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domenica 13 ottobre 2013

Narciso in una doppia scrittura: da La meglio gioventù a La nuova gioventù

"ERETICO & CORSARO"



DAMIANO BENVEGNÙ
Narciso in una doppia scrittura:
da La meglio gioventù a La nuova gioventù

Non è semplice riassumere – in quelle che spero saranno non troppe parole – il rapporto fra corrispondenze e scarti, fra l’afferrare e l’essere afferrati (come scrisse Warburg a proposito del sogno della coscienza), tra il mito di Narciso ed un poeta che ha sempre messo in evidenza il proprio marchio narcistico quale è stato Pier Paolo Pasolini; ed inquadrare il tutto entro quell’alfaomega che ha rappresentato la sua doppia produzione poetica in dialetto.
Tuttavia, se dovessimo dare conto di quanto ha scritto Anna Panicali in un suo saggio dedicato all’ultima gioventù pasoliniana, che «fin dalla prima raccolta di poesie, la vita, in equazione metastorica con Casarsa […], è sentita come fine che rinvia all’origine, a un prima del nostro esistere al mondo(1)», allora sempre all’interno di questa equazione da tempo mitico, secondo una struttura
circolare che ritorna eternamente a se stessa, anche la storia di Narciso deve risalire ad un prima, e precisamente a quel prima della profezia di Tiresia, o, perché no?, a quel prima di violenza attraverso cui il dio-padre (il fiume Cefiso nel mito ovidiano) impose il suo desiderio alla madre-ninfa-Liriope. Già qui avremmo forse una prima corrispondenza con quello che ci interessa: se diamo fede alle narrazioni biografiche, queste riportano l’incontinenza del giovane tenente fascista Carlo Pasolini nei confronti della religiosa maestra Susanna Colussi (il cui matrimonio, date alla mano, si celebra soli quattro mesi precedenti la nascita del primogenito Pier Paolo). Ma sul rapporto del Narciso di
Casarsa nei confronti del desiderio del padre e/o della madre torneremo quando avremo possibilità di affrontarlo come modalità dei e nei testi. Come, per dir così, “scena primaria”, valga quel che valga, cioè una traccia mnestica all’interno di una serie sulla cui occorrenza storica o reale non è detto che ai nostri fini sia necessario soffermarsi, ma che ha avuto modo di ripetersi anch’essa, a quanto ci ha raccontato lo stesso Pasolini. Più importante la profezia di Tiresia, che risponde alla domanda della madre con il fatidico «Si se non noverit»(2), cioè «se non conoscerà se stesso, purché non si riconosca»: profezia di risveglio mortifero da un iniziale accecamento immaginario e che ruota tutta intorno alla pulsione scopica di Narciso (etimologicamente dal greco “nàrke”, così preso già dal nome nel torpore del sonno) nei confronti dell’oggetto amato, del proprio desiderio quindi, che lo porta dal misconoscimento della propria identità (e parallelo rifiuto dell’altro assoluto e simbolico rappresentato dalla ninfa Eco) se non come cattura del simile, fino ad un riconoscimento-risveglio appunto che coincide con la morte dell’identità a sé del soggetto e con l’occultamento (ma anche qui, come parallela inscrizione all’interno dell’ordine simbolico) di quello che Agosti, nel suo saggio del 2004 dedicato alla “parola fuori di sé” pasoliniana, chiama il corpo morto(3).
Il mito di Narciso è così in Pasolini scritto attraverso un registro doppio e per certi versi circolare, che passa dalle prime poesie in dialetto alla loro riscrittura, alla loro Seconda forma, dove il soggetto subisce un processo di traduzione che lo porta a rivelare la dissimulazione che stava invece alla base della prima identità. Senza però, proprio come nel mito, ritrovarsi nella certezza del sé, se non come impossibile reale, estraneità assoluta ed irriconoscibile nel “soto tera” (secondo il canto degli alpini da cui Pasolini prese il titolo della sua raccolta) della morte. Già l’utilizzo apparentemente pacifico del dialetto friulano, prima in quelle Poesie a Casarsa, in cui fin dal titolo l’ambiguità del vocativo
sottolinea – come ha scritto Gardair – «la divaricazione ultima fra presenza e dedica»(4), e poi nei testi de La meglio gioventù edita nel ’54, riesce da un lato a dissimulare quanto il dialetto stesso sia non semplicemente una scelta culturale ma la cattura del desiderio dell’altro tramite la lingua (secondo la struttura significante ed altrettanto mitica dell’ascolto della parola mai scritta «rosada» in bocca ad un fanciullo amato da parte di Pasolini5), e dall’altro di come questa cattura implichi la formazione di un soggetto secondo uno schema di sovversione per cui è appunto dall’altro materno (ma, ricordiamolo, la madre Susanna non parlava affatto il dialetto contadino di Casarsa, come d’altronde lo stesso Pier Paolo, ma un misto veneto-italiano che era poi quello tipico della piccola  borghesia del tempo) in opposizione al codice del padre, che egli riceve la propria immagine. Altro, però, in questo caso, che si modula sempre sul riflesso del simile couterino, per così dire, secondo un processo di regressione per il quale il Narciso di Casarsa è un Narciso totale in grado di identificarsi con tutte le immagini che le varie forme d’onda del mondo chiuso e autosufficiente della campagna friulana (le rogge, l’acqua «frescia» della fontana, ma anche i prati, le ombre, l’immagine di Casarsa che si specchia in se stessa e in cui compaiono i volti amati) portano agli occhi. In Poesie a Casarsa e poi in tutto il nucleo più antico e per così dire monolinguistico (Contini la definì lingua «marmorea») de La meglio gioventù (che è quello che sarà sottoposto al rifacimento, escludendo così dalla seconda forma la sezione finale del volume che vede invece comparire anche altre varianti dialettali e un inizio di impegno civile e politico) il giovane Pasolini ricalca il mito ovidiano servendosi proprio di una lingua non sua, che egli in parte apprende ed in parte inventa, per quanto il già squisito intellettuale faccia di tutto per inserirla all’interno di una tradizione che affonda nel provenzale, e che permette la tenuta dell’io, al tempo stesso Uno e Tutti, il quale pur nei suoi riflessi si presenta sempre «dut intèir coma un flòur»(6) [tutto intero come un fiore], come possiamo leggere in Dansa di Narcìs. Ogni possibile lacerazione viene così eliminata dal mondo poetico di Casarsa in cui tutto muore e rinasce nell’ambiente familiare e per nulla perturbante della ciclica vita contadina: la fascinazione regge tutti i possibili scambi, tanto che l’immagine diventa al tempo stesso soggetto ed oggetto d’amore e le contraddizioni vengono riassorbite in quella purezza del «cuarp», del corpo vivo, vivente, in grado di modulare i contrari, fosse anche l’estremo assoluto della morte, ma in questo caso anch’essa a portata di mano, o forse meglio, di sguardo, nella specie, come ha scritto Zanzotto, del camposanto appena fuori il paese.

Notevole è dunque la ricorrenza da un lato proprio di Narciso fin dai titoli (il già citato Danza di Narcis in tre parti, Pastorela di Narcìs in cui l’identificazione, lo scambio – proprio a segnare l’ambiguità del desiderio – avviene non più con un «frut» [ragazzo, fanciullo], ma con una «frutina» [ragazzetta], con una «fantata» [giovane], la quale ha «i vuj di me mari»(7) [gli occhi di mia madre]) e nei testi (uno per tutti, la seconda lirica della raccolta, dal titolo Il nini muàrt, in cui troviamo scritto: «Jo ti recuardi, Narcìs, ti vèvis il colòur / da la sera, quand li ciampanis / a sùnin di muàrt»(8) [Io ti ricordo, Narciso, avevi il colore della sera, quando le campane suonano a morto], nella quale l’ambiguità dell’identificazione giunge a darsi nell’appellare l’altro, ad un tempo al di qua e al di là, qui e altrove, ora e nella memoria, col nome di Narciso); e dall’altro il continuo comparire dell’emblema narcissico per eccellenza, lo specchio, nel quale in un testo, Suite furlana, il soggetto mette in scena la propria bidimensionalità riconoscendosi esclusivamente come Forma (con un significativo passaggio dall’una all’altra strofe, del protagonista dell’azione, dapprima «un frut», poi tranquillamente «Jo»(9) ). Non è un caso poi che proprio in quest’ultimo testo, dietro lo specchio ci sia la madre fanciulla, la quale è detta anche essere la stessa luce della vita del soggetto.

Tuttavia, come dicevamo, è solo grazie ad una rimozione che questa identificazione avviene: rimozione celata la cui spia potrebbe essere la dedica che Pasolini fa del proprio primo libretto al padre lontano, che è al tempo stesso una provocazione (il padre infatti mal sopportava il dialetto rustico dei contadini di Casarsa e tutto l’ambiente per così dire materno) e una dichiarazione d’amore
appunto di lontano (in una lontananza reale, Carlo Alberto era infatti prigioniero in Africa, e metaforica, quanto poteva essere quella fra Casarsa e la Domodossola di Contini, altro padre dedicatario prima dell’edizione del ’54 e poi ancora de La nuova gioventù). Rimozione che si manifesta linguisticamente invece nell’ambiguità del rapporto fra il dialetto e l’italiano, per cui Pasolini considera le sue traduzioni alle liriche friulane «parte integrante del testo» (incorrendo così nella disapprovazione di Contini che parla nella sua famosa prima recensione su «Il corriere del Ticino» di «non bella traduzione letterale»), ma al tempo stesso traducendo direttamente dall’italiano al friulano, come è avvenuto per molte poesie, tanto che si potrebbe dire – come hanno scritto alcuni studiosi di Pasolini – che il vero originale siano le traduzioni e non i testi in dialetto. La lingua italiana si pone così sotto il segno di un tradimento, secondo il detto comune traduttore-traditore ed ultra, in cui l’assenza è un atto di quel nascondimento (gioco del desiderio come nel fort-da freudiano) di cui parlerà Fortini a proposito dell’utilizzo pasoliniano proprio del dialetto, la cui natura doppia trova invece sede nei contemporanei testi de L’usignolo della Chiesa cattolica, in cui oltre a Narciso vediamo comparire anche l’immedesimazione, fra il divino e il satanico, col il Cristo della Passione: forma primordiale di Aufhebung – come sostiene Lacan – che compensa la figura del padre metaforicamente morto.

È per certi versi dunque tutto il mondo liquido, amniotico, di Casarsa che permette a quel rustico amore di mantenersi nell’inganno, di riflettere in maniera infinita l’immagine amorosa del sé entro un cerchio paradisiaco che, come scrive Pasolini a proposito del dialetto, non conosce trasgressione, ma nemmeno quella verità che è propria, hegelianamente, del Discorso, e non del Canto, del padrone. Perché poi, la Verità del Canto non può essere detta ma solo appunto cantata, balbettata.

Il mondo di Casarsa, tràdito attraverso una traduzione ed un tradimento (compiuto anche nel passaggio dall’oralità alla scrittura), è dunque anche quello che permette la formazione di quello che potremmo chiamare con Valéry un “Narciso generalizzato”, considerando però come quello di Pasolini operi sul lato contrario rispetto al francese: al «togliete tutto affinché io possa vedere» di
Monsieur Teste, il Narciso pasoliniano risponde con un «mettete tutto affinché io possa rimanere nell’accecamento», quell’accecamento che nel momento in cui sarà svelato ne La nuova gioventù, farà passare il soggetto dal campo del simile o del medesimo, tutto preso nel gioco dialettico dei rispecchiamenti, a quello effettivamente dell’Altro, presente fin dall’inizio nell’uso della lingua
desiderante ma rimosso, con quegli effetti tipici di ripetizione, o di ripetizione della ripetizione, come in una mise en abîme che giunge ribattendosi ai territori della morte definitiva, organica, secondo poi quel precetto di seconda morte tipicamente sadiano, in un al di là di piacere che coglie il godimento. «Lo Sdoppiato ritorna umilmente Unico»(10) come Tiresia e come Pasolini stesso scrive in Bestia da stile, dove l’accento va messo sull’umilmente (da humus, secondo quel modulo cifrato come un sogno, che fa risuonare questo avverbio con il soto-tera del canto degli alpini, il quale peraltro ricompare anche in una delle scene più terribili di Salò) e sull’Unico, non Uno ma Unico, che altro non è che il segno meno (così come in maniera lugubre e con incoscienza matematica viene detto “meno uno”) del corpo morto inscritto – come sostiene Agosti – in maniera interminabile e postuma nel linguaggio. E dove, paradossalmente (ma fino ad un certo punto se sempre in quella specie di autobiografia scenica che è Bestia da stile, pochi versi prima di quelli citati, Pasolini aveva parlato della «profonda equivalenza fra Erinni e Sesso» per cui «tutto ciò che era stato superato/ dalla Dissociazione, ritorna»)(11) ), la profezia di Tiresia e l’ultima voce di Pasolini, nell’intervento preparato e mai avvenuto al congresso radicale, suonano a dritto e a rovescio insieme, con l’invito ad essere veramente se stessi, cioè irriconoscibili(12) (e la realtà tragica di questo troverà modo di darsi come forma nel cadavere del poeta sfigurato fino appunto all’irriconoscibilità).
Ne La nuova gioventù, e specificatamente ne La seconda forma de «La meglio gioventù», infatti l’invenzione di Narciso della prima raccolta friulana viene doppiata da una riscrittura che capovolge fino alla cancellazione le costellazioni di semantemi, producendo un effetto quanto mai disforico, se non proprio angosciante. Tale riscrittura avviene però nello stesso dialetto attraverso cui si era impressa la prima forma (minime sono le varianti lessicali con un leggero ammodernamento sia dei testi friulani, qualora si spingano ad esprimere oggetti al di fuori della cultura contadina, sia delle traduzioni), il quale ancora una volta si presta a far leggere nello specchio di Casarsa l’immagine del proprio dire.
Solo che, questa volta, Casarsa non è più quell’utero in grado di tenere insieme tutte le fratture, ma anzi è una terra che non appartiene più a nessuno, è arida tanto che le fontane gettano un’acqua vecchia e di «amòur par nissun»(13) [amore per nessuno], i canali in cui un tempo germinava l’erba ora sono secchi, e gli specchi, in una luce bianca ed accecante, riflettono solo visi «di merda e mèil» [di merda e miele], di «pis e fèil»(14) [di piscio e fiele].

Come ha accuratamente notato sempre Gardair, già ad una primissima ricognizione, specificatamente nel testo liminare delle due raccolte, Dedica, notiamo, a partire da uno spostamento ed una presa di distanza (si passa infatti dal «me paìs» a «chel paìs» [mio paese / quel paese]), le tre modalità attraverso cui Pasolini riscrive la Seconda forma: per negazione (mio paese/paese non mio), la quale afferma l’identità iniziale di Narciso come un puro desiderio; l’inversione o espressione del contrario (acqua fresca/vecchia), che rivela l’angoscia di essersi ingannato; e l’alterazione (rustico amore/amore per nessuno), che – citando le parole proprio del critico francese – «rivela l’altro (nascosto o rimosso) del testo primitivo (anche nel senso di artificiosamente “primitivo”), lo libera, lo schiude a sorprendenti fioriture»(15), fra le quali c’è l’irruzione del gioco e dell’umorismo, entrambi del tutto assenti ne La meglio gioventù.

Ancora più significativa, per il nostro discorso, è la trasformazione, o ‘mutazione’ per utilizzare un lemma pasoliniano, che patiscono i vari oggetti-soggetti d’amore, un tempo alla base dell’identificazione: se da un lato c’è la constatazione che «nissùn no (…) somèa» [nessuno (…) assomiglia] più al «veciu frut di Ciasarsa»(16) [vecchio ragazzo di Casarsa] Dili, il cui corpo era un tempo il paradigma di tutti i corpi di tutti i vari soggetti («i nustris cuàrps» aveva scritto rivolgendosi a lui Pasolini, in una presa dunque che coinvolgeva l’io ed il simile), mentre ora è solo «il siun di un cuàrp»(17) [il sonno di un corpo] che peraltro nessuno riconosce, dall’altro quei giovani subiscono lo stesso trattamento di cui Pasolini scrive nell’Abiura della trilogia della vita, secondo il precetto dunque che «se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente; quindi anche il loro modo di essere di allora è, dal presente, svalutato»18. Così vediamo sfilare quelle vecchie immagini, quei riflessi il cui corpo è diventato «di n’altra ciar» [di un’altra carne], come delle povere ombre, degli inganni, morti per sempre ad un presente che rischierebbe di degradarli ulteriormente. Quindi non più in grado di rappresentare alcuna immagine speculare, che non sia appunto quella di cadaveri irreali, resti di quel linguaggio che si era già sdoppiato come trascrizione della phonè.

Come per il Narciso del mito anche il vecchio Narciso pasoliano riconosce l’inganno che stava alla base della costruzione del sé «puarèt e zovin» [povero e giovane] di Casarsa: era dunque proprio la lingua della madre e il suo desiderio che permettevano di far «fenta da essi un zovin puarèt»(19) [finta di essere un giovane povero], di dire quella «poura busia» [povera bugia] che sotto il segno
della passione primaverile faceva finta di non essere tale. La fine del mondo ciclico dei prati friulani, la rottura dell’uovo orfico della autosufficienza, con il complementare inserimento in quel continuum che è la coatta struttura lineare – secondo Benjamin – della storia borghese, corrodono sia il soggetto sia la forza del suo Canto, che ora deve fare i conti con le istanze di quel Discorso che invece era stato rimosso. E rispetto al quale l’iscrizione del corpo, si da proprio come impossibile reale, tanto che lo stesso corpo morto, esibito nell’ultimo testo di Poesie a Casarsa, Il dì de la me muart, in cui il cadavere del soggetto che parla rimane sulla strada per sempre giovane e caldo (quindi sostanzialmente non morto, ancora e per sempre in vita), con un suo simile che compie il gesto
erotico e pietoso, di poggiargli una mano «tal grin di cristal» [sul grembo di cristallo], nella riscrittura di questa lirica, proprio come nel mito scompare, per lasciare il posto appunto a quella rivelazione, a metà strada fra l’evangelista Giovanni e Dostoevskij, secondo cui solo la morte del chicco di grano avrebbe potuto dare molto frutto. Ma, come dicevamo, Pasolini è consapevole a questo punto che era stata proprio la vita di Narciso, la sua sopravvivenza attraverso la scrittura di quelle che lui stesso chiama, nel testo in questione, «poesiis di santitàt » [poesie di santità], che ha fatto sì che rimanesse «bessoul»(20) [solo]. Ed è solo a questo punto che Narciso si risveglia e viene fatto morire come appunto autocertificazione del sé, autocoscienza, e subisce una regressione che non rinvia più ad una origine prima del discorso, couterina, ma dopo, proprio nella morte, inscrivendo così il soggetto in quel ciò che era dove l’io deve venire ad essere. Cioè nel linguaggio.

Non è un caso dunque che il testo che chiude la rappresentazione de La nuova gioventù, il famoso Saluto ed augurio(21), sia detto come l’ultima poesia in friulano: in esso, oltre ai precetti dati questa volta ad un «fassista zovin» [fascista giovane], in base ad una istanza che coinvolge ancora una volta in Pasolini «obediensa e disobediensa insiemit» [obbedienza e disobbedenzia insieme], pedagogia e testimonianza, assistiamo alla chiusura del canto (Pasolini scrive «Hic desinit cantus») e alla complementare scelta de «la zoventut» che non può che essere quella «soto-tera» dei giovani alpini, la cui eco viene questa volta accolta come evocazione e potenza fondatrice della «Peraula», della Parola, in un mondo in cui, come ha scritto lo stesso poeta, è restato solamente il Libro, «al è restàt il Libri»(22).

Note:
1 A. PANICALI, L’ultima gioventù, in AA.VV., Perché Pasolini, Firenze, Guaraldi, 1978, p. 204.
2 OVIDIO, Le metamorfosi, Milano, Bompiani, 1988, p. 166.
3 Cfr S. AGOSTI, La parola fuori di sé. Scritti su Pasolini, Lecce, Manni, 2004.
4 J. M. GARDAIR, Narciso e il suo doppio. Saggio su La nuova gioventù di Pasolini, Roma, Bulzoni, 1996, p. 43.
5 Cfr P. P. PASOLINI, Dal laboratorio (appunti en poète per una linguistica marxista), in ID., Empirismo eretico, [1972], Milano, Garzanti, 1991, pp. 58-59.
6 P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori, 2003, vol. I, p. 66.
7 Ivi, p. 71.
8 Ivi, p. 10.
9 Ivi, p. 63.
10 P. P. PASOLINI, Bestia da stile, in ID., Teatro, Milano, Garzanti, 1988, p. 672.
11 Ibidem.
12 P. P. PASOLINI, Intervento al congresso del Partito Radicale, in ID., Lettere luterane, [1976], Torino, Einaudi, 2003, p. 195.
13 P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, cit., vol. II, p. 407.
14 Ivi, p. 409.
15 J. M. GARDAIR, Narciso e il suo doppio, cit., p. 46.
16 PASOLINI, Tutte le poesie, cit., vol. II, p. 410.
17 Ibidem.
18 P. P. PASOLINI, Abiura della trilogia della vita, in ID., Lettere luterane, cit., p. 73.
19 PASOLINI, Tutte le poesie, vol. II, cit., p. 411.
20 Ivi, p. 481.
21 Ivi, p. 513.
22 Ivi, p. 473.

 
Fonte:
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&frm=1&source=web&cd=1&cad=rja&ved=0CDEQFjAA&url=http%3A%2F%2Fwww.disp.let.uniroma1.it%2Ffileservices%2FfilesDISP%2F19_BENVEGNU.pdf&ei=bl5MUrK9Kaa34wTA-YGAAw&usg=AFQjCNGrx-fYA51W07Ofv_msawaVWCGxHw&sig2=c1C3mIu5J7syRGNpFWLRnQ&bvm=bv.53371865,d.bGE


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La società dello spettacolo - Da Pier Paolo Pasolini a Guy Debord la metamorfosi neo-capitalistica in attività contemplativa

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



La società dello spettacolo
Da Pier Paolo Pasolini a Guy Debord la metamorfosi neo-capitalistica in attività contemplativa

A cura di Andrea Pesce

 Il senso della vista gode da millenni il privilegio di essere il più studiato e citato nelle riflessioni dei più grandi filosofi. Aristotele nella Metafisica lo elegge a senso privilegiato dall’uomo in quanto “noi preferiamo la vista a tutte le altre sensazioni, non solo quando miriamo a uno scopo pratico, ma anche quando non intendiamo compiere alcuna azione. E il motivo sta nel fatto che questa sensazione, più di ogni altra, ci fa acquistare conoscenza e ci presenta con immediatezza una gran quantità di differenze”. Il vedere quindi implica, secondo lo Stagirita, l’entrare in contatto con l’alterità, con un qualcosa che non è parte di noi (in senso corporeo, materico) ma, allo stesso tempo, in intimo rapporto con noi: le cose che percepiamo attraverso l’occhio, penetrano nel nostro cervello e, in molti casi, permangono come traccia indelebile nella nostra memoria. Paradossalità dello sguardo: ciò che non può vederci è ciò che ci caratterizza, così come colui che vede non può scorgere il suo occhio che osserva.
     Se è vero, come voleva Aristotele, che la filosofia nasce dalla meraviglia di fronte ai fenomeni naturali e l’interrogarsi dinanzi ad essi, risulta inevitabile il nascere di una disciplina che si occupi di queste faccende: l’estetica. Il filosofo A. G. Baumgarten usa per primo questo termine in un’opera del 1735 dal titolo Aesthetica, dedicata alla conoscenza sensibile attraverso l’arte e la bellezza. Va ricordato che l’irrompere in noi del sentire estetico, quel qualcosa che ci turba, commuove o emoziona nel profondo, non deriva solo dalla contemplazione o dalla mera partecipazione visiva nei confronti di opere d’arte plastiche o visive; una poesia o un romanzo, una sinfonia o un semplice brano musicale possono regalarci, con altrettanta forza, quel turbamento emotivo così assorbente ed esclusivo. Tutto ciò oggi, in forme degradate, offese, fraintese e avvilite è entrato a far parte della “società dello spettacolo”.
Dai tempi del teatro greco lo spettacolo è divenuto istituzione sociale in cui, gruppi di persone dette “spettatori”, passano il proprio tempo assistendo ad una recita in balìa delle proprie emozioni. Nulla di scandaloso in tutto ciò. Lo spettatore, dopo avere assistito alla tragedia che si rappresentava, tornava alla sua vita di sempre avendo magari imparato qualcosa in più sui problemi dell’umano vivere. I mezzi di comunicazione di massa hanno stravolto completamente questo assetto. La dimensione spettacolare è stata portata al massimo grado di esposizione: tutto è spettacolo: dai telegiornali alle guerre, dal farsi una doccia al friggersi un uovo.
     Il principale apparato della società dello spettacolo è la televisione. Paradigmatico è il caso dei Telegiornali che, da alcuni anni a questa parte, hanno assunto la forma del varietà, in quella confusione tra informazione e spettacolo che ha dato vita al neologismo infotainment. Due esperti della teoria e tecnica della comunicazione di massa come Ugo Volli e Omar Calabrese si sono occupati di questo problema in un saggio dal titolo “I telegiornali: istruzioni per l’uso”. Un libro nel quale vengono analizzate le metamorfosi dei Tg nella storia d’Italia dai primi anni cinquanta fino all’era della Tv berlusconiana, di cui bene conosciamo gli effetti. Nel capitolo “Informazione e spettacolo” gli autori espongono il loro giudizio sui Tg con queste parole: “La regia degli eventi, la costruzione dei colpi di scena, il montaggio degli argomenti, la personalità e l’aspetto fisico degli interpreti, l’impaginazione e la titolazione seduttiva, la costruzione della suspense, il lavoro che continuamente l’apparato mette in opera per costruire un’illusione di realtà. […] In televisione anche le notizie esistono solo se fanno spettacolo e si sottopongono alle leggi dello spettacolo - la prima delle quali è naturalmente che il pubblico ha sempre ragione e non si deve mai annoiare”. I due esperti non dimenticano l’aspetto ideologico del problema per cui: “Lo spettacolo del mondo come è raccontato dai notiziari televisivi è, secondo il punto di vista di Edelman, una essenziale sorgente di legittimazione per lo Stato: là fuori ci sono terribili nemici e sfide complicate; per riuscire a vivere tranquilli qui dentro, nel salotto di casa dove il mondo è spettacolo, qualcuno deve pensarci per noi”.          

Spettacolo: genere Telegiornale.

     E’ vero che Marx, già un secolo e mezzo fa, aveva capito che il capitalismo sarebbe degenerato verso la forma del più bieco consumismo. Egli tuttavia credeva che la morte del capitalismo si sarebbe verificata nel momento in cui l’offerta avrebbe superato la domanda, in una spaventosa abbondanza delle merci al consumo. Le cose sono andate un po’ diversamente. Nel nostro secolo almeno due “profeti” vanno menzionati in tal senso, per la loro opera di prosecuzione del pensiero di Marx nell’analisi della società consumistica: Pier Paolo Pasolini e Guy Debord rappresentano due punti di riferimento per tutti coloro i quali avvertono l’esigenza del cambiamento attraverso la critica sociale.
     Dai primi anni sessanta entrambi si erano accorti che la situazione per le masse andava via via peggiorando per il sempre più invasivo e opprimente potere della televisione. Pasolini in un articolo dal titolo “Acculturazione e acculturazione” pubblicato sul Corriere della sera del 9 dicembre 1973 (ora contenuto nella raccolta Scritti corsari), arrivò addirittura provocatoriamente a lanciare una sfida ai dirigenti Rai nella promozione della lettura: veri e propri sponsor, non relegati solo ai programmi culturali, ma inseriti nei palinsesti secondo le regole pubblicitarie che impongono di consumare. Da queste affermazioni del poeta emerge l’aspetto “utopico”, se vogliamo idealistico, del suo pensiero. In un tentativo estremo di arginare il “genocidio culturale” o comunque il disastro politico-sociale verso cui ci si stava indirizzando, attraverso forme di rieducazione delle masse mediante la presa di coscienza della propria condizione di sfruttati e inebetiti, derivante dalla lettura dei libri, Pasolini credeva di poter salvare ancora parte del popolo italiano prima che l’omologazione diventasse totale. In una intervista per la Rai degli anni settanta lo scrittore confessava di non aver compreso il motivo per cui al regima fascista, non era riuscito il completo assoggettamento delle masse attraverso l’appiattimento e la sottomissione totale negli usi e costumi degli italiani: un contadino rimaneva tale e così gli appartenenti alla classe operaia o del sottoproletariato urbano. Capì che tutto questo stava perfettamente riuscendo a questa forma di neocapitalismo detta consumismo, ma non fece in tempo a cogliere le modalità in cui questo assoggettamento si stava attuando. Tutta questa terribile mutazione totalitaria il poeta l’argomentò, con sconcertante lucidità, nel già citato articolo Acculturazione e acculturazione della fine del 1973. All’epoca bollato come catastrofico, antimodernista, eccessivo e, da alcuni adddirittura ideologico, se riletto oggi risulta essere una delle più precise analisi della società italiana a venire, quella che dagli anni ottanta in poi sarebbe divenuta la massima espressione della cossiddetta “neo-civilizzazione berlusconiana”. L’articolo merita di essere riportato nella sua quasi totale interezza:

     “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la oro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana.
     Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a sé l’intero Paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.
     L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che “omologava” gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale “omologatore” che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo.
     Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo  (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). […]
     Il ragazzo piccolo borghese, nell’adeguarsi al modello “televisivo”  - che essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale – diviene stranamente rozzo e felice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio “uomo” che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.
     La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto “mezzo tecnico”, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. E’ il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. E’ attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.
     Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie appunto la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…”.      

     Al suo pensiero mancava ancora un tassello, un’ultima tessera del puzzle per avere l’immagine nitida della realtà sociale che si stava configurando. La genesi del cancro è stata descritta da Guy Debord quando, nel saggio “La società dello spettacolo” del 1967, ha compreso il segno dell’irreparabile nella deriva consumistica dei lavoratori. Il capitale non opprime più l’operaio solo all’interno della fabbrica o ufficio, ma è fuoriuscito convertendo il lavoratore in consumatore. Anche il concetto marxiano di alienazione subisce una mutazione, un cambiamento radicale portato dal fatto che lo spreco del tempo libero diventa essenziale all’abbattimento, da parte del capitale, di ogni velleità rivoluzionaria. Mentre in passato era essenziale per il rivoluzionario mettere a buon fine il proprio tempo libero, pianificando la lotta da porre in essere contro la classe dominante, oggi il consumatore passa le proprie ore ad istupidirsi di fronte agli spettacoli che i suoi sfruttatori generano per lui. Baudrillard ha egregiamente sintetizzato questo concetto nella frase: Il consumatore è un lavoratore che non sa di lavorare.
     Scenario da romanzo di fantascienza. Completamente imprigionati all’interno delle gabbie del consumo, i lavoratori, rimangono oggetti passivi da sfruttare (in forme sempre piu’ viscide e sottili) per la totalità della loro esistenza. Non va peraltro dimenticato che l’analisi debordiana rivelava che lo strumento principale di influenza politico-sociale è ludico e non tanto religioso o politico. Come ribadiscono Volli e Calabrese nel saggio succitato: “Che una società tesa al consumo piacevole del tempo sia dominata dallo spettacolo, è perfettamente naturale, dato che lo spettacolo è la forma più economica di divertimento organizzato: economica per chi ne fruisce, perché gli si richiede pochissima attività; economica per chi la produce, dato che egli può contare su una forte sproporzione tra attori e pubblico. Economica infine nei suoi mezzi e contenuti, dato che si basa generalmente su forme fortemente codificate di racconto”. Il tassello finale, si diceva, sta nell’introduzione, da parte di Debord, del concetto di contemplazione che egli riprende da Storia e coscienza di classe di Gyorgy Lukács abbinandolo all’elemento fondamentale del consumo. In un passo di quest’opera il filosofo di Budapest afferma: “[…] più aumentano la razionalizzazione e la meccanizzazione del processo lavorativo, più l’atteggiamento del lavoratore perde il suo carattere di attività per trasformarsi in un atteggiamento contemplativo…”, concetto, questo, a cui Debord dedica l’occhiello al secondo capitolo.
A proposito di questo termine (dal latino contemplari “trarre qualche cosa nel proprio orizzonte”, era lo spazio che l’augure circoscriveva per osservare il volo degli uccelli e divinare il futuro), mutuato dalla teoria estetica,  non va trascurata l’origine che si ritrova in ambito filosofico e mistico-religioso. Già in Platone e Aristotele rappresentava la conoscenza intellettuale (theoria) da contrapporsi all’azione (praxis). Nel senso mistico-religioso l’atteggiamento contemplativo è quello in cui la mente si fissa su una realtà spirituale fino all’oblio di ogni altra realtà. Molto interessante risultano essere le tendenze mistico-contemplative fuori del cristianesimo, soprattutto nello yoga e nel buddismo, in cui la contemplazione è considerata il vertice nell’itinerario ascetico portando all’annullamento del pensiero e di tutti i desideri; sorta di comportamento ipnotico che fa pensare alla chiesa catodica del film Videodrome di David Cronenberg in cui il culto nei confronti video aveva raggiunto livelli di affascinante catastroficità.
Debord insiste fortemente nell’identificazione tra capitale e spettacolo giungendo ad una intuizione assolutamente geniale: “Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine”. L’offerta, come voleva Marx, ha sicuramente superato la domanda assumendo l’inconsistente forma dell’immagine. Aggiunge Debord: “Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni. La merce è questa illusione effettivamente reale, e lo spettacolo la sua manifestazione generale”. Questo è il surplus richiesto al lavoratore, non più inteso come proletario-operaio, come voleva l’economia politica nella prima fase dell’accumulazione capitalista, ma elevato al rango di consumatore durante il periodo di svago dal lavoro, bombardato da colossali investimenti in campo pubblicitario che garantiscono alla classe dominante di inculcare e imporre sempre più il modello di vita piccolo borghese, modello cinico, egoista, indifferente.

Fonte:
http://www.filosofico.net/socspettdebord.htm

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