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giovedì 6 marzo 2014

Idee pedagogiche in Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



«Può educare solo chi sa 

che cosa significa amare»


Idee pedagogiche in Pier Paolo Pasolini

Alessandra Grandelis



Ispirandosi a un articolo di Yves Benot, Tre anni di insegnamento a Conakry, lo scrittore racconta la storia di un insegnante bianco nel continente africano e del suo rapporto con gli allievi di Kado. Dopo la prima lezione sulle origini della poesia latina, mentre interroga il giovane più dotato, Davidson 'Ngibuini, che ripete meccanicamente delle “vuote” nozioni secondo il modello imposto dai precedenti metodi educativi dei colonialisti, il maestro sente il dovere di urlare agli alunni la loro libertà («Voi siete liberi, siete liberi!»; «Grida loro, stridulo, che essi non sono più sotto l’autorità e la retorica dei colonialisti: che sono liberi, sono liberi, sono liberi!»). (Pasolini 2001: 269; 275)
La scuola e l’insegnamento hanno incrociato in diversi modi la vita di Pier Paolo Pasolini, divenendo esperienze importanti non circoscrivibili a un preciso periodo dell’esistenza, ma destinate ad accompagnare lo scrittore nella sua crescita umana e intellettuale, e a trasformarsi in argomento di riflessione o in materia prima con cui costruire le proprie opere.
Figlio di una maestra elementare, Pasolini si è dedicato alla scuola, come alunno e come insegnante, con assoluta devozione; sono molte le interviste in cui affiorano i ricordi della fanciullezza e, mentre si racconta a Dacia Maraini, egli evoca le proprie “glorie scolastiche” da regalare alla madre 
(«Ogni mese […] distribuivano le medaglie ai più bravi. Mi ricordo un meraviglioso fiocco verde. Tornavo a casa di corsa. Vedevo mia madre alla finestra e le indicavo col dito il fiocco sul petto»); 
(Pasolini 1999:1674) 
insieme alla delusione causata da quell’incomprensibile bocciatura alle elementari, in italiano scritto, per un tema ritenuto «troppo poetico» (Pasolini 1999:1680) 1). Un impegno, quello del giovane Pasolini, severamente autocritico di fronte alle proprie «strane lacune» (Pasolini 1999:1675), dettato dagli insegnamenti materni:
Era importante per te l’affermazione scolastica? E perché?Sì, molto. Proprio per quei valori che mi aveva insegnato mia madre: la serietà, l’applicazione, l’entusiasmo per il sapere (Pasolini 1999:1675).
Questo atteggiamento nei confronti dell’istruzione caratterizzerà l’attività del Pasolini-insegnante, tanto che Andrea Zanzotto parla di una innata 
«vocazione pedagogica» e di «un disarmante, tranquillo atteggiamento pedagogico»  
(Betti, 1977:366).
Le prime esperienze del giovane professore avvengono dopo il trasferimento della famiglia, nel 1942, da Bologna nella patria friulana, che viene eletta a rifugio nell’attesa della fine della guerra. L’esordio didattico, che subito mette in luce la novità di un metodo basato su un interscambio paritario tra alunno e insegnante, risale al 1944: Pasolini apre nell’abitazione di Casarsa una “scuola privata” per coloro che, a causa dei bombardamenti, non hanno la possibilità di raggiungere le sedi di Pordenone e Udine. Nell'ottobre dello stesso anno Pasolini e la madre Susanna sono nuovamente costretti a lasciare il paese per stabilirsi a Versuta, una piccola frazione più sicura, e proprio qui decidono di dedicarsi entrambi all’istruzione, adibendo l’umile stanza che li accoglie a piccola aula scolastica: questo secondo esperimento dura per tutto il 1947 e prosegue con l’assegnazione, all’inizio del medesimo anno scolastico, dell’incarico di insegnante presso la scuola media di Valvasone 2) e anche dopo la fuga a Roma, nel dicembre del 1951, Pasolini ottiene un posto come professore nella scuola media parificata di Ciampino 3): per raggiungere l’istituto è necessario un lungo viaggio, prima in autobus e poi in treno, raccontato nei versi celeberrimi de Il pianto della scavatrice 
(«lontano dalla città e dalla campagna, stretto ogni giorno / in un autobus rantolante: / e ogni andata, ogni ritorno era un calvario di sudore e ansie »
(Pasolini 2003, I:836).
Queste notizie biografiche introduttive, seppur note a chiunque si sia avvicinato all’autore, consentono di fare il primo passo dentro il mondo pedagogico di Pasolini, che ha trasferito nelle proprie pagine l’esperienza vissuta, dimostrandone un valore non certo secondario. In tal senso Romàns è davvero esemplare poiché, dall’analisi di alcune sue parti, è possibile mettere a fuoco alcune importanti questioni attorno alle quali ruota l’approccio pasoliniano all’insegnamento. Il racconto, facente parte del progetto romanzesco pubblicato nel 1963 con il titolo Il sogno di una cosa, ha la sua genesi, suggeritaci da Nico Naldini, alla fine degli anni Quaranta e narra la storia di Don Paolo che, scisso tra chiamata pedagogica e spinta irrazionale dell’eros, apre un doposcuola per alcuni ragazzi della sperduta provincia friulana. La scrittura lascia largo spazio alle confessioni intime del diario del protagonista, che subito sente l’esigenza di chiarire come l’insegnamento, a cui si deve una dedizione totale, non possa essere da lui concepito in termini tradizionali, ma debba essere in grado di eludere le forme “classiche” del rapporto tra alunno e maestro:
Il lavoro del maestro è come quello della massaia, bisogna ogni mattina ricominciare daccapo: la materia, il concreto sfuggono da tutte le parti, sono un continuo miraggio che dà illusioni di perfezione. Lascio la sera ragazzi in piena fase di ordine e di volontà di sapere – partecipi, infervorati – e li trovo il giorno dopo ricaduti nella freddezza e nell’indifferenza. Forse gli insegnanti all’antica hanno ragione: occorre metodo, metodo, metodo. Bisogna annoiare i ragazzi, inchiodare le loro intelligenze, mediocri, alle forme più anonime e sicure. Cosa che io per costituzionale impotenza al calcolo sono incapace di fare…Rimandare è la mia condanna, ma anche il suo contrario: spremermi. Così con i ragazzi mi spremo e rimando. Che cosa riuscirò a insegnare loro? Non farò mica loro del male?  
(Pasolini 1994:39)
Nonostante Pasolini dichiari che l’interesse per la vicenda di Don Paolo, così come emergerebbe dagli appunti personali, «più che pedagogico sia umano» (Pasolini 1994: 39), è innegabile quanto le riflessioni sulla funzione della scuola appaiano illuminanti. Il “dolce peso” del suo ruolo spinge l’educatore a una continua messa in discussione delle proprie scelte didattiche, a una ricerca ininterrotta dei mezzi più validi per entrare in comunione con gli interessi degli allievi. In una pagina datata 23 febbraio Don Paolo annota di aver «letto qualcosa dei moderni metodi scolastici (l’attivismo) che si valgono appunto di mezzi che non siano la pura relazione oratoria dell’insegnante, sacrificando la tradizionale autorità di quest’ultimo per la partecipazione attiva dei ragazzi» (Pasolini 1994:40): l’alter ego pasoliniano, attraverso cui l’autore esprime le idee personali sull’argomento, identifica come ingrediente primo del proprio impegno la necessità di entusiasmare i giovani, a tal punto da far affiorare le attitudini di ognuno, contro ogni potere impositivo che provenga dall’alto. Il protagonista è costretto al rinnovamento continuo delle personali strategie che non nascondono, talvolta, di sentirsi inadeguate di fronte al fascino irresistibile esercitato dalla bellezza naturale di quelle colorite parlate sgrammaticate che si riversano nella scrittura dei temi 
(«[…] i ragazzi di Versuta, che tra gli errori di ortografia mi facevano leggere dei frammenti di italiano duri, umidi e poetici come pezzi di paesaggio») 
(Pasolini 1998:1335). 
Così 
«il metodo della Montessori e dei positivisti» non è in grado di catturare «il mistero e l’incongruenza che sono in fondo le concrezioni della libertà» 
(Pasolini 1994: 44); 
parimenti, gli idealisti non si preoccupano «dell’irrazionale, del gratuito e del puro vivente che è in noi» (Pasolini, 1994: 44): Don Paolo, per il quale «può educare solo chi sa cosa significa amare» (Pasolini 1994: 45), è consapevole che una pedagogia positiva può esistere solo se “viva”, nata e concepita sul campo, disponibile ai cambiamenti dettati dal contingente.
Per condividere l’avventura pedagogica pasoliniana non bisogna perdere di vista due elementi fondamentali: in primis, come già anticipato, quell’entusiasmo che non deve mancare né all’allievo né tanto meno all’insegnante 4); entrambi i soggetti, poi, sono legati da una fiduciosa corrispondenza che li colloca ad uno stesso livello nel percorso istruttivo. Nel cercare di chiarire questi due aspetti, è utile ricordare come la parola entusiasmo ricorra nella valutazione che Pasolini dà a dall’innovativa esperienza didattica avviata da Don Milani.
In un intervento del 1968 legato a una discussione con i ragazzi della scuola di Barbiana, lo scrittore dichiara che le pagine della Lettera a una professoressa lo hanno «entusiasmato» (Pasolini 1999:832); benché alcune severe critiche vizino tale giudizio, che non vuole celare come nel libro permangano l’idea dei tabù sessuali come unica forma di progresso (a differenza di quanto sostenuto da Marcuse in Eros e civiltà), una buona dose di moralismo e un certo riduttivismo pronto a ricondurre sempre il lettore a fatti e situazioni «rigorosamente concreti e pratici» (Pasolini, 1999:834), tuttavia non viene rinnegata «una violentissima carica di novità che entusiasma» (Pasolini 1999:833). Pasolini chiede all’esperienza di Barbiana di ambire a una «liberazione completa» (Pasolini 1999: 836), per spingersi oltre il particolarismo di un mondo contadino, ormai marginale in Italia, che esige di essere superato.
Risale al 1948 un’elegante prosa, Dal diario di un insegnante, in cui lo scrittore parla dei suoi primi esperimenti scolastici come di un percorso catartico che lo ha riportato alla purezza e costruito, appunto, sull’entusiasmo:

Ricordo che a Versuta, dov’ero sfollato nel ’44 – in quel periodo di vacanza morosa di paura e di solitudine – la ricostruzione della mia purezza avvenne improvvisa. […]Ricordo le prime ore di scuola, così soffuse di un acre e quasi languido senso di verginità, in cui io già incominciavo a manovrare con astuzia il mio candido entusiasmo, facendo della «emozione» qualcosa come una figura retorica di nuova specie, con cui minare il mio discorso di pause, riverenze, di esclamativi segreti  
(Pasolini 1998:1334).
Pasolini, con queste pagine di memorie, vuole condividere con il lettore la magia di quelle ore di lezione, in cui, appena ventiduenne, è impegnato a escogitare “giochi educativi” capaci di attirare l’attenzione di coloro che devono ricevere il frutto dell’insegnamento; e tra le architettate manovre ludiche, oltre al giardino in cortile per insegnare i nomi latini delle piante, figura l’invenzione di curiose storie, come quella del mostro triforme Userum per spiegare la seconda declinazione latina 5):
Si trattava di un mostro che pretendeva da un villaggio vittime umane (fanciulli e fanciulle!) da divorare, finché arriva un cavaliere (un giovane generoso) che affronta il mostro e lo uccide non senza difficoltà in quanto esso è triforme: Us, che si getta nel lago, Er che ripara nel bosco, e Um che si arrampica tra le rocce. La leggenda di San Giorgio, l’Ariosto, il duello degli Orazi e dei Curazi: una vera macchina. Ma mi servì, allorché rapidamente e senza colorito nella voce […] dichiarai che Us era «amicus», Er «puer», Um «domum», che l’intero mostro era dunque la seconda declinazione, che io ero il giovane che venivo a salvare essi, i fanciulli, dal sacrificio 
(Pasolini 1998:1336-1337).
La serietà con cui viene vissuto il momento didattico, che acquisisce tinte morali, è testimoniata dall’analisi a posteriori affrontata da Pasolini, il quale sente l’assoluto dovere di interrogarsi sulle scelte e sulle modalità della spiegazione in aula, poiché la propria passione pedagogica «non avrebbe avuto più senso se avesse richiamato su di sé l’interesse dei ragazzi, se non fosse stata puro e impersonale veicolo di insegnamento!» (Pasolini, 1998:1337): essere «mezzo, non già fine, d’amore», questa è l’anima che lo scrittore scorge nell’atto educativo (Pasolini 1998:337).
Tra il novembre del 1947 e il luglio del 1948 escono su “Il mattino del popolo” tre articoli pasoliniani che analizzano alcuni aspetti dell’istituzione scolastica a partire dalle coeve e recenti esperienze personali.
In Scolari e libri di testo, Pasolini identifica uno degli equivoci della scuola con l’esistenza di un modello di insegnamento che muove dall’alto verso il basso, ovvero che obbliga a una regressione verso il “facile mondo” del ragazzo, quando invece, con quest’ultimo, «bisognerebbe al contrario essere difficili» (Pasolini, 1999:51). Paragonata a una specie di «palestra dove il ragazzo è costretto a una ginnastica che non lo conferma in altro che nel distinguere subito il rispettabile e l’autorevole dallo scandaloso e dall’originale», e dove la gerarchia dei ruoli si trasforma in attrezzo correttivo, la scuola nega aprioristicamente quell’avventuroso amato dai giovani, relegato alle sole pause della ricreazione, che potrebbe aiutare nel processo di apprendimento. Tutto questo si concretizza nei libri di testo, così come dimostrano le scelte operate per le antologie letterarie:
Dove vadano a pescare i loro titoli questi compilatori di antologie, lo sa Iddio: sono dei veri ruderi […]. In altre parole: il solito trionfo di un poeta che in tal caso è esemplare, lo Zanella, circondato da un folto stuolo di buoni scrittori del secolo scorso, la cui unica difficoltà, quando non si tratti di pezzi aneddotici tolti da qualche “circolo d’infanzia” o descrizioni di vite infantili (da cui, tra parentesi, i ragazzi non si lasciano affatto commuovere, stufi come sono della propria infanzia), consiste al solito nell’atmosfera propedeutica o moraleggiante 
(Pasolini 1999:53).
Le raccolte antologiche escludono il Novecento – o lo illustrano con una selezione di testi non certo rappresentativi della personalità di un autore – perché troppo difficile quando, al contrario, proprio «il difficile (che è poi il nuovo) appassiona sempre i ragazzi» (Pasolini, 1999:53); a questo proposito, Pasolini non dimentica la felicità di alcuni scolari sprigionata dalla lettura de Il capitano di Ungaretti, un’affascinante impresa, una scoperta dentro l’abisso delle parole:
Si trattava insomma di scostare i fili d’erba per spiarvi l’insetto misterioso. Quando io scostai le difficoltà non fantastiche ma logiche, ed essi, dietro le parole difficili, lessero una storia, una leggenda, si ebbero il batticuore, l’interesse, l’impegno; che crebbero poi quando dopo la spiegazione recitai la lirica in modo che per i ragazzi avessero valore il corsivo, il tondo e gli spazi bianchi, tramutandosi, come in un gioco di prestigio, nelle inflessioni della voce e nel vibrare della voce.
(Pasolini, 1999:54) 6).

Il vero lavoro dell’educatore, e cioè quello «di liberazione e di depurazione» dalle «cristallizzazioni dell’autorità» [Pasolini, 1999:56], viene descritto da Pasolini in Scuola senza feticci; qui si sente come necessario l’annientamento di tutti gli idoli imposti, primo fra tutti l’insegnante convenzionale («Il professore diviene così una specie di feticcio a cui il ragazzo tributa il suo più o meno cosciente terrore») (Pasolini 1999:57).
L’alunno non può e non deve abbandonarsi alla passività, argomento su cui insiste in Poesia nella scuola, ritornando a riflettere su cosa rappresenti lo studio della tradizione lirica nel sistema scolastico; egli crede, innanzitutto, che la poesia sia oggetto di un’ingiustificata marginalità all’interno dell’insegnamento e che sia sottomessa a una lettura «meramente pedagogica» (Pasolini, 1999:77), incapace di trasmettere l’alto valore di «questo sommo prodotto della civiltà» in cui «trovano una forte vita fantastica vasti e originari motivi culturali e psicologici» (Pasolini 1999:78). Per Pasolini
questo studio è complementare a quello della grammatica e della sintassi […]. Ecco allora chiarirsi la funzione della poesia nella scuola come coscienza linguistica, come iniziazione all’inventio, dopo il chiarimento grammaticale, sintattico e fraseologico dell’istituzione linguistica, dell’inventum
(Pasolini, 1999:78-79).
Nel mettere in relazione ogni approfondimento introspettivo con ogni scoperta linguistica, l’autore è convinto, anche alla luce dei risultati ottenuti nell’esperienza di Valvasone, che i testi poetici da spiegare nella scuola media siano da scegliere soprattutto «tra quelli dei poeti viventi, che usano una lingua viva non solo come lessico ma proprio come concezione dell’uso espressivo e come scelta dei sentimenti da esprimersi» (Pasolini, 1999:79) 7). È attraverso un approccio didattico di questo tipo che Pasolini riesce a correlare le tre questioni al centro delle pagine saggistiche sin qui considerate, e cioè il ruolo dell’insegnante, la funzione della poesia e l’interesse dell’alunno:
È allora equo che l’insegnante ricorra a un clemente principio d’autorità (che potrebbe essere: necessità della poesia come il più alto modello di comunicazione in una società e come il più attendibile mezzo di chiarificazione), e che nello stesso tempo susciti nell’allievo quella curiosità e quella passione che, naturalmente, eliminino la fatica di un’attenzione «passiva»
(Pasolini 1999:80).
Pasolini riversa queste idee sull’istruzione in una sceneggiatura del 1962, Il padre selvaggio, che, come è noto, non ha trovato la realizzazione cinematografica per il processo al film La ricotta, così come testimoniano i versi di E l’Africa?.
Ispirandosi a un articolo di Yves Benot, Tre anni di insegnamento a Conakry, lo scrittore racconta la storia di un insegnante bianco nel continente africano e del suo rapporto con gli allievi di Kado. Dopo la prima lezione sulle origini della poesia latina, mentre interroga il giovane più dotato, Davidson ’Ngibuini, che ripete meccanicamente delle ‘vuote’ nozioni secondo il modello imposto dai precedenti metodi educativi dei colonialisti, il maestro sente il dovere di urlare agli alunni la loro libertà («Voi siete liberi, siete liberi!»; «Grida loro, stridulo, che essi non sono più sotto l’autorità e la retorica dei colonialisti: che sono liberi, sono liberi, sono liberi!») (Pasolini 2001:269;275). Dal testo, a cui non si può negare un valore anche letterario, emerge subito la forza del rivoluzionario metodo del professore che, per cercare un contatto con i propri interlocutori, via via escogita nuove possibilità educative capaci di esulare dai «concetti già resi aprioristici dalla scuola» a favore di «mezzi non strettamente scolastici», rivolgendosi, ad esempio, alla poesia di un poeta di colore moderno. Non a caso, in perfetta coerenza con quanto illustrato,
è una poesia difficile: prodotto culturale di raffinata scuola europea (da Dylan Thomas giù ai simbolisti), e quindi stilisticamente poco abbordabile. Inoltre, il suo contenuto è altrettanto difficile, perché prodotto da una ideologia che mescola progressismo e nazionalismo, laicismo e rivendicazioni dello spirito ancestrale. I ragazzi capiscono il loro poeta ancora meno di Ennio o Nievo e l’insegnante allora si accinge a parafrasarla, spiegandola verso per verso, immagine per immagine. Rendendo le immagini famigliari ai ragazzi, quelle ch’esse sperimentano tutti i giorni, nella loro vita quotidiana a Kado 
(Pasolini 2001:272).
Ancora, in questo frammento, le potenzialità della poesia “difficile”, in grado di catturare l’attenzione degli allievi, si uniscono al significato di una poesia viva che non è espressione di una cultura lontana dalla realtà, bensì intimamente e profondamente legata ad essa. Allo stesso modo, il primo tema assegnato alla classe africana è antiaccademico e richiede agli alunni una descrizione del proprio villaggio; le prove risultano disastrose poiché i ragazzi sono incapaci di testimoniare ciò che vedono e di dare forma ai propri sentimenti 8): infatti, la prima vittoria didattica coincide con l’abbandono di ogni modello retorico a favore di una scrittura che riesce a imprigionare la bellezza di quella terra primitiva, l’attuale poesia del mondo africano (alla domanda di Davidson su cosa sia la poesia, il maestro risponde: «Sei un africano, sei immerso nella poesia!») (Pasolini 2001:280).
Al di là del cammino interiore che il giovane Davidson deve affrontare – giunge alla scoperta della poesia come esito di «un duro sentimento di passione razionale» attraverso la convivenza, in lui, di richiami tribali e delle moderne norme apprese a scuola (Pasolini 2001:313) – qui interessa, ancora una volta, la tipologia di un rapporto alunno-insegnante fondato sulla continua messa in discussione delle due parti per un elevato fine educativo.
La tensione pedagogica ha accompagnato l’autore per tutta la vita. Anche Paolo Volponi titola un suo scritto Pasolini maestro e amico, sottolineandone, all’indomani della morte, quell’innata esigenza di comunicare, di istruire, ma con un modo nuovo che non trascurava, appunto, il costante rapporto dialettico con l'“allievo” del momento:

Era un buon maestro sempre in dibattito con lo scolaro, in quella tensione cioè davvero innovativa, al punto da rovesciare spesso le parti. E come scolaro lui si poneva spesso, davanti a tanti interlocutori, ai lettori dei suoi libri, o in numerosi dibattiti o in tante rubriche sulla stampa, da quella di “Vie nuove” a quella ultima su “il Mondo” 
(Volponi 2002:655; cfr. Zinato 2008).

Se nelle rubriche delle riviste che lo hanno ospitato Pasolini si è mostrato disponibile a ridiventare un “alunno”, pronto ad accettare eventuali critiche, richieste di chiarimento e a subire, talvolta, le accuse di chi gli scrive, sono proprio le pagine uscite su “Vie nuove” e su “Tempo” quelle in cui i lettori possono entrare in contatto con uno scrittore che non si presenta solo come tale, ma pure in veste di “pedagogo” (Pasolini 1992:XII); cosicché ai molti giovani che lo interpellano nella speranza di trovare delle risposte alla ricerca di un’alternativa a «una vecchia educazione e cultura», Pasolini, umanamente vicino a questo sentire, dedica parole di lucida comprensione. Proprio sul “Corriere della Sera” e sul “Mondo” – in una rubrica intitolata La pedagogia – esce, a puntate, tra il gennaio e l’ottobre del 1975, l’esito ultimo del ‘programma didattico’ pasoliniano (per quanto concerne la scrittura): il trattato pedagogico Gennariello che confluisce poi in Lettere luterane in versione non definitiva, poiché al corpus in nostro possesso, secondo quanto emerge e dal testo e dall’indice dei materiali preparatori, sarebbero stati aggiunti nuovi capitoli. Tuttavia, a quest’altezza, è oramai profondamente mutato l’atteggiamento di Pasolini nei confronti della pedagogia che, nel corso del tempo, secondo quanto sottolinea Enzo Golino, «diventa via via sempre più violenta, si nutre di provocazioni» (Golino 1985:187); infatti, le grandi polemiche pasoliniane, che già avevano animato pedagogicamente gli Scritti corsari, trovano nuovo spazio tra le righe di Gennariello.
In quest’opera Pasolini è il “precettore” di un immaginario discepolo le cui origini, non a caso, napoletane sono il simbolo di quella forma di sopravvivenza arcaica, non sedotta dalla modernità, che l’autore scorge nel popolo-tribù di Napoli (cfr. Pasolini 1999:230-231). Pasolini sa che una scelta di questo tipo è l’unica a potersi dimostrare fruttuosa perché, con i napoletani, «lo scambio di sapere è […] assolutamente naturale» (Pasolini 1999:552). Queste parole custodiscono quella peculiare costante del discorso didattico che lo scrittore costruisce nel tempo, ovvero l’innegabile duplicità di un rapporto educativo, ribadita anche alla fine del Paragrafo primo («Dunque, come io ti ho scelto, tu mi hai scelto. Siamo pari. Ci stiamo scambiando dei favori») (Pasolini 1999:553). Inoltre, nel presentarsi all’alunno, ancora una volta l’insegnante colloca a fondamento del proprio metodo l’esigenza di una liberazione da tutto ciò che si presenta come istituito e la riscoperta di tutti i sentimenti ormai svuotati dal potere consumistico:
Per queste ragioni sappi che negli insegnamenti che ti impartirò, non c’è il minimo dubbio, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti stupidi automi adoratori di feticci 
(Pasolini 1999:556).
Prima di cominciare con le lezioni, Pasolini illustra al giovane interlocutore il progetto educativo che, mentre diverte – la componente ludica dell’apprendimento non viene mai meno –, si pone provocatoriamente non sotto l’«ombra mostruosa di Rousseau», bensì di «De Sade» (Pasolini 1999:566). Le prime cinque parti – possiamo leggerne solo alcune – sono di carattere metapedagogico e affrontano, in una rassegna che annovera le fonti educative della contemporaneità, in ordine: il «linguaggio pedagogico delle cose», in particolare dei beni di consumo; i giovani, i coetanei di Gennariello, catalogati dalla sensibilità antropologica di Pasolini; il ruolo della famiglia; quello diseducativo di una scuola in cui molti maestri e professori contribuiscono alla degradazione della persona; infine, la stampa e la televisione. Le altre cinque sezioni che, purtroppo, non sono state realizzate, avrebbero dovuto trattare del sesso, del comportamento, della religione, della politica e dell’arte.
Nonostante Pasolini investa tutta l’energia a sua disposizione nel dialogo con l’alunno, ammette la personale impotenza nei confronti della forza comunicativa del linguaggio delle cose moderne, i cui insegnamenti sono impossibili da scalfire. Il trattato, infatti, istituisce un confronto continuo tra la vita dell’autore e quella del giovane, tra un’esistenza che ha conosciuto i ritmi antichi della vita e quella intrapresa nell’epoca del totalitarismo consumistico.
Questa analisi – che non ha nessuna pretesa di essere esaustiva, perché la creatività dello scrittore, in campo didattico, si ramifica nell’intera opera – si è voluta limitare ad alcuni esempi tratti dalle prove letterarie e saggistiche di Pasolini, trascurando altri linguaggi artistici. Bazzocchi, a ragione, nel considerare la Pedagogia come parola-chiave dell’esistenza pasoliniana, sottolinea come l’esigenza educativa sia centrale anche nella produzione cinematografica, ricordando il sapiente corvo di Uccellacci e uccellini alle prese con Totò e Ninetto, e il centauro sdoppiato di Medea (Bazzocchi, 1998:150). Addentrandosi nell’inferno di Salò, Roberto Chiesi affronta il degradante e orribile «“gioco” pedagogico» a cui i signori del potere sottopongono le giovani vittime, e opera, in riferimento al primo pranzo nel Girone delle manie, una distinzione tra l’occasione didattica indiretta e quelle indiretta: ogni perversione, nelle sue diverse forme, serve a «instillare un insegnamento» (Chiesi 2006:32; 34). Pasolini non racconta più, all’altezza degli anni Settanta, il proprio ‘sogno educativo’, lontano da ogni volontà di indottrinamento e di coercizione, ma, al contrario, mette in scena la ferocia di chi sta preparando l’avvento della nuova umanità: «una nuova gioventù di carnefici-spettatori, assuefatti alla prassi dell’abuso e della violenza, è pronta per il mondo futuro» (Chiesi 2006:36).

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Riferimenti bibliografici

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Bazzocchi, M.A. (1998), Pier Paolo Pasolini, Milano, Bruno Mondadori.
Betti, L. (1977, a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Milano, Garzanti.
Chiesi, R. (2006), I sommersi e i salvati nell’Inferno di Salò. Stazioni e rituali di un crudele itinerario pedagogico, in «Poetiche», vol. 8, n. 1.
Golino, E. (1985), Pasolini: il sogno di una cosa, Bologna, Il Mulino.
Meacci G. (1999), Improvviso il Novecento. Pasolini professore, Roma, Minimum Fax.
Naldini, N. (1989), Pasolini, una vita, Torino, Einaudi.
Pasolini, P.P. (1986), Lettere 1940-1954, a cura di N. Naldini, Torino, Einaudi.
Id. (1992), I dialoghi, a cura di G. Falaschi, prefazione di G.C. Ferretti, Roma, Editori Riuniti.
Id. (1994), Romàns, a cura di N. Naldini, Parma, Guanda.
Id. (1998), a cura di W. Siti e S. De Laude, Romanzi e racconti, vol. I, Milano, Mondadori.
Id. (1999), a cura di W. Siti e S. De Laude, Saggi sulla politica e sulla società, Milano, Mondadori.
Id. (2001), a cura di W. Siti e F. Zabagli, Per il cinema, tomo I, Milano, Mondadori.
Id. (2003), Tutte le poesie, tomi I-II, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori.
Volponi, P. (2002), a cura di Emanuele Zinato, Romanzi e prose, II, Torino, Einaudi.
Zinato, E. (2008), «Maestro e amico»: Volponi attraverso Pasolini, in «Studi pasoliniani», II, pp. 23-36.

Note:

1) Il poeta trasferisce i propri ricordi scolastici nella poesia; la raccolta Via degli amori (1946) è punteggiata di sospese immagini che serbano i momenti trascorsi sui banchi di scuola. A titolo di esempio, la lirica intitolata Scuola (A Sacile nel ’32) recita: «Nell’aula vinta dal profumo rosa / dei mandorli, geme un maggiolino. / E alla trepida luce che dilaga / dai vetri suggellati su indistinte / sonorità, estatica la voce / della maestra a noi distratti il verde / melograno dai bei vermigli fior / compita nell’assolata noia» (Pasolini 2003, II:714).

2) Pasolini accenna a questi esperimenti didattici friulani nella corrispondenza rivolta agli amici. In una lettera del 29 ottobre del 1943 indirizzata a Fabio Luca Cavazza scrive: «Ora sono così riequilibrato che sto aprendo perfino una scuola media privata per gli studenti di qui» (Pasolini 1986:186); e nel gennaio del 1944 confida a Renato Serra di «fare lezione per circa 5 ore al giorno» (Pasolini 1986:189).

3) In una lettera a Giacinto Spagnoletti datata 21 gennaio 1952, Pasolini scrive: «Purtroppo devo limitarmi a un rachitico biglietto, perché è sera e sono esausto; e non so quando potrò scriverti di più. Mi alzo alle sette, vado a Ciampino (dove ho finalmente un posto di insegnante, a 20.000 lire al mese), lavoro come un cane (ho la mania della pedagogia) torno alle 15, mangio […]» (Pasolini 1986: 463).

4) Intervistato da Meacci, Ugo Ferranti, che ha avuto Pasolini come insegnante, parla del suo entusiasmante metodo di insegnamento: « “Il suo metodo era quello dell’ ‘insegnamento totale’; non c’erano i blocchi definiti delle materie. Quando leggevamo l’Iliade si faceva anche geografia, il discorso si ampliava. ‘Dov’è Troia?’. Allora lui ci indicava la zona dei ritovamenti sulla cartina. Eravamo entusiasti…ci fece subito capire, e amare, il suo metodo di insegnamento» (Meacci, 1999:94).

5) A proposito dello studio del latino, Aldo Terrezza ripensa ai metodi del professor Pasolini: « “Se dovessi fare un’analisi dei giorni di scuola, ripensando a quei momenti non emerge in modo particolare qualcosa di preciso. Era tutto il suo sistema…come vogliamo definirlo? Il modo che aveva di insegnare le varie materie. Il latino, per esempio: lo scopo dello studio del latino. […]. Il fatto che la lingua italiana derivasse dal latino…ce lo faceva studiare scegliendo appositamente dei brani particolari. Per me era ostico, questo latino. Però col suo metodo me l’ha fatto capire, me l’ha fatto assimilare”. […]. Cerca in un anfratto della sua memoria e recita: “Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum…Ecco per farci capire come Virgilio voleva descrivere il galoppo dei cavalli, ci diceva: ‘Voi provate a leggere in questa maniera, come vi suggerisco io… Quàdrupedànte putrèm sonitù…Non sentite il galoppo dei cavalli?’. In questo modo le lezioni ci rimanevano impressetudio del latino. ie materie.ei momenti non emerge in modo particolare qualcosa di preciso. » (Meacci 1999:304-305).

6) L’ex allievo Ugo Ferranti ricorda la lettura di questa poesia di Ungaretti: «Ci leggeva poesie di Saba, di Palazzeschi, di Ungaretti. Ardengo Soffici e tutta l’avanguardia futurista. Ricordo quando ci fece leggere una poesia di Ungaretti…quella che dice: Il Capitano era sereno. / (Venne in cielo la luna) / Era alto e mai non si chinava…La so ancora a memoria. Anche se non l’ho mai più riletta da allora. Lui non voleva che imparassimo a memoria le poesie, ma ce le faceva amare talmente che poi tornavamo a casa e le rileggevamo decine e decine di volte» (Meacci, 1999:103).

7) Vincenzo Cerami ha conosciuto Pasolini proprio a Ciampino, quand’era un giovane studente dello scrittore; sullo studio della poesia ricorda: «Lui ci presentava la poesia soprattutto come un evento linguistico. Come qualcosa che ci apparteneva. “La poesia – ci diceva – non è una cosa da studiare per fare i compiti”. Noi stessi dovevamo trovare la nostra problematica; almeno indovinarne, inventarne una, nostra, sulla base di quella logica che è la logica poetica. Naturalmente con i poeti contemporanei la questione era più semplice, probabilmente, perché la loro lingua è, in pratica, la tua lingua. Questo non toglie che ci facesse anche studiare Dante»; e sul rapporto tra i poeti della tradizione e quelli contemporanei: «Quando Pier Paolo ci faceva leggere gli autori contemporanei e, contemporaneamente, ci faceva leggere Dante Alighieri e i poeti antichi, noi li ponevamo tutti sullo stesso piano. Non c’era un atteggiamento filologico in un caso e puramente estetico nell’altro, solo per il fatto che si trattava di autori molto vicini a noi. Era ai nostri occhi un parlare di noi attraverso linguaggi diversi e forme – in quel caso poetiche – diverse» (Meacci, 1999:32; 41-42).

8) Questo atteggiamento pedagogico è il medesimo che Pasolini aveva usato anni prima a Ciampino; Laura Bonifaci racconta: « “Lui voleva la semplicità. Ci diceva di guardare fuori: ‘Dovete cercare dentro voi stessi, e poi guardare fuori dalla finestra. Solo così si può trovare la traccia per scrivere un tema’. Usava il sistema della maieutica di Socrate. Non voleva indottrinarci. Ci insegnava, ci faceva conoscere determinate cose, però poi quello che voleva era che tirassimo fuori, da dentro di noi, i nostri sentimenti, le nostre osservazioni» (Meacci, 1999:158).

Fonte:
http://masterintercultura.dissgea.unipd.it/trickster/doku.php?id=educazione_formazione:grandelis_pasolini



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