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Le pagine corsare - Riflessioni su "Processo alla DC"

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mercoledì 1 gennaio 2014

La Regina Esigente e la Madre Consolatrice - di Sandra Bardotti

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




La Regina Esigente e la Madre Consolatrice
di Sandra Bardotti

La crisi ideologica che, negli anni Sessanta e Settanta, ha portato Pasolini fino alla sfiducia testimoniata dagli Scritti corsari e dalla Lettere luterane, oltre che dalla produzione poetica, narrativa, teatrale e cinematografica, fu una profonda crisi personale, che portò alla rottura con una grande personalità che si era legata a lui con un vincolo di affetto profondo e intimo, Elsa Morante. Non ha senso cercare di stabilire quale delle due sia maggiormente rilevante. Credo sia solo possibile affermare che furono concomitanti, che l’una coinvolse l’altra. Sicuramente il distacco dalla Morante fu un momento molto difficile per Pasolini, perché coinvolse e mise in crisi anche la visione di intellettuale e di uomo che egli aveva di se stesso.
Pasolini e la Morante si conobbero verso la metà degli anni Cinquanta, e la loro conoscenza fu mediata dalla figura di Alberto Moravia. L’ammirazione di Pasolini per la scrittrice si manifesta già nel 1953, quando egli ha la possibilità di leggere Lo scialle andaluso, apparso su ‹‹Botteghe oscure››. È tra il 1953 e l’anno successivo, dunque, che si deve collocare l’incontro personale, testimoniato dall’epistolario pasoliniano. Subito tra i due scatta una reciproca stima, ma anche un dialogo produttivo che non risparmia critiche e biasimi; insomma, un rapporto di sincera amicizia. La frequentazione si fa assidua soprattutto durante gli anni Sessanta, e nel 1961 l’amicizia si era consolidata a tal punto che i tre organizzarono insieme un viaggio in India. Di questa esperienza rimangono le testimonianze di Pasolini (L’odore dell’India) e di Moravia (Un’idea dell’India), così diverse tra loro, che documentano due approcci assai distanti al paese visitato. Indicativo è che Pasolini si presenti più solidale con le idee di carità che Elsa mostra di avere, rispetto al maggiore realismo scettico dell’amico Moravia. “La fraternità si cementa in una comune appartenenza alla razza di coloro che hanno ‹‹come ideale della vita, quello di svuotare con un ditale il mare››[i][ii]. Anche se il realismo dei primi romanzi romani pasoliniani sembra così diverso dall’indagine psicologica con cui sono indagati i personaggi delle borgate romane nei romanzi della Morante, un filo sottile lega i due scrittori. È l’amore per i ragazzini, per una società sottoproletaria che appare ancora incosciente dei cambiamenti messi in atto dal nuovo Potere consumistico, che attraversa i loro romanzi. Il discorso potrebbe essere più chiaro se analizzassimo il significato che il concetto di “barbarie” viene ad assumere nell’opera di entrambi, ma non è questo il luogo per affrontare un parallelo che pure si rivelerebbe interessantissimo; per chi volesse approfondire l’argomento preferiamo rimandare al bel saggio di Massimo Fusillo[iii]. Basterebbe la testimonianza dell’incipit de Il pianto della scavatrice: “Solo l’amare, solo il conoscere / conta”[iv], che omaggia il morantiano “Solo chi ama conosce”[v](Alibi), per capire la comunione di visione e le corrispondenze che si venivano a creare tra i due poeti. Si tratta di un’adulazione reciproca, di un omaggiarsi a doppio senso, di rispecchiamenti continui dell’altro nella propria opera. Per celebrare l’amica, Pasolini le dedica anche il volume La religione del mio tempo, uscito nel 1961.
Pasolini deve essersi presentato alla Morante, fin dai primi momenti della loro amicizia, come un nuovo Rimbaud. Del resto, egli è uno dei pochi autori del nostro Novecento che abbia ripetuto un’esperienza così rivoluzionaria come fu quella di Rimbaud un secolo prima. La sua genialità, la sua precocità colpirono immediatamente una donna così sensibile e attenta al mondo letterario. Poi ci fu la comunanza di motivi, temi, intenti: Pasolini le appariva come colui che avrebbe potuto, come Rimbaud, accusare con violenza inaudita il mondo del nuovo capitalismo, dare una scossa a tutta la società borghese che stava procedendo al genocidio del mondo sottoproletario, svelare con la forza della sua parola l’inganno che si celava dietro l’apparente benessere. Già in Poesia in forma di rosa, però, Elsa scorgerà una radice narcisistica e una vena di populismo che non apprezzerà. Così, dopo aver letto Poesia in forma di rosa, nel 1964, scrive e invia all’amico un testo “scherzoso”, Madrigale in forma di gatto, un calligramma in cui lo accusa di ipocrisia, di finto amore, di malafede ideologica:

La rosa è la forma delle beatitudini.
Beata l’angoscia in forma di rosa.
Beato il disordine e la libidine sanguinosa
la passione di sé invereconda gli eccessi di velocità e
le orge funebri
il nero rifiuto dello sposalizio le bandiere dell’oltran-
za le corazze dell’ignoranza
i vari equivoci dell’egoismo le mascherate degli
stracci
le carità pretestuose le immondizie deificate
i pregiudizi di casta l’alibi storicistico
le complicità attuali, l’adorazione ai padri farisei, la
paura della castrazione
il candido tradimento il pianto vantone
la corda sentimentale e la spada della ragione
beate le secrezioni i visceri della letteratura l’oratorio
la mistificazione
quando finalmente s’aprono in forma di rosa!
Il ragazzo che si intende protagonista del mondo
(protagonista anche se bandito, anzi di più perché bandito…
starà sempre beato al centro della rosa.
E lui beato ignorerà gli altri peccatori al bando della rosa
e al bando di se stessi
non protagonisti del mondo
non leggenda di se stessi
soli senza nessun addio. Agonie senza nessun pianto
e nessuna rosa
Il gatto che non crepa[vi]
Non sono accuse da poco. Sostanzialmente Elsa accusa Pasolini proprio di falso amore verso il sottoproletariato, di narcisismo e protagonismo. A ciò si aggiungerà uno screzio ancora più grande: quando l’Arco Film si rifiuta di pagare due attori amici di Elsa che avevano partecipato al Vangelo secondo Matteo, e Pasolini non fa niente contro la casa di produzione cinematografica, scriverà all’amico:
É chiaro che aspettarsi un simile rispetto da parte di quegli immondi stronzi dell’Arco Film era utopistico, per non dire cretino, giacché loro non rispettano che la merda (cioè proprio quelle poche miserabili lire che tu dici). Almeno avrei voluto che tu, con la tua autorità, gli facessi almeno mettere il muso nella merda loro, almeno per un momento, e che si vergognassero almeno (loro stessi per la loro parte in quanto persone) della loro merda ecc. ecc. […] E tu sai benissimo che il pagare di tua tasca (o io di mia tasca) qui non significa niente […]. Perciò anche se tu fossi miliardario (e purtroppo non lo sei) non potrei accettare i tuoi soldi […]. L’ombra che tu dici sulla nostra amicizia lo sai benissimo non è il debito tuo, che fra l’altro non esiste; ma ‹‹l’adorazione ai Padri Farisei›› come ti avevo già scritto nella poesia. Ma non è vero che questa è la prima volta che c’è quest’ombra.[vii]
Elsa, dunque, gli rimprovera una complicità con i padroni, l’incapacità di opporsi alla forza capitalistica; accusa durissima per un poeta civile che tutto voleva mostrare di essere tranne che un borghese omologato e consumista come gli altri. L’immagine che Elsa si era costruita di Pier Paolo continuerà a sgretolarsi col tempo. Intanto, siamo arrivati alla metà degli anni Sessanta e, nonostante queste polemiche tra i due, si può affermare che è il periodo di maggiore vicinanza ideologica. Entrambi sono in disarmonia con il mondo, ma mentre Pasolini sembra spinto a scrivere e produrre sempre di più come se si trattasse di una competizione contro la società del Potere, Elsa se ne sta da parte facendosi scudo con il suo ammaliante umorismo. Mentre Pasolini accusa e respinge quella società che continuamente lo esclude, Elsa ama chi la odia e non chiede niente in cambio, come amano le madri. Mentre Pasolini cerca di rinnegare la sua appartenenza piccolo-borghese con lo strumento della rimozione, Elsa usa quello della parodia innamorata.
Dopo il 1969 i contrasti subiscono una chiusura comunicativa e cessano di essere dispute produttive e stimolanti per entrambi. La Morante si sente sostanzialmente delusa. Pasolini non si è rivelato essere quell’uomo che lei aveva dipinto, quel geniale Rimbaud forte della sua maledizione. Pasolini era diventato insopportabile nella sua angoscia di sentirsi sempre messo sotto accusa. Si sentiva escluso e condannato anche quando non lo era, e avvertiva il bisogno di difendersi continuamente. Si ripiegava sempre più su se stesso, e aveva abiurato per sempre quella vena poetica così pura delle poesie friulane e delle Ceneri. Alla Morante sembrava che egli perdesse tempo inutilmente. D’altra parte, lui si sentiva chiuso nel rimorso di non essere stato all’altezza di quella figura che lei aveva creato di lui. Si sentiva sopravvalutato da Elsa, e ciò gli provocava il vergognoso rimorso di non essere riuscito a soddisfare le sue aspettative.
Nel 1971, dopo l’uscita di Trasumanar e organizzar, Elsa scriverà una lettera per cercare di sottrarsi al ruolo di “Regina Esigente” che Pasolini le aveva attribuito:

Si sa che ogni spiegazione è inutile.
Tanto l’altro spiega la nostra spiegazione
con la sua spiegazione. E così l’equivoco
gira in eterno. Ma questo è bene in fondo
come in fondo tutto è bene […].
A ogni modo (anche se NON ‹‹a scanso di equivoci››)
io qui m’affanno a comunicarti
quello che tu vuoi negare: insomma che
non rimprovero NIENTE A NESSUNO
e tanto meno a te. […]
[…] Io rimprovero solo ME, per una cosa
e anche me, per quella sola (ti avverto
che se credi d’averla indovinata ti sbagli).
È la sola cosa che non c’è nel tuo libro
che pure è un libro disperato.
Disperato ma beato
perché quella cosa non c’è
(e se credi d’indovinarla ti sbagli).
Il tuo libro è disperato-beato perché sì. Dentro
c’è Pier Paolo
e Ninetto e Maria e pure Elsa
(benché solo l’Elsa che tu vuoi conoscere
e cioè dico la pura la
inconcussa Oh Dio
essa è concussa e invece impura
ecc. ecc.
Ma tu beato vuoi che gli appartenenti
a Pier Paolo
siano come Pier Paolo li vuole
e hai ragione. BADA! HAI RAGIONE!!
? Forse il solo modo di farli esistere (gli altri)
È questo: il tuo).
A ogni modo, nel tuo libro c’è Pier Paolo
e basta[viii]
La Morante testimonia dunque l’impossibilità di un dialogo con Pasolini, perché quest’ultimo non riesce più ad ascoltare gli altri e a instaurare un confronto. Nelle sue poesie c’è solo lui, solo il suo narcisismo, e non c’è posto per gli altri. Al massimo vi si sente l’eco di altre persone a lui care e vicine, ma la loro immagine risulta sempre filtrata e deformata dalla presenza di un Ego assoluto e totalizzante, padrone incontrastato della scena. Così Elsa gli rivela anche di non essere la pura e inconcussa che egli credeva, né tantomeno colei che crede di avere l’autorità di rimproverare qualcuno.
Poi, nel 1971 Ninetto decide di sposarsi. È questo l’anno della crisi definitiva con la Morante. Pasolini si sente abbandonato, tradito dall’amico, e lo accusa di aver voluto seguire la propria natura allontanandosi da un “dovere” che aveva nei suoi confronti. Ad agosto scrive a Volponi:
Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o a cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia, almeno per la presenza lieta, inalterabile di lui. Ti prego, non parlarne con persona al mondo. Non voglio che si parli di questa cosa. Tu e Elsa siete i soli (con Nico) che lo sanno. Può darsi che io riesca a vivere ancora.[ix]
Elsa sta dalla parte di Ninetto, sostiene il suo diritto a innamorarsi di una donna, e dice a Pasolini che amare vuol dire desiderare il bene di chi si ama, senza chiedere niente in cambio. Chi gli aveva finora dato sostegno e garantito forza vitale se ne va, lasciandolo solo. Egli non sopporta di restare solo con la propria diversità. Così, proietta sulla Morante il fantasma della “Madre Consolatrice”. Sa che la verità della Morante, della Madre, è superiore, ma proprio come un bambino non vuole accettarla.
Il ritratto che Pasolini ci offre di Elsa in Petrolio dimostra come l’amica sia stata un centro focale fino agli ultimi anni, e quanto la sofferenza provocata dal suo abbandono abbia inciso anche nelle scelte formali della sua ultima produzione. Viene detto subito di lei che aveva “il viso di giovane gatta”[x], e anche i caratteri psicologici le appartengono inequivocabilmente (“padrona del proprio pensare, per quanto il suo fondo potesse essere passionale, viscerale e tempestoso”[xi]). Tutta impegnata nella sua opera di carità nei confronti di un ragazzino alquanto bruttino, ma che a lei doveva sembrare bellissimo, non sta ad ascoltare l’amico. Lei non sta mai a sentirlo, per tutta la durata della loro amicizia; questo è quello che Pasolini, da figlio, le rimprovera. Lui ha un segreto di incalcolabile valore storico che vorrebbe donarle, perché è stata lei stessa a porsi nel mondo come una che non ha nulla da perdere. Ma lei rifiuta lo scambio, rifiuta di prendersi questo peso. Pasolini le rimprovera anche di non essersi mai schierata al suo fianco nelle battaglie sostenute contro le istituzioni e la politica, di essere sempre stata passiva.
Credo sia possibile che il recupero dell’opera di Rimbaud nell’ultimo Pasolini, di cui ho già parlato nel saggio Una lunga stagione in inferno: Rimbaud nell'opera di Pasolini, edito in Studi pasoliniani (n. 3, 2009), sia dovuto alla volontà del figlio-Pasolini di dimostrare alla madre-Elsa che l’immagine che lei aveva sempre dipinto di lui era vera. Come un bambino che voglia dimostrare alla madre il suo amore. La nega, la accusa, ma nello stesso tempo le ubbidisce. Tutto come nel più comune dei rapporti madre-figlio. Questa è la motivazione che abbiamo intravisto nel recupero di Rimbaud da parte di Pasolini, perché non è da sottovalutare l’importanza della figura della Morante in tutta la vita di Pasolini. È lei la donna più importante della sua vita, dopo la madre; e ai suoi pensieri, accuse o lodi, dedicherà sempre un’attenzione particolare.
Ne Lo scialle andaluso si racconta di un bambino che desidera diventare santo, e ci rinuncia per amore della madre. I due vivono una vita mediocre, con lei “convinta che lui sia destinato a qualcosa di grande”[xii]. Sembra che già in questo racconto giovanile lei sia stata capace di prefigurare quell’amicizia che nacque e si sviluppò con Pasolini alcuni anni dopo. Forse sentiva che sarebbe arrivato un “figlio” che avrebbe incrociato il suo cammino, che l’avrebbe riempita di gioie e di dispiaceri, che avrebbe tentato di intervenire nel mondo con la sua parola e di scongiurare l’ecatombe borghese come lei non era riuscita a fare. Forse era proprio lei che cercava questo nuovo Rimbaud, e lo aveva espresso già in questo racconto. Pasolini all’inizio fu in grado di assolvere questo compito, ma poi si rivelò troppo preso da sé e dalle sue angosce.
Si tratta solo di uno spunto di lettura, che rivela ancora una volta quanto sia divertente fare critica letteraria.


[i]P. P. Pasolini, L’odore dell’India; in P. P. Pasolini, Romanzi e racconti , a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1998, vol. I (1946-1961), pag. 1233.
[ii]W. Siti, Elsa Morante nell’opera di Pier Paolo Pasolini, in Vent’anni dopo La Storia. Omaggio a Elsa Morante, a cura di C. D’Angeli e G. Magrini, Studi Novecenteschi, Giardini Editori e Stampatori in Pisa, pag. 134.
[iii]M. Fusillo, ‹‹Credo nelle chiacchere dei barbari››. Il tema della barbarie in Elsa Morante e in Pier Paolo Pasolini, in Vent’anni dopo La Storia. Omaggio a Elsa Morante, cit., pagg. 97-129.
[iv]P. P. Pasolini, Il pianto della scavatrice; in P. P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Meridiani Mondadori, Milano 2003, vol. I, pag. 833.
[v]E. Morante, Alibi; in E. Morante, Opere, a cura di C. Cecchi e C. Garboli, Meridiani Mondadori, Milano 1988, vol. I, pag. 1392.
[vi]Il testo è pubblicato da N. Naldini in P. P. Pasolini, Lettere 1955-1975, Einaudi, Torino 1988, pagg. LXXXIX-XC.
[vii] Ibidem, pag. CLXXIII.
[viii] Ibidem, pagg. CXXXVI-CXXXVII.
[ix] Ibidem, pag. 707.
[x]P. P. Pasolini, Petrolio, a cura di Silvia De Laude, Oscar Mondadori, Milano 2005, pag. 27.
[xi] Ibidem, pag. 27.
[xii]E. Morante, Lo scialle andaluso; in E. Morante, Opere, cit., vol. I, pag. 1578.

Fonte:
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Pasolini, il caso è chiuso - Di Michele Serra



Pasolini, il caso è chiuso
di Michele Serra


Un film e una polemica giudiziaria (la centomillesima dell’anno) cercano di riaprire, vent’anni dopo, il “caso Pasolini”. Si vuole sapere se la morte cruenta del poeta sia stata l’opera solitaria di un giovane prostituto di borgata, il famoso Pina la Rana, come le autorità hanno sancito, oppure se dietro l’omicidio ci siano state anche altre persone, e altre intenzioni. Molti tra gli amici di Pasolini, basandosi sulle solite sconcertanti omissioni nell’inchiesta, sospettano addirittura il movente politico: una vendetta fascista contro l’omosessuale, contro il comunista, contro lo scandaloso artefice di una delle più complesse denunce del degrado antropologico della società detta del benessere.
La volontà di far riaprire le indagini (l’Italia ci ha dolorosamente abituato agli occultamenti della verità) è del tutto comprensibile. Ma il rischio è quello di mettere l’accento su di una rivendicazione quasi notarile del significato di una morte che già di per sé, in qualunque circostanza sia avvenuta, ha avuto una lacerante, terribile e a suo modo luminosissima potenza simbolica. Che Pasolini sia stato ucciso dalla furia bestiale di uno dei suoi amori notturni oppure da una “spedizione punitiva” è certo assai rilevante dal punto di vista giudiziario. Ma da troppo tempo il punto di vista giudiziario sembra essere diventato il solo, palpitante luogo dove si distribuiscono le ragioni e i torti, dove si cerca di dare un senso e un nome alle vicende della comunità nazionale.
Bene, la morte “sul campo” di Pasolini, fin dai primi minuti dopo il ritrovamento del suo corpo macellato prima dagli assassini poi dalle rotative, apparve subito a tutti — tranne che hai poveri di spirito, che ghignarono sul “meritato” destino del frocio ucciso da un frocio — un evento da tragedia greca, cioè un accadimento rappresentativo del destino comune di un paese e di una società intera. Colui che giaceva informe sull’egualmente informe litorale romano, massacrato a bastonate come un cane, era quello stesso Pasolini che raccontava la fine del popolo come fine dell’Umano, e la sua sostituzione irrevocabile con una neo-classe mostruosa, immemore, feroce, la piccola borghesia consumatrice.
Era l’uomo che aveva descritto, con una passione intellettuale semplicemente sconvolgente, il passaggio dalla lotta di classe (lotta di valori contro valori, di culture contro culutre) alla ferocia diffusa e insensata di ognuno contro tutti. Salò, il suo ultimo film, aveva portato fino all’intollerabile, fino al patologico, fino all’insostenibile la sua percezione dell’odio e del terrore come soli residui ingredienti del dominio e veri rapporti tra gli uomini: una specie di fascismo metaforico, eternato, grottesco quanto demoniaco, smembratore e torturatore di corpi quanto (e in quanto) negatore di anime.
Questo, di Pasolini, era chiaro a tutti, a chi gli era grato di svolgere questo tormentato, esagerato, offensivo ruolo tragico o lo irrideva. Altrettanto chiaro, quando morì in quella maniera, fu il significato letteralmente testimoniale di quel martirio: tanto che il beffardo “se l’è andata a cercare” che qualche squallido italiano osò pronunciare, poteva in fondo essere fatto proprio anche da chi lo aveva capito e amato. Sì, se l’era andata a cercare, ostinandosi a individuare amore e piacere nello squallore decerebrato di una ormai inesistente plebe romana, inseguendo nei suoi itinerari sessuali la mitologia letteraria dei suoi Ragazzi di vita, proprio lui che ne aveva descritto, soprattutto sul “Corriere della Sera”, la scomparsa. Si disse che era morto per mano di uno dei suoi personaggi. Certo lo squallore e la cruenza della sua fine, se si considera la sua vita, apparvero di una coerenza quasi didascalica, ripeto: un martirio. Seppi la notizia dal telegiornale delle 13 e 30, una domenica di novembre, mentre ero a pranzo da amici. Molti di noi piangevano, tutti rimanemmo sconvolti come raramente mi ricordo mi sia capitato di cogliere, considerando quanto munita fosse già allora la crosta di indifferenza con la quale ci difendevamo dal mondo.
Per quanto mi riguarda (per quanto sento) la morte di Pier Paolo Pasolini è uno degli avvenimenti più significativi e commoventi dei questo secolo.
E giusto o sbagliato fosse il suo populismo, corretta o esagerata la sua percesione del moderno come catastrofe antropologica, credo che nessun intellettuale o artista italiano contemporaneo abbia così fortemente affrontato l’epoca fino a farsene divorare, fino a distruggersi. Per queste ragioni, e per la nostalgia struggente che ho per la sua scrittura acuminata e accesa e perfino per il suo viso e la sua voce, mi chiedo se il vero e grande scandalo sia la sciatta negligenza con la quale si è indagato sulla sua fine, e non piuttosto il fatto che non esista una piazza o una strada o una scuola d’Italia dedicata al suo poeta, vissuto per le sue strade, anzi nel punto indeterminato, annichilente nel quale tutte le strade, perfino quelle di periferia, si interrompono.
Recentemente l’ho rivisto in una vecchia intervista, mentre ripeteva di “non riuscire a scrivere una riga sulla piccola borghesia italiana, né a frequentarla. Per me esistono solo il popolo e gli intellettuali”. La piccola borghesia italiana è diventata, tout court, l’Italia intera, esattamente come Pasolini andava dicendo che sarebbe avvenuto. Anche per lei, molto spiegabilmente, è impossibile frequentare Pasolini.

Da “Cuore — settimanale di resistenza umana”, n. 239 del 9/9/95

Fonte:
http://www.fucinemute.it/1999/07/pasolini-il-caso-e-chiuso/


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Pasolini secondo me - Di Federico Zeri

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Pasolini secondo me
Di Federico Zeri


Pasolini era un uomo bifronte: da una parte era affascinante, aveva una voce incredibilmente bella, la voce più bella che abbia mai sentito, la voce di un angelo; dall’altra, accanto a questa voce c’erano dei particolari repellenti, le mani per esempio, fredde, sudate, non so, mi faceva una grande impressione toccarle, poi aveva l’aspetto, io l’ho detto altre volte, di una bellissima statua greca in bronzo caduta da un autotreno, sull’autostrada e ammaccata, aveva qualche cosa di ammaccato, di rovinato, però era un personaggio incredibilmente… unico, io lo considererei. Io lo avvicino molto alla figura di Caravaggio, anche per la fine. Secondo me c’è una forte affinità fra la fine di Pasolini e la fine di Caravaggio, perché in tutt’e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata, diretta e interpretata da loro stessi.
[...]
Pasolini ha avuto una sorta di folgorazione, dalla pittura antica, e quando ha approfondito questa sua, diciamo, curiosità ha trovato che la pittura antica può fornire una quantità enorme di spunti tipologici, formali, che lui ha tutti reinterpretati. Ha guardato poi in modo particolare Rosso e Pontormo perché erano pittori dei quali avvertiva la sostanza agitata tipica di un periodo di crisi, di transmutazione. Ha avvertito soprattutto in Pontormo il dramma interno dell’artista solitario, incompreso, omosessuale e in Rosso ha capito, non so però fino a quale punto, il profondo divario fra le cose che dipingeva e quelle in cui credeva. Secondo me Rosso è un pittore blasfemo, un pittore non dico ateo, ma per lo meno molto scettico, che prende in giro anche le cose più sacre della pittura. Io me ne sono accorto quando ho visto l’Ecce Homo, cioè il Cristo morto con gli angeli, oggi nel Museo di Boston.
[...]
Immagine articolo Fucine MuteQuella che fosse la religiosità di Pasolini non l’ho mai capita bene. Debbo dire che Pasolini, a mio avviso, era profondamente cattolico, nel suo intimo; era formato dall’Italia cattolica, quindi aveva un forte senso del peccato, un forte senso della redenzione, un forte senso della liberazione dal peccato e dal senso di colpa. Questo secondo me era Pasolini. Io quando l’ho conosciuto, l’ho incontrato più di una volta e ho avuto sempre l’impressione di una persona profondamente toccata dal senso di colpa, agitata, quasi tormentata, lacerata, ecco il vero termine che si addice a Pasolini, lacerata, una persona che voleva essere punita. Poi anche il culto della mamma, che era molto profondo in Pasolini, tant’è vero che la madre addirittura mi sembra appaia come Madonna in un film che è Il Vangelo secondo Matteo

Fonte:
http://www.fucinemute.it/1999/07/pasolini-secondo-me/


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Pasolini, Sofri, Pannella, i reati d'opinione e l'ordine dei giornalisti ...

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Pasolini, Sofri, Pannella, i reati d'opinione e l'ordine dei giornalisti ...


Estratti dal libro “Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte” , AA.VV. (a cura di Laura Betti), Garzanti 1977:

<<… il 18 ottobre 1971 la corte di Assise di Torino processa Pier Paolo Pasolini insieme ad altre 41 persone, tra le quali Adriano Sofri, Luigi Bobbio, Guido Viale, Marco Pannella, Pier Giorgio Bellocchio. E’ imputato, come gli altri, di avere

“istigato militari a disobbedire alle leggi”

di avere

“svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dello Stato”,

di avere

“pubblicamente istigato a commettere delitti”

…Dal 1· marzo 1971, Pasolini risulta direttore responsabile del periodico “Lotta Continua” … come precisa un avviso pubblicato sullo stesso periodico, non è un militante del gruppo, ma “Con la sua concreta solidarietà” permette al giornale di “superare le difficoltà create dalle leggi fasciste sulla stampa”. Le leggi fasciste sulla stampa vigenti in Italia autorizzano la pubblicazione di un giornale soltanto a condizione che il direttore responsabile risulti iscritto all’ordine nazionale dei giornalisti. Priva di militanti appartenenti alla corporazione dei giornalisti, “Lotta Continua” chiede ad intellettuali di sinistra regolarmente iscitti di figurare quali firmatari direttori responsabili del loro giornale. Anche Pasolini acconsente e figurerà direttore responsabile di “Lotta Continua” per due mesi, dal marzo al maggio 1971 …

Il 23 febbraio 1973 il tribunale di Siena processa Pier Paolo Pasolini insieme con altre 14 persone. E’ accusato, come gli altri imputati, di “istigazione a delinquere”, di “istigazione all’odio tra le classi sociali”, di “apologia di reato”. Articoli del fascista codice Rocco solidi e quasi inamovibili riappaiono nel secondo procedimento giudiziario contro Pasolini per aver diretto il periodico “Lotta Continua” come tanti altri intellettuali, per una difesa dei valori democratici della libertà di opinione.
In realtà il rapporto tra Pasolini e Lotta Continua è polemico e alquanto contrastato.

Nel 1971, insieme a Giovanni Bonfanti, un compagno del gruppo extraparlamentare, gira un film, “12 Dicembre”, a cui collabora anche Goffredo Fofi. Un documentario di controinformazione, un tentativo di fare politica allo stato puro, senza compromessi o demagogie. Per Pasolini Lotta Continua è

“… un movimento politico vero e proprio, che continua sempre più testardamente il proprio lavoro. I ragazzi di Lotta Continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che , proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per volere il poco. E’ sempre con forme di estremismo che si riesce ad andare avanti”
(“Panorama”, 8 marzo 1973).

Nel 73 esce in libreria “Calderon”, un’opera teatrale di Pasolini violentemente discussa e criticata. Adriano Sofri, uno dei leader di lotta continua, dichiara su “L’espresso” del 1· novembre 1973 che :

” … dal punto di vista personale la tragedia lo interessa anche, ma dal punto di vista politico non ha commenti da fare, la sua rilevanza è nulla, non ha peso.”.

Pasolini risponde il 18/11/73 su ” Tempo Illustrato” :

“Adriano Sofri è uno di quei giovani nati col ‘68, nel ‘68. Per lui <<politica>> significa <<azione politica>> nella pratica <<intervento politico>> in ogni altro campo…Per lui il pensiero non è pensiero se non si manifesta come azione…I gauchisti per anni…hanno fatto del Potere…l’oggetto d un <<transfert>>: su tale oggetto essi hanno scaricato tutte le colpe, liberando così, per mezzo di un meccanismo estremamente arcaico, la propria piccolo-borghese<<coscienza infelice>>. Attraverso la drastica identificazione di <<sistema>> e <<Male>> - attuato in modo manicheo e calvinista - si sono delineate di conseguenza sul fronte opposto forme di esistenza e di azione che dovevano per forza essere <<buone>>: donde il trionfalismo, il fanatismo, la disperazione. Che peso ha avuto tutto questo sull’azione politica (con cui i gauchisti identificano totalmente la politica, come chi identificasse l’applicazione della scienza con la scienza)? E’molto semplice. Il risultato di una convenzionale, approssimativa, banale, e quindi mitica ed irrazionale idea del Potere, ha fatto sì che l’azione politica contro il Potere - accanto ai caratteri di originalità e di necessità insiti nella propria natura - accumulasse anche i caratteri <<negativi>> del nemico: non si può condurre una lotta intelligente contro un nemico considerato irreparabilmente stupido. I giovani di LC, dunque, sono stati limitati nella loro azione politica da questi due dati:

a) non hanno saputo o voluto individuare quanto di <<intimo>> li legasse al Potere, nel cui spazio sono nati e si sono educati, conservandone molti caratteri sotto l’etichetta di purezza assoluta che si sono ingenuamente attribuiti;

b) hanno pronunciato sul Potere un aprioristico giudizio negativo di stupidità che è poi ricaduto sulla loro lotta.

Una meditazione, non demagogica, su ciò che è realmente il Potere, sarebbe a questi giovani rivoluzionari molto utile, anche per ciò che riguarda l’azione politica immediata che è la sola che essi
(forse giustamente) ritengono valida.”.

Fonte:
http://www.radioradicale.it/exagora/pasolini-sofri-pannella-i-reati-dopinione-e-lordine-dei-giornalisti




@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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"La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi" - di Sandra Bardotti

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




"La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi"
di Sandra Bardotti


È il 2 marzo 2010 quando il senatore Marcello Dell’Utri annuncia in una conferenza stampa di presentazione della Mostra del Libro Antico di Milano di essere venuto in possesso di un dattiloscritto scomparso di Pasolini, che avrebbe dovuto costituire un intero capitolo di Petrolio.
Si tratterebbe del famoso Lampi sull’Eni, appunto 21, a cui Pasolini fa cenno nell’appunto successivo, rimandando il lettore a quel capitolo come se esso fosse già un testo compiuto: “Per quanto riguarda le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili, malgrado il misto, della formazione partigiana guidata da Bonocore, ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato ‘Lampi sull’Eni’, e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria”. Qui le parole di Pasolini sembrano indicare con certezza che quel capitolo era già stato scritto. La cura filologica di Graziella Chiarcossi e Aurelio Roncaglia, però, ignora questa affermazione pasoliniana, classificando l’episodio come se si trattasse di una delle molte lacune presenti nel brogliaccio di Petrolio. Lo stesso accade con Walter Siti e Silvia De Laude, che curano l’edizione Meridiani.
Fatto sta che giovedì 11, giorno dell’inaugurazione della Mostra del Libro Antico, queste pagine non ci sono. “La persona che me li ha promessi è scomparsa”, si giustifica Dell’Utri, che però afferma di avere avuto tra le mani quei fogli per qualche minuto, “sperando di poterli leggere con calma dopo”. Poi precisa anche che si tratta di “una settantina di veline dattiloscritte con qualche appunto a mano”, ma ciò che è inquietante è il fatto che il senatore sembra sapere il titolo esatto di quel capitolo, non Lampi sull’Eni, bensì “più esattamente Lampi su Eni”.
Per il resto, la mostra che rende omaggio a Pasolini a trentacinque anni dalla morte, Immagini corsare: ritratti e libri di Pier Paolo Pasolini, organizzata da Alessandro Noceti, raccoglie prime edizioni pasoliniane e fotografie originali del poeta sul set dei suoi film o per le strade di Roma in compagnia di attori e amici. Un allestimento tutto sommato mediocre, se non fosse per l’indubbio valore letterario delle prime edizioni friulane dell’Academiuta e dei due volumi introvabili su Cefis. Il primo di quest’ultimi è Chi è Cefis? L’altra faccia dell’onorato presidente, firmato con lo pseudonimo Giorgio Steimetz e pubblicato nel 1972 dall’Ami, fatto subito sparire dalla circolazione. Sappiamo che Pasolini possedeva una copia fotocopiata del pamphlet, dalla quale attinse le notizie sulla scalata di Cefis al vertice dell’Eni, quasi parafrasandole in Petrolio. L’altro volume è L’uragano Cefis di un certo Fabrizio De Masi, pubblicato sotto la sigla editoriale EGR e privo di data.
A quanto pare entrambi i testi sono stati forniti a Dell’Utri dalla stessa persona che aveva offerto il fantomatico capitolo di Petrolio.
Tutto l’evento si è risolto dunque in una bolla di sapone, che forse ha avuto il merito di risvegliare l’attenzione sulla possibilità di riaprire le indagini sulla morte di Pasolini. Ma una serie di domande nascono spontanee in chi conosce anche solo minimamente da una parte il ‘talento’ bibliofilo di Dell’Utri (e ricordiamoci che Dell’Utri è colui che alcuni anni fa aveva dichiarato di essere in possesso dei diari di Mussolini, smentito clamorosamente da alcuni studi filologici di Gentile e Travaglini), e dall’altra il progetto di Petrolio. Quale è stata la strategia pensata e messa in atto da Dell’Utri? Perché questo annuncio quando ancora non aveva la certezza di possedere il dattiloscritto? E se quest’ultimo fosse stato nelle sue mani, chi è la persona che glielo ha dato? Perché se il manoscritto esiste ed è scomparso dalla casa romana di Pasolini, esso deve essere in mano a una persona che può essere accusata di ricettazione, come del resto Dell’Utri stesso, se non denuncia il fatto all’autorità giudiziaria.
Appena qualche giorno dopo Veltroni porta il caso in Parlamento con un’interpellanza urgente al ministro Bondi: “Se questo capitolo esiste, come è arrivato nelle mani di Dell’Utri? Chi lo ha portato via da casa Pasolini, chi lo ha consegnato a mani diverse di quelle della famiglia o dei curatori dell’opera di Pasolini?”, si chiede giustamente Veltroni. Del resto, Petrolio implica non solo una discussione di carattere letterario, ma una riflessione su una parte ancora oscura della storia politica italiana legata alle stragi di stato, sulla quale sarebbe necessario fare finalmente luce. Le morti di De Mauro, Mattei e Pasolini potrebbero essere considerate omicidi eccellenti guidati dai vertici politici italiani implicati con gruppi neofascisti e servizi segreti, come si cerca di ricostruire in Profondo nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Che cosa sapevano? Perché dovevano morire? di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, edito da Chiarelettere.
Bondi risponde di aver già preso “contatti diretti” con Dell’Utri per cercare di fare chiarezza sulla questione e il caso sarà indagato dai carabinieri. Resta indubbio il fatto che Dell’Utri avrebbe dovuto rivolgersi subito alle autorità giudiziarie.
Anche la famiglia Pasolini si è divisa sull’accaduto. La parte della Chiarcossi nega fermamente che vi siano stati furti tra le carte del poeta dopo la morte, e con lei concorda il cugino Naldini. Invece un cugino materno, Guido Mazzon, aveva già dichiarato a Gianni D’Elia anni fa di aver ricevuto una telefonata da parte della Chiarcossi qualche giorno dopo la morte di Pasolini che accennava al fatto che alcuni ladri erano entrati in casa portandosi via gioielli e alcune carte del poeta. La confusione, dunque, regna anche in casa Pasolini, tra gli eredi e i parenti che forniscono diverse versioni dei fatti.
Petrolio è un caso editoriale fin dal 1992, quando esce per i Supercoralli Einaudi con copertina bianca e titolo in rosso, a diciassette anni dalla morte dell’autore.
“Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita. Non voglio parlarne, però; basti sapere che è una specie di ‹summa› di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie”, così Pasolini annunciava il progetto di Petrolio in un’intervista rilasciata a Luisella Re, pubblicata da ‹‹Stampa Sera›› il 10 gennaio 1975. Già il 26 dicembre 1974, stavolta a ‹‹Il Mondo››, intervistato da Carlotta Tagliarini, aveva annunciato: “Nulla è quanto ho fatto da quando sono nato, in confronto all’opera gigantesca che sto portando avanti: un grosso Romanzo di 2000 pagine. Sono arrivato a pagina 600, e non le dico di più per non compromettermi”.
Quando Graziella Chiarcossi decise di aprire la cartella del manoscritto, dopo la morte di Pasolini, i fogli riempiti erano 522, poco più di un quarto di quello che era il progetto alla fine del 1974. “Mi ricordo, a proposito di Petrolio, che era molto fiero della consistenza dei fogli. Faceva vedere agli amici quanto aveva scritto, ma a nessuno lo aveva dato da leggere: era molto geloso. Quando nel ’74 mi diede il manoscritto da fotocopiare si raccomandò con un sorriso di scusa di fare la fotocopia senza leggere…”, dichiara la nipote dello scrittore nel 1992, all’uscita del romanzo, intervistata da Paolo Mauri per ‹‹La Repubblica››. Sembrerebbe dunque che vi siano dei fogli mancanti all’appello, se a fine 1974 Pasolini dichiara di essere a quota 600 pagine, tenendo conto anche del fatto che nel 1975 egli abbia portato avanti il suo progetto.“Ho fatto un po' di calcoli. Visto che la decisione spettava a me e che Pier Paolo non mi aveva mai detto né brucialo né pubblicalo così com' è, con un virgola lasciata a metà, ho deciso di farlo prima di diventare troppo vecchia e di non poterci più lavorare con tutti gli strumenti del caso”: così Graziella Chiarcossi giustifica la lunga attesa, a cui seguì la decisione di dare alle stampe il manoscritto. Una Nota filologica, curata da Aurelio Roncaglia, era più che mai necessaria, nel caso di un testo magmatico e incompiuto come Petrolio, e fu inserita come postfazione già nella prima edizione.
Nel 2006 esce una nuova edizione, a cura di S. De Laude, stavolta per gli Oscar Mondadori, con copertina tutta nera. Nero petrolio. Dal punto di vista filologico vi sono degli approfondimenti nello studio delle carte e delle fonti pasoliniane, ma la lacuna dell’appunto 21 rimane anche qui inesplicata.
Quello che vien fuori da questa faccenda è che una nuova edizione critica di Petrolio appare sempre più necessaria, a tanti anni di distanza dalla morte del suo autore. Lo stato frammentario, il magma costitutivo di questa opera, infatti, pone ancora oggi domande cruciali sullo stato della letteratura contemporanea. La struttura stessa di Petrolio, la sua riflessività totale, che mostra l’opera nel suo farsi, attraverso un principio compositivo che riflette continuamente su se stesso, è il punto su cui il dibattito tra gli studiosi è ancora aperto. Anche senza queste pagine di cui si sta parlando tanto in questi giorni, l’attualità di Petrolio è sconvolgente, all’interno dei canoni letterari di fine Novecento.
Senza dubbio, però, questa opera non voleva essere un semplice romanzo, né un semplice discorso sulla letteratura e le sue possibilità. Petrolio mette in scena un pezzo di storia italiana importante, ancora non del tutto chiara, letta con gli occhi di un autore che si è posto come voce civile dell’Italia. Vale la pena rileggere quelle parole che tanto scandalizzarono la scena culturale italiana nel 1974: “Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato ‘golpe’ (e che in realtà è una serie di ‘golpe’ istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del ‘vertice’ che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di ‘golpe’, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli ‘ignoti’ autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del ‘referendum’. Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio ‘progetto di romanzo’, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile”.
Pasolini era un intellettuale scomodo a tanta parte politica del paese, perché non si limitava a mettere in luce dei problemi, ma aveva il coraggio di lanciare accuse precise. Qualunque cosa Pasolini sapesse dei giochi di potere e delle trame oscure della politica italiana, non avrebbe avuto paura a denunciarli, e Petrolio avrebbe dovuto contenere una esplicita ricostruzione della torbida scalata di Cefis al vertice dell’Eni. La sua coscienza etica e civile, programmaticamente dimenticata e ostacolata, è un manifesto di cultura che sarebbe fondamentale riscoprire oggi. Per questo motivo un appello alla riapertura delle indagini sulla sua morte dovrebbe provenire proprio da noi giovani, dalla nostra volontà di capire e di non mettere a tacere l’intelligenza intellettuale e la ricerca della verità.

Fonte:
http://www.mastereditoria.it/recensioni/82-qla-morte-non-e-nel-non-poter-comunicare-ma-nel-non-poter-piu-essere-compresiq.html
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