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lunedì 7 ottobre 2013

Il poeta Pasolini «Cantore di borgata contro la modernità»

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Il poeta Pasolini «Cantore di borgata contro la modernità»

Il ricordo del cugino Nico Naldini, a 30 anni dalla morte:
«Attratto dall'anima popolare della natìa Casarsa e di Roma».
La Provincia di Sondrio - Francesco Mannoni

«Io e Pier Paolo siamo figli della guerra, nel senso che i nostri padri erano due giovani soldati della prima guerra mondiale abbastanza amici fra loro che sposarono due sorelle di Casarsa: mia madre e la madre di Pasolini. Tra Pier Paolo e me c'era una differenza di sette anni, ma già da ragazzino io gli andavo sempre dietro».

Il poeta e scrittore Nico Naldini, cugino di Pier Paolo Pasolini (05/03/1922 - 02/11/1975), ha accettato di ricordare il parente e amico nel trentennale della morte. Naldini , che con La Cargo edizioni ha appena pubblicato Come non ci si difende dai ricordi, un amaro racconto in cui la morte di Pasolini è il filo conduttore della memoria, parla del cugino come se fosse presente. «A differenza di tanti altri adulti - dice -, Pasolini aveva per me e per i miei coetanei un'attenzione pedagogica. Durante la seconda guerra mondiale, siamo stati suoi allievi in quarta e quinta ginnasio. Insegnandoci latino, greco, italiano e inglese, ci ha formati culturalmente dandoci anche qualcosa in più: l'aspirazione ad un miglioramento continuo personale e anche morale».





Il fattaccio che lo costrinse a lasciare Casarsa, fu davvero un episodio scandaloso come lo ricordano?

Accetto, ma non condivido i suoi termini fattaccio e scandaloso. Era il 1949, Pasolini aveva 27 anni e per accuse relative ad una presunta relazione omosessuale, fu espulso dalla scuola e dal partito comunista. Per difendersi dal comandante dei carabinieri di Casarsa che lo interrogava in modo stretto sulla vicenda, lui ha creduto di potersi giustificare dicendo che era stato suggestionato da certe letture di Gide e aveva voluto fare un'esperienza simile. Il partito comunista reagì nel modo più ingenuo, prendendo per buone quelle dichiarazioni che servivano soltanto a discolparlo, e lo espulse dicendo che Pasolini era impregnato di cultura decadente borghese.

Dopo che Pasolini lasciò Casarsa, vi vedevate spesso?

Da Casarsa andò a stare a Roma presso nostri parenti. Io lo andavo a trovare spesso, anche perché avevo rapporti con l'ambiente culturale romano, ma specialmente dopo che mi trasferii a Milano per lavorare nella casa editrice Longanesi, lo vedevo con molta più frequenza. Dagli anni Settanta ho cominciato a lavorare nel cinema nella casa produttrice dei suoi films, e ho collaborato con lui per il Decameron, e gli altri films della trilogia. Per Salò ho partecipato a tutte le fasi del film, dalla sceneggiatura alla preparazione e quando Pasolini è morto, ho dovuto affrontare da solo una situazione turbolenta, grazie però ad alcune istruzioni avute prima da lui su come intendeva impostare la difesa del film.

Da lingua e dialetto elaborò una cifra linguistica efficacissima nella poesia, nei romanzi e nei film: come arrivò secondo lei al connubio perfetto tra lingua e dialetto?

La nostra famiglia materna era di astrazione piccolo borghese, però il mondo intorno era di vecchi contadini, e abbiamo assistito ai riti agresti e al linguaggio che li accompagnava prima dell'avvento della meccanizzazione. Il dialetto era il friulano dei contadini, non era mai stato scritto benché il Friuli abbia da molti secoli una tradizione letteraria di tipo dialettale e campanilistica, perché quella della zona sulla riva destra del Tagliamento, era semplicemente una lingua di comunicazione tra contadini. Pasolini assunse questo dialetto non solo come metro linguistico, ma come mezzo etico di conoscenza del mondo in rapporto con la realtà. È stata un'operazione molto complessa.

Perché?

Pasolini, si è immerso ed è diventato compartecipe, quasi consanguineo al mondo dei giovani contadini di Casarsa, e l'ha trasferito nelle sue prime poesie ma anche nella forte immaginazione di un universo popolare. Una volta a Roma, un'operazione analoga l'ha compiuta nelle borgate romane, e il romanesco parlato in questi quartieri ha dato adito poi ai suoi romanzi.

Romanzi come «Ragazzi di vita» e «Una vita violenta», nascono proprio dallo studio del mondo dei borgatari?

Certo, uno studio non dottrinario, non tecnico, ma vissuto attraverso il contatto diretto con il mondo popolare delle borgate che allora erano luoghi ignoto, terre incognite. Anche le gerarchie del partito comunista non sapevano che esistessero. Credevano che fossero dei proletari: no, erano dei sottoproletari, qualcosa di peggio. Pasolini ha descritto il mondo popolare di Casarsa e delle borgate romane ed è lì la chiave poi del Pasolini apocalittico che si scaglia contro l'epoca moderna, e fa le sue riflessioni e le sue battaglie, perché il dolore di aver visto tramontare questi due mondi, per lui era immenso.

Il Pasolini poeta, invece, su quali basi conferma la sua ispirazione?

Il Pasolini poeta nacque quando la poesia ermetica dominava il panorama intellettuale, e lui reagì subito a quel mondo ermetico preferendo riferirsi ai poeti dell'Ottocento come Leopardo e Manzoni. Questo è stato il primo passo. Il secondo è stato adottare il dialetto dei contadini di Casarsa in termini poetici. E lì ha avuto il riconoscimento da parte di un grande filologo come Gianfranco Contini che scrisse una recensione al suo primo libro di poesie e confermò la sua idea di poter sfruttare il filone popolare. Questo aspetto si è poi concretizzato con le componenti sociali e politiche in Le ceneri di Gramsci, nel mondo del capitalismo, dei contrasti e delle lotte che sosteneva quotidianamente animato da una ideologia pura e indomabile.

Il politico come agiva, come si poneva al centro delle questioni che dibatteva?

Non aveva rapporti organizzativi né di responsabilità con un partito che in questo caso sarebbe stato il partito comunista, verso il quale ha diretto sempre diverse critiche. Fra l'altro disse che i comunisti italiani non avevano fatto quell'esame di coscienza che avrebbero dovuto fare alla caduta dello stalinismo. È stato sempre ritenuto un compagno di strada di cui non fidarsi perché poteva scoccare in qualunque momento una freccia polemica che la burocrazia del partito comunista non era disposta ad ascoltare. Questo benché all'interno del partito comunista ci fossero dei dirigenti che lo stimavano molto, tipo d'Onofrio. Ma soprattutto Nenni ha avuto per lui una gran simpatia. Oltre che essere scomodo, Pasolini si sentì sempre libero di dire quello che voleva e pensava, senza mai tirarsi indietro per ragioni di convenienza o di diplomazia. Sulla sua fine sono state dette e scritte tante cose. Lo stesso Pelosi ultimamente ha parlato di complotto, di più persone che hanno ucciso lo scrittore.

Secondo lei, cosa accadde veramente quella notte?

A questa domanda da trent'anni rispondo in maniera univoca. Quando ho saputo della sua morte violenta, ho pensato ad un assassinio come tanti altri che si sono verificati tra uomini che avevano rapporti con dei giovani. Da tutte le indagini criminologiche non è venuta fuori una sola prova che l'assassinio fosse opera di più persone. Ho sempre sostenuto che Pelosi era solo. Ci sono infinite supposizioni, una più fantastica e stupida dell'altra per spiegare la morte di Pasolini. Tutte fandonie. La mia intuizione l'ho avuta il giorno dopo la morte di Pasolini quando ho visto la foto del suo assassino sui giornali. E ho pensato: questo è il tipo di ragazzo di cui Pasolini si sarebbe forse innamorato perché apparteneva alla sua tipologia erotica.

A trent'anni dalla morte, le opere di Pasolini ancora si leggono, ancora fanno discutere, creano scandalo: la sua perdurante attualità è frutto di una intelligenza che riesce ancora a turbare?

È la forza delle sue idee, il modo di esprimerle, a tenere vivo un sentimento che nasce dal cuore ma passa per il cervello: è un'operazione che richiede grande forza culturale ma anche morale, perché combatte contro tutti. Non c'è una verità stabilita al di fuori che uno si accontenta di contemplare e buonanotte; la verità va ricostruita giorno per giorno, e credo che nel nostro tempo così incline ai compromessi, a forme di corteggiamento, di sudditanza, di sfruttamento, la sua genuinità sia sentita come un valore non più corrente, e intorno a questa assenza c'è come una nostalgia. La gente legge Pasolini per apprendere una verità taciuta provenire da colui che ha avuto il coraggio di dirla . In questo senso è quasi la coscienza di un Paese che una volta tanto non dimentica. Pasolini ha molta fortuna anche all'estero, in Germania soprattutto. I suoi libri e le sue poesie sono tradotte anche in America ed è uno degli scrittori più noti e amati all'estero.




Fonte:
http://www.cinemagay.it/dosart.asp?ID=2244


Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Pasolini - Una domanda a cui non so rispondere

"ERETICO & CORSARO"


Una domanda a cui non so rispondere

Alcuni brani dello scrittore scomparso venticinque anni fa

di Fabio Pierangeli

Nostalgia del cristianesimo. Passione e morte. Come se, con le lucciole che scompaiono davanti al cemento delle città, possa morire anche quell’antica tradizione, legata al «paese di temporali e primule», alla civiltà contadina.
«Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, / dalle chiese, / dalle pale d’altare, / dai borghi [...] E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più»1 (Pier Paolo Pasolini, Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa).
Non poco dell’opera di Pier Paolo Pasolini (nato a Bologna nel 1922, ma intimamente legato ai luoghi nativi della madre, il Friuli, il «paese di temporali e primule» dove visse alcuni anni fino al 1950) attinge a queste immagini:
«Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto / in ogni mio intuire. Ed è volgare, / questo non essere completo, / mai fui così volgare come in questa ansia, / questo “non avere Cristo” – una faccia / che sia strumento di un lavoro non tutto / perduto nel puro intuire in solitudine» (Poesia in forma di rosa).
Lontanissima eco di quel paese religioso, Pasolini la riconosce, fino alla metà degli anni Sessanta, nelle strade violente della borgata romana. Era arrivato nella capitale nel 1950, in misere condizioni economiche. Aveva dapprima abitato nel ghetto ebraico, a piazza Costaguti, poi nelle borgate accanto all’Aniene e in seguito, una volta risolti i problemi economici, a Monteverde.

Pier Paolo Pasolini (1922-1975) fotografato nella sua casa romana

Pier Paolo Pasolini (1922-1975) fotografato nella sua casa romana
«Stella, stella guidaci nel cammino», dice Accattone, nel film omonimo, incontrando per la prima volta la ragazza (attrice friulana) che porta quel nome. Il suo sguardo, rivolto alla bionda Stella, smagato, furbetto, rassegnato, malizioso conserva per il regista una qualche autenticità creaturale, estranea alla grande omologazione. Non a caso Pasolini prova a più riprese ad ambientare tra quelle baracche, specie al Mandrione, nella Mortaccia e poi nella Divina mimesis, un poema, sulle tracce della Divina Commedia, omaggio all’amatissimo Dante. Non ci riuscirà.
Al di fuori di questo mondo del sottoproletariato, l’orribile e «volgare» mancanza si avverte a tutti i livelli, creando abnormi situazioni di noia e crudeltà. Come nelle sei tragedie, culmine, sia pur artisticamente debole, della violenta critica al mondo borghese, alla società del capitale e dell’interesse.
L’uomo è solo con se stesso, onnipotente, macabro, orgoglioso. Squallidamente annoiato dalle sue trasgressioni, come in Orgia. La ragione diventa follia, fissazione su un particolare, magari del passato, che non ritorna come si vorrebbe, non avendo più alcuna apertura alla realtà delle cose, come nel rapporto tra padre e figlio in Affabulazione. Niente accade di nuovo: è il segno del «vuoto volgare» che nei più intelligenti personaggi di Pasolini diviene appunto nostalgia di un avvenimento presente di novità.
Già riassuntivi i versi del poemetto Pietro II, del 1963, poi raccolti in Poesia in forma di rosa:
«Il sangue di Cristo si è fatto ceralacca, / la ceralacca polvere, la polvere omissis. / Non una parola, o un accenno, o uno sguardo, / ah, uno sguardo, sono cristiani, per chi / ha l’abitudine, poco civile, certo, e un po’ angosciosa, / di richiedere questo a uno che parla, a uno che guarda. / Ah, dolce religione, del resto tante volte tradita, / nell’uomo in cui ti sei inaridita, nasce la pazzia [...] L’io soffre / un’inestetica erezione: ha per sé un amore infelice [...] Dove il Cristianesimo / non rinasce, marcisce. E, contraddizione / mille volte, mille volte allusa / dal mio Cristo irriducibile, / finisce difeso da qualche Erodiano impazzito / macabramente privo di senso del ridicolo».
Del 1968 è Teorema, film e romanzo, ambientato a Milano. Pasolini pretende di inventare lui un dio carnale, l’Ospite. Anche artisticamente è fuori strada. La figura rimane irrisolta, la favola illusoria. Meglio riuscita la seconda parte, dove i personaggi, abbandonati dal dio che li aveva posseduti carnalmente, recitano diversamente la loro malinconia, fino a capire di abitare il deserto, pieni di una domanda, di un urlo straziante:
«IO SONO PIENO DI UNA DOMANDA A CUI NON SO RISPONDERE. / [...] È un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo».
Invocare l’attenzione di qualcuno che non si conosce e di cui si avverte il desiderio e la nostalgia. Dei movimenti e delle situazioni del romanzo l’urlo qui richiamato è ciò che resta più impresso.
Nel film Teorema le immagini rendono ancor più plasticamente la potenza dell’urlo finale. Sono fotogrammi che richiamano un altro finale quello del Vangelo secondo Matteo, racconto fedele di un fatto storico.
Nei finali dei due film citati la cinepresa sorprende il correre di uomini; la corsa solitaria e disperata di Paolo, protagonista di Teorema, nella cui pelle traspare la sabbia del deserto e il riflesso della luce, cielo e sudore, e la cui voce consegna al vento l’urlo disperato, anche oltre la parola fine. E la corsa stupita degli apostoli verso Gesù Cristo risorto che pronuncia una frase affascinante e commovente che abbraccia e dà respiro, completamente sorprendendola, alla genialità poetica dell’uomo: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
«Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Quello che interessa è solo il presente.
«Caro Dio, / liberaci dal pensiero del domani [...] Caro Dio, / l’idea del potere non ci sarebbe se non ci fosse l’idea del domani [...] Caro Dio, / facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi» (Preghiera su commissione, in Trasumanar e organizzar).
«Dà angoscia il vivere di un consumato amore» (Il pianto della scavatrice, in Le ceneri di Gramsci), o di una rappresentazione, di una favola, di un sublime racconto (di fronte a cui è più sincera la ragione goliardica dei film picareschi, fino alla boccaccesca Trilogia della vita). Pasolini è come se volesse rivivere gli incontri evangelici in prima persona, chiamando amici e scrittori intorno a sé a recitare quell’evento. Perfino la madre dello scrittore interpreta la Madonna nel Vangelo secondo Matteo.
In una lettera del 27 dicembre 1964 a don Giovanni Rossi, fondatore della Pro Civitate Christiana di Assisi, visitando la quale trovò spunto per il Vangelo secondo Matteo2, Pasolini scrive:
«Sono bloccato, caro don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere».
La Grazia: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Anche oggi, in un mondo in cui la grande omologazione, venticinque anni dopo quella notte tra il 1º e il 2 novembre all’idroscalo tra Ostia e Fiumicino in cui Pasolini fu ucciso, è trionfante.
«Dà angoscia il vivere di un consumato amore»: profonda e poetica saggezza umana. Attesa. Lo ha scritto Patrizio Barbaro. In Pier Paolo Pasolini. Biografia per immagini:
«“La vita finisce dove comincia”, ha scritto Pasolini. È una speranza. La vita comincia quando vi irrompe una novità bella e felice, una cosa imprevedibile e inaspettata. Allora la vita comincia nuova e tutto quello che c’era prima diventa subito irrimediabilmente vecchio, passato, nostalgia. Finisce. Ecco perché la vita finisce dove comincia. È un augurio. Che la vita cominci. Che accada un inizio» (p. 192).
Credo che Patrizio (scomparso nel ’99, il 29 settembre, come papa Luciani) ci guardi dal Paradiso.
Amava (ama) la realtà, il presente. E quindi Pasolini e i poeti. Non viceversa. Grato di quel dono semplice di aver intravisto nello sguardo di un amico l’accenno di una luce e di una speranza, anche dentro il tempo della malattia.
Poco prima di morire, sapendo di morire, ha scritto queste altre parole, sullo sguardo («ah, uno sguardo»), tema caro al cinema di Pasolini:
«L’occhio guarda, per questo è fondamentale. È l’unico che può accorgersi della bellezza. La visione può essere simmetrica lineare o parallela in perfetto affiancamento con l’orizzonte. Ma può essere anche asimmetrica, sghemba, capricciosa, non importa, perché la bellezza può passare per le più strane vie, anche quelle non codificate dal senso comune. E dunque la bellezza si vede perché è viva e quindi reale. Diciamo meglio che può capitare di vederla. Dipende da dove si svela. Ma che certe volte si sveli non c’è dubbio [...]. Il problema è avere occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono, nemmeno l’ordito minimo della realtà. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio».




Note
1 La poesia è letta da Orson Welles nella Ricotta di fronte ad un giornalista.
2Si veda a questo proposito la testimonianza di Lucio Caruso su 30Giorni del novembre 1994. 

Fonte:
http://www.30giorni.it/articoli_id_12318_l1.htm


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Curatore, Bruno Esposito

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