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mercoledì 3 luglio 2013

Il Cristo di Pasolini e il Cristo di De André

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Il Cristo di Pasolini e il Cristo di De André

Amore per l’uomo e riscritture del sacro

tra eresia e bestemmia


Spesso viene accostato il Cristo dell’album La buona novella del 1970 di Fabrizio De André al Cristo di Pier Paolo Pasolini de Il Vangelo secondo Matteo del 1964. In realtà, le cose sono più complicate del previsto. Per quanto sicuramente il cantautore conoscesse il film e non gli fosse indifferente, l’umanità del Cristo di De André è sicuramente diversa, di certo più completa.
È vero che Pasolini desacralizza l’intera rappresentazione filmica: i movimenti di macchina puntano decisamente verso un linguaggio diverso rispetto ai suoi film precedenti – per esempio Accattone o Mamma Roma – e persino al suo modo di intendere il cinema. Se per Pasolini il ricorso al linguaggio cinematografico serviva a realizzare la rappresentazione della realtà attraverso la realtà stessa, cosa che in letteratura non era possibile per via dell’ovvio rapporto arbitrario tra significato e significante delle parole, la sua tecnica non faceva altro che riprodurre il mondo com’è, ponendo però il materiale ripreso necessariamente fuori dal tempo e donandogli sacralità e ieraticità; è questa probabilmente la grande forza innovatrice del cinema pasoliniano, grazie alla posizione del neofita che fa di necessità virtù. Leggiamo le parole del regista in riferimento al suo film Accattone:
Il mio primo, istintivo approccio con la tecnica cinematografica è stato quello di semplificarla: questa semplificazione ha portato con sé una scoperta estetica, cioè quella della semplicità ieratica ferma, fissa, sacrale delle immagini“(1)

Ora, però, il fatto di rappresentare un Vangelo canonico attraverso la macchina da presa risentiva senza scampo di un rapporto mediato dalla stessa Scrittura, proprio dal Vangelo di Matteo. La Scrittura avrebbe posto un diaframma infrangibile tra l’intenzione artistica e il risultato, riscontrabile nel “momento di crisi tra Accattone e Il Vengelo secondo Matteo“(2) riferitoci dallo stesso regista. Così accadde che la inalienabile sacralità del soggetto, il volerlo riproporre in quel modo, persino con lo stesso titolo, impose a Pasolini di rivedere il proprio stile: non era più possibile girare con lo stile di Accattone, per almeno due motivi:
a) il primo di natura semiotica: la scrittura, che è chiaramente meno denotativa dell’immagine, trasforma il film in azione semiotica di secondo grado: se per Accattone il percorso traduttivo era «vita > cinema», per Il Vangelo è «Scrittura > vita > cinema»;
b) il secondo motivo è di natura culturale: recitare quei passi, quelle battute, ineluttabilmente riconosciute come ‘sacre’ dall’immaginario collettivo avrebbe imposto un vincolo percettivo ineliminabile al materiale-mondo.
Per questo il film e il Cristo di Pasolini completano inevitabilmente il proprio significato nel doppio registro dell’intenzione umana del regista e dell’essenza sacra del soggetto. Rendere sacro il sacro non avrebbe fatto altro che creare gratuita retorica, così interviene la mano del regista: camera a spalla, diversi obbiettivi per diverse scene, movimenti di macchina vistosi, si crea un linguaggio che nella ferma, fissa ieraticità precedente era assente:
Quando ho cominciato a girare Il Vangelo credevo di avere la formula in tasca per girarlo: pensavo istintivamente al mio modo di girare, a questa forma di sacralità tecnica. […] Ho cominciato a girarlo in quel modo lì e ho fatto delle cose orrende, orribili, insopportabili. […] Ed è chiaro il perché: eseguire Il Vangelo attraverso una tecnica sacra, ieratica, religiosa era far piovere sul bagnato. […] E allora ho dovuto rivoluzionare la mia tecnica: c’è una mescolanza di tecniche, un magma di tecniche, che ha contraddetto completamente il tecnicismo sacrale di Accattone“.(3)
Per questo, il Cristo di Pasolini contiene in sé un alone sacro ineliminabile:
Ho sentito l’alone di sacralità, di mistero, di divinità che aleggia in tutto il testo di Matteo“(4); verso quel Cristo si può rivolgere una bestemmia, non un’eresia, se si gioca nel suo campo.
Il Cristo di De André invece è uomo senza la minima presenza della divinità; differentemente da Pasolini, De André è eretico, non bestemmiatore. Il cantautore si rifà ai Vangeli apocrifi, quindi alla credibilità del dettato artistico non pesa il fatto di doversi confrontare col monolite culturale di una credenza millenaria. Questa particolarità non era presente alcuni anni prima in un’altra canzone – non a caso ritenuta minore – in cui De André descrive la figura di Cristo: il brano Si chiamava Gesù.(5)
 Lì la descrizione appare farraginosa, a volte didascalica:

Non intendo cantare la gloria
né invocare la grazia e il perdono
di chi penso non fu altri che un uomo
come Dio passato alla storia.

fra l’altro cedendo poi allo scacco della mancanza di sostanza nel passo successivo:

Ma inumano è pur sempre l’amore
di chi rantola senza rancore
perdonando con l’ultima voce
chi lo uccide fra le braccia di una croce.

Probabilmente l’autore si rende conto del fatto che sia gratuito mettere in discussione la divinità del Cristo, scrivere una canzone unicamente su questo. Così apre le porte al dubbio, fino a farlo diventare unica ragione d’esistenza del brano stesso.
Ne La buona novella, invece, lo stratagemma dei Vangeli apocrifi garantisce uno scudo di umanità alla figura di Cristo. Non che i Vangeli apocrifi narrino un Gesù umanizzato, ma già il termine ‘apocrifo’, soprattutto nell’accezione di ‘non autentico’, in sé è sufficiente all’operazione artistica di De André. Più approfonditamente scopriamo che ‘apocrifo’, etimologicamente derivante da APOKRÝPTEIN (‘nascondere al tutto’), vuol dire ‘nascosto’, così, per l’intero album, De André dà la sensazione di colui che ‘scopre’ un’altra verità, attestata e alternativa. È l’opera di De André a diventare ‘apocrifa’, restituendoci di fatti – dopo l’immersione nel territorio nascosto – un vero e proprio Vangelo di De André.
D’altra parte questo pone il cantautore anche in una posizione di vantaggio rispetto alla stessa sacralità della Scrittura: la divinità – qui sta forse l’aspetto più riuscito dell’opera – è presente in tutto l’album, ma è posta sempre in posizione dialettica rispetto ai personaggi, a Giuseppe, a Cristo e persino a Maria, che nella canzone Tre madri(6) arriverà a dire ai piedi della croce “Non fossi stato figlio di Dio / t’avrei ancora per figlio mio“. Ogni movimento, vicenda, storia personale o sociale raccontata nel disco si tinge del rapporto dialettico canonico/apocrifo e vi trova legittimità e credibilità artistica e culturale. Si prenda proprio il brano Tre madri: lì le madri di Tito e di Dimaco, i due ladroni, accusano Maria di piangere “troppe lacrime” solo “l’immagine di un’agonia” perché sanno che Gesù resusciterà al terzo giorno; è proprio rispondendo a queste parole che Maria sottolinea il suo dolore e gli aspetti umani del figlio:

Piango di lui ciò che mi è tolto,
le braccia magre, la fronte, il volto, ogni sua vita che vive ancora,
che vedo spegnersi ora per ora.

Mentre le altre due madri sono perfettamente calate nella vicenda sacra, Maria è pienamente cosciente dell’unica dote di quel Cristo, quella umana, ma non per questo risulta meno credibile, anzi, sembra avere pieno diritto di cittadinanza nell’opera di De André, opera che regge perfettamente l’urto del confronto coi canonici stessi. Non si tratta più di un guazzabuglio giustapposto alla meno peggio come il brano Si chiamava Gesù, ma di un disco con una forte e – quel che più conta – esclusiva coerenza interna.
In ultima analisi una provocazione: non sembra assurdo ipotizzare che da qui De André sia partito per dipingere i personaggi di Lee Master in un’ottica del tutto personale. Il Cristo de La buona novella e tutti i suoi personaggi umani si pongono infatti nella posizione dell’homo sacer di Giorgio Agamben(7), esclusi sia dal diritto sociale che dalla grazia divina: caratteristica di tutti i personaggi di Non al denaro, non all’amore né al cielo, album dal titolo emblematico.

Note:
  1. P. P. Pasolini, trascrizione del dibattito Cinema e letteratura nell’opera di Pier Paolo Pasolini, organizzato dal Circolo del Cinema di Alessandria (21 novembre 1964) 
  2. Ibidem.
  3. Ivi, pp. 778-779
  4. Ivi, p. 780
  5. F. De André, Si chiamava Gesù, in Volume I, Bluebell Records, 1967, t. 4
  6. F. De André, op. cit., 1970, t. 8
  7. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995
Fonte:
http://www.ipercritica.com/2011/01/il-cristo-di-pasolini-e-il-cristo-di-de-andre/



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Curatore, Bruno Esposito

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