolini" su "Vie Nuove" (dal 28 maggio 1960 al 30 settembre 1965) e "Il caos" su "Tempo" settimanale (dal 6 agosto 1968 al 24 gennaio 1970). Una scelta dei testi per "Vie Nuove" era stata pubblicata, col titolo Le belle bandiere, nel 1977. Col titolo Il caos era invece uscita, nel 1979, una scelta di testi scritti per "Tempo". In entrambi i casi a cura di Giancarlo Ferretti per gli Editori Riuniti. La novita' nel nuovo volume e' l'integrazione dei testi esclusi in quelle antologie: la possibilita' di valutare, dunque, nella sua interezza il fitto dialogho su problemi di attualita' che Pasolini ebbe, in maniera diretta o indiretta, con un pubblico di lettori (in maggioranza comunisti) nel corso degli anni 60, dove si possono individuare, in nuce, i moventi politico-culturali di quella che sara', negli anni 70, la sua polemica "corsara" ("l'apprendistato del corsaro" e' il titolo della nuova prefazione di Ferretti). Nell'immediatezza del rapporto epistolare con persone in carne e ossa, che esprimono i loro dubbi e le loro certezze, che si affidano al loro interlocutore oppure lo incalzano, a volte affettuosamente, a volte offensivamente, si ritrovano, nella loro evidenza, tutti i passaggi critici della societa' italiano del decennio che segno la "mutazione antropologica". Nel rispondere, Pasolini e' maieutico come nel documentario reportage di quegli anni Comizi d'amore, e insieme elementare; forse, ha giustamente notato Luigi Balducci sul Corriere della sera a proposito della rubrica su Vie Nuove (siamo alla prima meta' degli anni sessanta) tende, piu' che in altri contesti, a sentirsi parte di un progetto politico culturale comunista: salvo a tradire, a momenti, la sua fondamentale eresia. Pubblicheremo quanto prima la recensione ai dialoghi. Intanto dedichiamo questa pagina a una polemica che il volume ha suscitato. Franco Fortini prende spunto dall'esclusione di due testi pasoliniani dal volume antologico Il caos del 1979 - esclusione operata, a suo dire, intenzionalmente dal curatore Gian Carlo Ferretti - per stigmatizzare la presunta incomprensione , da parte di Pasolini, della strage di Piazza Fontana e in generale del '68 e dei movimenti extraparlamentari, la sua ripugnanza verso il "sottofondo culturale" rappresentato da Pietro Valpreda, e il suo sostanziale allineamento, a questo proposito, con le posizioni ufficiali del PCI; e insieme polemizzare con l'immagine parziale che il PCI avrebbe voluto dare di questo Pasolini dopo la sua morte, di cui sarebbe un esempio la presunto censura di Ferretti. Gian Carlo Ferretti, al quale abbiamo chiesto una risposta, sostiene, citazioni alla mano, che e' preconcetto e offensivo schiacciare l'immagine di Pasolini sul PCI dei primi anni '70, cosi' come considerarlo nemico tout court del '68 e dei movimenti extraparlamentari. 


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ll rapporto tra Pier Paolo Pasolini e Elsa Morante. La Regina Esigente e la Madre Consolatrice

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Il rapporto tra Pier Paolo Pasolini e Elsa Morante.
La Regina Esigente e la Madre Consolatrice
di Sandra Bardotti, http://www.mastereditoria.it/

***

La crisi ideologica che, negli anni Sessanta e Settanta, ha portato Pasolini fino alla sfiducia testimoniata dagli Scritti corsari e dalla Lettere luterane, oltre che dalla produzione poetica, narrativa, teatrale e cinematografica, fu una profonda crisi personale, che portò alla rottura con una grande personalità che si era legata a lui con un vincolo di affetto profondo e intimo, Elsa Morante. Non ha senso cercare di stabilire quale delle due sia maggiormente rilevante. Credo sia solo possibile affermare che furono concomitanti, che l’una coinvolse l’altra. Sicuramente il distacco dalla Morante fu un momento molto difficile per Pasolini, perché coinvolse e mise in crisi anche la visione di intellettuale e di uomo che egli aveva di se stesso.
Pasolini e la Morante si conobbero verso la metà degli anni Cinquanta, e la loro conoscenza fu mediata dalla figura di Alberto Moravia. L’ammirazione di Pasolini per la scrittrice si manifesta già nel 1953, quando egli ha la possibilità di leggere Lo scialle andaluso, apparso su‹‹Botteghe oscure››. È tra il 1953 e l’anno successivo, dunque, che si deve collocare l’incontro personale, testimoniato dall’epistolario pasoliniano. Subito tra i due scatta una reciproca stima, ma anche un dialogo produttivo che non risparmia critiche e biasimi; insomma, un rapporto di sincera amicizia. La frequentazione si fa assidua soprattutto durante gli anni Sessanta, e nel 1961 l’amicizia si era consolidata a tal punto che i tre organizzarono insieme un viaggio in India.
Di questa esperienza rimangono le testimonianze di Pasolini (L’odore dell’India) e di Moravia (Un’idea dell’India), così diverse tra loro, che documentano due approcci assai distanti al paese visitato. Indicativo è che Pasolini si presenti più solidale con le idee di carità che Elsa mostra di avere, rispetto al maggiore realismo scettico dell’amico Moravia. “La fraternità si cementa in una comune appartenenza alla razza di coloro che hanno ‹‹come ideale della vita, quello di svuotare con un ditale il mare›› [i]” [ii].
Anche se il realismo dei primi romanzi romani pasoliniani sembra così diverso dall’indagine psicologica con cui sono indagati i personaggi delle borgate romane nei romanzi della Morante, un filo sottile lega i due scrittori. È l’amore per i ragazzini, per una società sottoproletaria che appare ancora incosciente dei cambiamenti messi in atto dal nuovo Potere consumistico, che attraversa i loro romanzi. Il discorso potrebbe essere più chiaro se analizzassimo il significato che il concetto di “barbarie” viene ad assumere nell’opera di entrambi, ma non è questo il luogo per affrontare un parallelo che pure si rivelerebbe interessantissimo; per chi volesse approfondire l’argomento preferiamo rimandare al bel saggio di Massimo Fusillo [iii]. Basterebbe la testimonianza dell’incipit de Il pianto della scavatrice: “Solo l’amare, solo il conoscere / conta” [iv], che omaggia il morantiano “Solo chi ama conosce” [v] (Alibi), per capire la comunione di visione e le corrispondenze che si venivano a creare tra i due poeti. Si tratta di un’adulazione reciproca, di un omaggiarsi a doppio senso, di rispecchiamenti continui dell’altro nella propria opera. Per celebrare l’amica, Pasolini le dedica anche il volume La religione del mio tempo, uscito nel 1961.
Pasolini deve essersi presentato alla Morante, fin dai primi momenti della loro amicizia, come un nuovo Rimbaud. Del resto, egli è uno dei pochi autori del nostro Novecento che abbia ripetuto un’esperienza così rivoluzionaria come fu quella di Rimbaud un secolo prima. La sua genialità, la sua precocità colpirono immediatamente una donna così sensibile e attenta al mondo letterario. Poi ci fu la comunanza di motivi, temi, intenti: Pasolini le appariva come colui che avrebbe potuto, come Rimbaud, accusare con violenza inaudita il mondo del nuovo capitalismo, dare una scossa a tutta la società borghese che stava procedendo al genocidio del mondo sottoproletario, svelare con la forza della sua parola l’inganno che si celava dietro l’apparente benessere. Già in Poesia in forma di rosa, però, Elsa scorgerà una radice narcisistica e una vena di populismo che non apprezzerà. Così, dopo aver letto Poesia in forma di rosa, nel 1964, scrive e invia all’amico un testo “scherzoso”, Madrigale in forma di gatto, un calligramma in cui lo accusa di ipocrisia, di finto amore, di malafede ideologica:

La rosa è la forma delle beatitudini.
Beata l’angoscia in forma di rosa.
Beato il disordine e la libidine sanguinosa
la passione di sé invereconda gli eccessi di velocità e le orge funebri
il nero rifiuto dello sposalizio le bandiere dell’oltranza le corazze dell’ignoranza
i vari equivoci dell’egoismo le mascherate degli stracci
le carità pretestuose le immondizie deificate
i pregiudizi di casta l’alibi storicistico
le complicità attuali, l’adorazione ai padri farisei,
la paura della castrazione
il candido tradimento il pianto vantone
la corda sentimentale e la spada della ragione
beate le secrezioni i visceri della letteratura l’oratorio
la mistificazione
quando finalmente s’aprono in forma di rosa!
Il ragazzo che si intende protagonista del mondo
(protagonista anche se bandito, anzi di più perché bandito…)
starà sempre beato al centro della rosa.
E lui beato ignorerà gli altri peccatori al bando della rosa
e al bando di se stessi
non protagonisti del mondo
non leggenda di se stessi
soli senza nessun addio. Agonie senza nessun pianto
e nessuna rosa
Il gatto che non crepa [vi]

Non sono accuse da poco. Sostanzialmente Elsa accusa Pasolini proprio di falso amore verso il sottoproletariato, di narcisismo e protagonismo. A ciò si aggiungerà uno screzio ancora più grande: quando l’Arco Film si rifiuta di pagare due attori amici di Elsa che avevano partecipato al Vangelo secondo Matteo, e Pasolini non fa niente contro la casa di produzione cinematografica, scriverà all’amico: "É chiaro che aspettarsi un simile rispetto da parte di quegli immondi stronzi dell’Arco Film era utopistico, per non dire cretino, giacché loro non rispettano che la merda (cioè proprio quelle poche miserabili lire che tu dici). Almeno avrei voluto che tu, con la tua autorità, gli facessi almeno mettere il muso nella merda loro, almeno per un momento, e che si vergognassero almeno (loro stessi per la loro parte in quanto persone) della loro merda ecc. ecc. […] E tu sai benissimo che il pagare di tua tasca (o io di mia tasca) qui non significa niente […]. Perciò anche se tu fossi miliardario (e purtroppo non lo sei) non potrei accettare i tuoi soldi […]. L’ombra che tu dici sulla nostra amicizia lo sai benissimo non è il debito tuo, che fra l’altro non esiste; ma ‹‹l’adorazione ai Padri Farisei›› come ti avevo già scritto nella poesia. Ma non è vero che questa è la prima volta che c’è quest’ombra". [vii]
Elsa, dunque, gli rimprovera una complicità con i padroni, l’incapacità di opporsi alla forza capitalistica; accusa durissima per un poeta civile che tutto voleva mostrare di essere tranne che un borghese omologato e consumista come gli altri. L’immagine che Elsa si era costruita di Pier Paolo continuerà a sgretolarsi col tempo. Intanto, siamo arrivati alla metà degli anni Sessanta e, nonostante queste polemiche tra i due, si può affermare che è il periodo di maggiore vicinanza ideologica. Entrambi sono in disarmonia con il mondo, ma mentre Pasolini sembra spinto a scrivere e produrre sempre di più come se si trattasse di una competizione contro la società del Potere, Elsa se ne sta da parte facendosi scudo con il suo ammaliante umorismo. Mentre Pasolini accusa e respinge quella società che continuamente lo esclude, Elsa ama chi la odia e non chiede niente in cambio, come amano le madri. Mentre Pasolini cerca di rinnegare la sua appartenenza piccolo-borghese con lo strumento della rimozione, Elsa usa quello della parodia innamorata.
Dopo il 1969 i contrasti subiscono una chiusura comunicativa e cessano di essere dispute produttive e stimolanti per entrambi. La Morante si sente sostanzialmente delusa. Pasolini non si è rivelato essere quell’uomo che lei aveva dipinto, quel geniale Rimbaud forte della sua maledizione. Pasolini era diventato insopportabile nella sua angoscia di sentirsi sempre messo sotto accusa. Si sentiva escluso e condannato anche quando non lo era, e avvertiva il bisogno di difendersi continuamente. Si ripiegava sempre più su se stesso, e aveva abiurato per sempre quella vena poetica così pura delle poesie friulane e delle Ceneri. Alla Morante sembrava che egli perdesse tempo inutilmente. D’altra parte, lui si sentiva chiuso nel rimorso di non essere stato all’altezza di quella figura che lei aveva creato di lui. Si sentiva sopravvalutato da Elsa, e ciò gli provocava il vergognoso rimorso di non essere riuscito a soddisfare le sue aspettative.
Nel 1971, dopo l’uscita di Trasumanar e organizzar, Elsa scriverà una lettera per cercare di sottrarsi al ruolo di “Regina Esigente” che Pasolini le aveva attribuito:

"Si sa che ogni spiegazione è inutile.
Tanto l’altro spiega la nostra spiegazione
con la sua spiegazione. E così l’equivoco
gira in eterno. Ma questo è bene in fondo
come in fondo tutto è bene […].
A ogni modo (anche se NON «a scanso di equivoci»)
io qui m’affanno a comunicarti
quello che tu vuoi negare: insomma che
non rimprovero NIENTE A NESSUNO
e tanto meno a te. […]
[…] Io rimprovero solo ME, per una cosa
e anche me, per quella sola (ti avverto
che se credi d’averla indovinata ti sbagli).
È la sola cosa che non c’è nel tuo libro
che pure è un libro disperato.
Disperato ma beato
perché quella cosa non c’è
(e se credi d’indovinarla ti sbagli).
Il tuo libro è disperato-beato perché sì.
Dentro c’è Pier Paolo
e Ninetto e Maria e pure Elsa
(benché solo l’Elsa che tu vuoi conoscere
e cioè dico la pura la
inconcussa. Oh Dio
essa è concussa e invece impura
ecc. ecc.
Ma tu beato vuoi che gli appartenenti
a Pier Paolo
siano come Pier Paolo li vuole
e hai ragione. BADA! HAI RAGIONE!!
? Forse il solo modo di farli esistere (gli altri)
È questo: il tuo).
A ogni modo, nel tuo libro c’è Pier Paolo
e basta [viii]

La Morante testimonia dunque l’impossibilità di un dialogo con Pasolini, perché quest’ultimo non riesce più ad ascoltare gli altri e a instaurare un confronto. Nelle sue poesie c’è solo lui, solo il suo narcisismo, e non c’è posto per gli altri. Al massimo vi si sente l’eco di altre persone a lui care e vicine, ma la loro immagine risulta sempre filtrata e deformata dalla presenza di un Ego assoluto e totalizzante, padrone incontrastato della scena. Così Elsa gli rivela anche di non essere la pura e inconcussa che egli credeva, né tantomeno colei che crede di avere l’autorità di rimproverare qualcuno.
Poi, nel 1971 Ninetto decide di sposarsi. È questo l’anno della crisi definitiva con la Morante. Pasolini si sente abbandonato, tradito dall’amico, e lo accusa di aver voluto seguire la propria natura allontanandosi da un “dovere” che aveva nei suoi confronti. Ad agosto scrive a Volponi: "Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o a cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia, almeno per la presenza lieta, inalterabile di lui. Ti prego, non parlarne con persona al mondo. Non voglio che si parli di questa cosa. Tu e Elsa siete i soli (con Nico) che lo sanno. Può darsi che io riesca a vivere ancora". [ix] Elsa sta dalla parte di Ninetto, sostiene il suo diritto a innamorarsi di una donna, e dice a Pasolini che amare vuol dire desiderare il bene di chi si ama, senza chiedere niente in cambio. Chi gli aveva finora dato sostegno e garantito forza vitale se ne va, lasciandolo solo. Egli non sopporta di restare solo con la propria diversità. Così, proietta sulla Morante il fantasma della “Madre Consolatrice”. Sa che la verità della Morante, della Madre, è superiore, ma proprio come un bambino non vuole accettarla.
Il ritratto che Pasolini ci offre di Elsa in Petrolio dimostra come l’amica sia stata un centro focale fino agli ultimi anni, e quanto la sofferenza provocata dal suo abbandono abbia inciso anche nelle scelte formali della sua ultima produzione. Viene detto subito di lei che aveva “il viso di giovane gatta” [x], e anche i caratteri psicologici le appartengono inequivocabilmente (“padrona del proprio pensare, per quanto il suo fondo potesse essere passionale, viscerale e tempestoso” [xi]). Tutta impegnata nella sua opera di carità nei confronti di un ragazzino alquanto bruttino, ma che a lei doveva sembrare bellissimo, non sta ad ascoltare l’amico. Lei non sta mai a sentirlo, per tutta la durata della loro amicizia; questo è quello che Pasolini, da figlio, le rimprovera. Lui ha un segreto di incalcolabile valore storico che vorrebbe donarle, perché è stata lei stessa a porsi nel mondo come una che non ha nulla da perdere. Ma lei rifiuta lo scambio, rifiuta di prendersi questo peso. Pasolini le rimprovera anche di non essersi mai schierata al suo fianco nelle battaglie sostenute contro le istituzioni e la politica, di essere sempre stata passiva.
Credo sia possibile che il recupero dell’opera di Rimbaud nell’ultimo Pasolini, di cui ho già parlato nel saggio Una lunga stagione in inferno: Rimbaud nell'opera di Pasolini, edito in "Studi pasoliniani" (n. 3, 2009), sia dovuto alla volontà del figlio-Pasolini di dimostrare alla madre-Elsa che l’immagine che lei aveva sempre dipinto di lui era vera. Come un bambino che voglia dimostrare alla madre il suo amore. La nega, la accusa, ma nello stesso tempo le ubbidisce. Tutto come nel più comune dei rapporti madre-figlio. Questa è la motivazione che abbiamo intravisto nel recupero di Rimbaud da parte di Pasolini, perché non è da sottovalutare l’importanza della figura della Morante in tutta la vita di Pasolini. È lei la donna più importante della sua vita, dopo la madre; e ai suoi pensieri, accuse o lodi, dedicherà sempre un’attenzione particolare.
Ne Lo scialle andaluso si racconta di un bambino che desidera diventare santo, e ci rinuncia per amore della madre. I due vivono una vita mediocre, con lei “convinta che lui sia destinato a qualcosa di grande” [xii]. Sembra che già in questo racconto giovanile lei sia stata capace di prefigurare quell’amicizia che nacque e si sviluppò con Pasolini alcuni anni dopo. Forse sentiva che sarebbe arrivato un “figlio” che avrebbe incrociato il suo cammino, che l’avrebbe riempita di gioie e di dispiaceri, che avrebbe tentato di intervenire nel mondo con la sua parola e di scongiurare l’ecatombe borghese come lei non era riuscita a fare. Forse era proprio lei che cercava questo nuovo Rimbaud, e lo aveva espresso già in questo racconto. Pasolini all’inizio fu in grado di assolvere questo compito, ma poi si rivelò troppo preso da sé e dalle sue angosce.
Si tratta solo di uno spunto di lettura, che rivela ancora una volta quanto sia divertente fare critica letteraria.

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[i] P.P. Pasolini, L’odore dell’India; in P.P. Pasolini, Romanzi e racconti , a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1998, vol. I (1946-1961), pag. 1233.
[ii] W. Siti, Elsa Morante nell’opera di Pier Paolo Pasolini, in Vent’anni dopo La Storia. Omaggio a Elsa Morante, a cura di C. D’Angeli e G. Magrini, Studi Novecenteschi, Giardini Editori e Stampatori in Pisa, pag. 134.
[iii] M. Fusillo, ‹‹Credo nelle chiacchere dei barbari››. Il tema della barbarie in Elsa Morante e in Pier Paolo Pasolini, in Vent’anni dopo La Storia. Omaggio a Elsa Morante, cit., pagg. 97-129.
[iv] P.P. Pasolini, Il pianto della scavatrice; in P.P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Meridiani Mondadori, Milano 2003, vol. I, pag. 833.
[v] E. Morante, Alibi; in E. Morante, Opere, a cura di C. Cecchi e C. Garboli, Meridiani Mondadori, Milano 1988, vol. I, pag. 1392.
[vi] Il testo è pubblicato da N. Naldini in P.P. Pasolini, Lettere 1955-1975, Einaudi, Torino 1988, pagg. LXXXIX-XC.
[vii] Ibidem, pag. CLXXIII.
[viii] Ibidem, pagg. CXXXVI-CXXXVII.
[ix] Ibidem, pag. 707.
[x] P. P. Pasolini, Petrolio, a cura di Silvia De Laude, Oscar Mondadori, Milano 2005, pag. 27.
[xi] Ibidem, pag. 27.
[xii] E. Morante, Lo scialle andaluso; in E. Morante, Opere, cit., vol. I, pag. 1578.

Tratto dalla Pagine Corsare di Angela Molteni

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