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martedì 28 maggio 2013

Pasolini e Saviano - Pasolini, teatri di narrazione, Saviano: passaggi di testimone

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini, teatri di narrazione, Saviano: passaggi di testimone
Gerardo Guccini


1-Una voce che parla ancora

Se anche non avesse scritto il Manifesto per un nuovo teatro e alcuni fra i drammi più rappresentati e significativi del secondo Novecento, Pier Paolo Pasolini sarebbe comunque presente nelle opere e nella cultura dell'innovazione teatrale. Le ragioni del suo radicamento risaltano con particolare evidenza dalla sofferta iniziazione alla testimonianza che Roberto Saviano descrive nel penultimo capitolo di Gomorra, spiegando la scelta che lo ha portato a scrivere il libro.
Il brano fa comprendere perché la voce di Pasolini continui a parlare nitida ed esigente agli scrittori, agli intellettuali e ai teatranti che trasmettono conoscenze del reale acquisite per via d'esperienza, e consegnano quindi ai propri lettori o spettatori opere/sonda che li introducono all'esplorazione delle cose e di se stessi in quanto membri consapevoli della collettività umana.
La parola di Pasolini restituisce chi la pronuncia, vale a dire l'identità dell'autore, che, rapportandosi da persona a persona con gli interlocutori venuti dopo, si rigenera attraverso dialoghi interiori fatti di concordanze, di rispecchiamenti, di pensieri completati o intuiti nel passaggio dall'una all'altra mente. Il rituale riportato dalle pagine di Gomorra mostra una faccia di questo rapporto. Qui, la voce dell'interlocutore presente e quella dell'interlocutore assente si sovrappongono dicendo parole, che non solo procedono le une dalle altre e sono in parte uguali, ma attestano la stessa tensione etica, la stessa volontà di intervenire e non permettere che le cose, una volta conosciute, restino uguali a prima. Saviano dunque si immedesima nelle idee di Pasolini, o meglio nel loro procedere da un'esistenza che ne viene a sua volta segnata. Quest'iniziazione alla testimonianza, pur non facendo menzione al teatro pasoliniano, ne realizza l'essenza di «rito culturale». A Casarsa, ripetendo di fronte alle tombe di Pasolini e della madre il celebre articolo di denuncia civile apparso sul «Corriera della Sera» il 14 novembre 1974 («Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe…»), Saviano avverte nelle idee dell'autore intrecci di parole ed esistenza, che trasformano in interlocutore chi sente d'esserne il destinatario e dialoga con loro.

2-L'io narrante di "Gomorra"

Gomorra compenetra le forme del romanzo e quelle dell'inchiesta secondo tecniche di composizione che passano al lettore conoscenze del reale, evitando, però, svolgimenti lineari e pienamente esplicati. In altri termini, Saviano innesta la vocazione originaria della scrittura, che lancia nella realtà la forza delle parole, ad una personalità assolutamente contemporanea, abituata, cioè, a pensare per immagini, a congetturare attraverso montaggi, a recepire per frammenti, a considerare la discontinuità, l'assenza, l'interruzione delle presenza e l'omissione del senso, qualità proprie alle fenomenologie dell'esistente.
L'unità che Saviano infrange per trovare una forma duttile e trasformabile, che veicoli le strutture, la storia, i singoli profili e il mondo psichico del «sistema» camorristico, è proprio quella dell'io narrante.
Scelta in qualche modo obbligata. Narrando un'antropologia vissuta, Saviano non sceglie infatti, a differenza dell'antropologo o del reporter, determinate realtà da avvicinare, indagare e descrivere, ma decide di affrontare e conoscere attraverso le sue molteplici articolazioni la realtà in cui si trova di già immerso. La sua denuncia d'una economia fondata sull'orrore, che non solo viola le disposizioni del vivere civile, ma, quel che è peggio, tende a sostituirle, si intreccia a imbarazzanti dichiarazioni di vicinanza. Parte di una società segnata dalla connivenza e dall'omertà, l'autore non si dichiara immune dai mali che indaga e che, proprio perciò, può testimoniare al lettore. Questa posizione di osservatore incardinato all'argomento, di antropologo iscritto nella comunità indagata, colloca a monte di Gomorra e, invisibile a lato delle sue narrazioni, un fluido 'romanzo di formazione' dove si svolgono transizioni fra letteratura e realtà, scoperte, assunzioni di responsabilità, incontri, indagini documentarie e inchieste accanite, elementi tutti che Saviano, con scrupoloso senso della forma, rifiuta di narrare distesamente per non fare di se stesso un protagonista contrapposto al mondo antropologico del «sistema». Vale a dire, l'eroe del romanzo. Piuttosto, la sua preoccupazione è quella di spiegare la propria posizione rispetto agli eventi narrati, mostrando dove e come li vede, e dichiarando l'impatto emozionale ed etico di tali osservazioni. Gli undici capitoli di Gomorra esplorano ognuno una diversa diramazione del "sistema" camorristico. Collocandosi all'interno dei traffici con la Cina e l'alta moda, della sociologia del mondo criminale o dello smaltimento dei rifiuti, l'io narrante si presenta, di volta in volta, come infiltrato in veste di manovale, come reporter senza testate di riferimento, come parente di affiliati; lo vediamo trasportare casse inseguendo i rapporti fra criminalità e industria, mettere il registratore su tavole di pizzeria dove mangiano giovani affiliati, giungere in moto sui luoghi del delitto. Nessuno di questi accenni si sviluppa però in una narrazione sulle attività giornalistiche, sulla rete degli informatori (che non era d'altronde possibile indicare), sui mestieri svolti, sicché l'io narrante risulta talmente poco descritto e connotato in senso diegetico da poter essere, nota Wu Ming 1, addirittura sostituito:

l'io narrante di Gomorra è l'autore, ma non soltanto e non sempre. L'autore […] ha esercitato la libertà di "dare dell'io a qualcun altro", di collocarsi dietro gli occhi di diversi "io" che raccontano storie di camorra. Non "io è un altro" ("je est un autre", come scrisse Rimbaud), bensì "anche un altro è io" ("un autre aussi est je"). L'io che racconta dell'economia cinese in Campania non è lo stesso che racconta delle pecore spaccate a metà dai colpi di prova del "tubo" (il fucile fai-da-te usato dal "Sistema"), e così via. È sempre "Roberto Saviano" a raccontare, ma "Roberto Saviano" è una sintesi, flusso immaginativo che rimbalza da un cervello all'altro […][1].

Gomorra connette queste espressionistiche peripezie dello sguardo a serrati racconti cronologicamente ordinati, che documentano le saghe delle famiglie camorristiche, l'evolversi dei sistemi economici e i rapporti con le istituzioni. Quando, però, l'io narrante riferisce quello che ha visto e di cui è stato personalmente testimone, le sue relazioni, proprio perché l'io non è sempre lo stesso, individuano eventi che non è possibile disporre all'interno d'un tempo unitario. Da un capo all'altro del libro, quello che viene descritto in un capitolo potrebbe essere avvenuto, in molti casi, prima o dopo o contemporaneamente a quello che viene descritto nel capitolo successivo. I due criteri della conseguenzialità temporale – e cioè la continuità biografica dell'io narrante e quella diegetica della vicenda – saltano infatti entrambi a fronte di un'antropologia vissuta che non si struttura per episodi, ma per argomenti. Svolgendoli, Saviano alterna dimensioni temporali di ampiezza storica e vertiginose focalizzazioni, cogliendo, ad esempio, l'attimo in cui una pallottola vagante distrugge i pensieri e le percezioni d'una bellissima quattordicenne che ha la sventura di trovarsi, per strada, nelle ore del passeggio, nelle vicinanze d'un attentato.

3-Ritorno a Pasolini

Vi è però un momento in cui l'io narrante racconta l'episodio da cui procede Gomorra, segnando un nitido post quem oltre il quale il lettore viene invitato a collocare la stesura del libro e l'impegno dello scrittore a misurarsi con la realtà attraverso la parola. Ed è qui – in questo snodo nevralgico – che incontriamo il nome di Pasolini. Ricordandolo e quasi sovrapponendosi a lui, Saviano occupa il centro della scena senza per questo fare di sé un protagonista delle vicende narrate. Il ritorno a Pasolini, alle sue parole e al suo esempio, non s'inquadra infatti in una successione di fatti biografici. E cioè, non descrive la storia personale dell'io narrante, ma l'impulso da cui nasce del libro.
Parlando di Casarsa e Pasolini, Saviano racconta la scelta di vivere la letteratura facendone uno strumento d'azione civile. L'episodio cade, verso la metà del libro, nel capitolo Cemento armato, che affronta la speculazione edilizia, il monopolio dei Casalesi, le morti sul lavoro. Saviano ricorda, qui, la fine di Francesco Iacomino: quando questi cade dall'impalcatura tutti si allontanano; chi resta non lo soccorre, ma lo trascina a morire lontano per evitare che l'inchiesta risalga al cantiere. Questa penetrazione del male nelle tenere fibre dei rapporti quotidiani, scuote l'io narrante, che parla di sé al lettore:

la morte di Iacomino mi innestò una rabbia di quelle che assomigliano più a un attacco d'asma piuttosto che a una smania nervosa. Avrei voluto fare come il protagonista de La vita agra di Luciano Bianciardi che arriva a Milano con la volontà di far saltare il Pirellone per vendicare i quarantotto minatori di Ribolla, massacrati da un'esplosione in miniera, nel maggio 1954, nel pozzo Camorra[2].

A questo punto interviene il ricordo di Pasolini:

appena entrai nella crisi asmatica di rabbia mi rimbombò nelle orecchio l'Io so di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva fino all'assillo[3].

Lo scritto a cui si fa riferimento è il famoso articolo apparso sul «Corriere della Sera» del 14 novembre 1974 («Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe...»)[4].

Erano gli anni di piombo in cui le cosiddette "stragi di stato" trascinavano la storia del paese in spirali di sanguinosa violenza. Pasolini reagì alle mancate individuazioni dei responsabili, che impedivano alla memoria collettiva di elaborare il lutto, concependo lo straordinario gesto d'una testimonianza senza dati, senza nomi, senza contenuti specifici; d'una testimonianza, insomma, che introduceva nel dibattito pubblico la sua figura del testimone. La posta in gioco era altissima. Il fatto che i responsabili d'una fase oscura della storia civile potessero venire riconosciuti, pensati e testimoniati, non bastava certamente a fare giustizia, ma forniva comunque l'esempio d'un atteggiamento di consapevolezza e attesa, che non rinunciava né al diritto a conoscere né alla speranza nella giustizia.
Pasolini indicava ad una opinione pubblica frastornata e divisa che manifestare il senso degli eventi è un atto necessario e storicamente efficace.

4-L' "io" testimoniale da Pasolini a Saviano

A Casarsa, Saviano, con ancora in testa il martellante Io so pasoliniano, dispone le potenzialità della propria scrittura in un'analoga prospettiva d'intervento:

Andai sulla tomba di Pasolini non per un omaggio, neanche per una celebrazione. […] mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse ancora possibile riflettere senza vergogna sulle possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se […] era ancora possibile inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, l'affermazione dei poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura[5].

Pasolini, quindi, come antidoto allo svuotamento postmoderno della parola (della quale gli autori hanno imparato a vergognarsi), come ricerca d'una scrittura che trasmetta la sostanza del reale, come esempio d'un ripristinato equilibrio fra la forza conoscitiva della mente e quella della violenza. La visita a Casarsa si risolve con un passaggio di testimone:

Mi sembrò d'essere meno solo, e lì iniziai a biascicare la mia rabbia, con i pugni stretti sino a far entrare le unghie nella carne del palmo. Iniziai ad articolare il mio io so, l'io so del mio tempo[6].

È la genesi mitica di Gomorra. L'io so di Saviano, che integra la testimonianza pasoliniana con l'essenziale elemento delle «prove». Mentre Pasolini, non avendo prove, dice di sapere nomi che non pronuncia, Saviano «h[a] le prove» e fa i nomi. L'io so del primo si diffonde per contagio e trova rifugio nelle coscienze individuali. Quello del secondo s'intreccia a procedimenti giudiziari che sviluppano le vicende narrate al di là del libro:

Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e prendono l'odore. L'odore dell'affermazione e della vittoria. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove [7].

Il «rito civile» di Casarsa traduce in termini mitopoietici un evento reale. Nel 2005, «Nuovi argomenti», la rivista che fu di Pasolini, aveva deciso di ricordare il trentennale della morte dello scrittore, pubblicando una sezione di giovani autori chiamata Io so. Rispondendo alla richiesta, Roberto Saviano, Helena Janeczeck, Alessandro Leogrande, Marco di Porto, Osvaldo Capraro e Babsi Jones affrontano sette diversi problemi con piglio «corsaro»: la criminalità organizzata e l'uso dei minori, i nuovi avventurieri dell'economia italiana, il multiculturalismo ai tempi del terrorismo, l'antisemitismo di sinistra, la pedofilia nella Chiesa, lo stragismo vent'anni dopo, la percezione della guerra nei Balcani.
Solo Saviano include il titolo del dossier in quello del proprio contributo (Io so e ho le prove), che riprende lo schema del testo pasoliniano. Scrive Saviano nel 2005: Io so e ho le prove.
Io so come hanno origine le economie e dove prendono l'odore. L'odore dell'affermazione e della vittoria.
Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente.

Io so e ho le prove[8].

Questo inizio, come s'è visto, verrà poi incluso all'interno del capitolo Cemento armato dove vengono trattati gli stessi contenuti del testo scritto per «Nuovi Argomenti». Anche qui come in Gomorra si parla infatti di speculazione edilizia, del monopolio dei casalesi, del lavoro nero e delle sue stragi. Immediatamente, seguono i nomi: Io so ed ho le prove. E le prove hanno un nome. Sono Ciro Leonardo morto a 17 anni mentre stava riparando un solaio cascando dal settimo piano. Le prove si chiamano Francesco Iacomino, aveva 33 anni quando l'hanno trovato con la tuta da lavoro sul selciato all'incrocio tra via Quattro Orologi e via Gabriele D'Annunzio ad Ercolano[9].
L'ordito narrativo di Gomorra e la concatenazione di fatti reali che si conclude con l'articolo Io so e ho le prove dispongono in senso contrario gli stessi elementi. Il primo fa discendere dallo sdegno per le morti sul lavoro il viaggio a Casarsa e il ritorno a Pasolini. La seconda, invece, parte dal trentennale della morte di Pasolini per risolversi in uno scritto che affronta anche le morti sul lavoro. Alla luce del confronto testuale con l'articolo, il «rito civile» di Casarsa sembrerebbe ispirarsi a un incontro di voci e intenzioni effettivamente avvenuto, non di fronte alla tomba dello scrittore, bensì, con tutt'altre modalità, sulle pagine di «Nuovi Argomenti». Ascendenza che renderebbe l'episodio al contempo falso e più vero d'un fatto reale. Proiettato in un luogo emblematico della narrazione di Gomorra, l'Io so di Saviano sembra infatti esprimere, all'interno di queste concatenazioni intrecciate, il rapporto dell'autore con la scrittura di Pasolini. Le cose, però, sono più complesse di così.




5-Ossa sotto la carne

Nel 2006, fresco vincitore della 77esima edizione del Premio Viareggio Repaci con il libro-rivelazione Gomorra, Roberto Saviano viene intervistato per «Il mattino» da Maria Vittoria Messori, che, mostrando di essersi preparata all'incontro, gli chiede del viaggio a Casarsa. Saviano conferma:

Quando sono andato a Casarsa, sulla tomba di Pasolini, ero particolarmente arrabbiato. I pugni serrati non si volevano aprire nemmeno per scrivere. Sono andato lì in una sorta di empatia, per capire se era ancora possibile credere in una parola capace di aggredire la realtà. Ci ho riflettuto a lungo e mi sono convinto che la parola letteraria proprio perché svincolata da obiettivi, da sentenze di tribunale, può mostrare le budella del potere, può raggiungere un nucleo di significato molto semplice, che è poi quello dei tragici greci: verità e potere non coincidono mai[10].

L'intervistatrice, a questo punto, riconduce l'autore all'esito dell'episodio romanzesco: «È da lì, dalla tomba di Pasolini che hai iniziato ad articolare "Io so"». Risponde Saviano:

L' "Io so" del mio tempo: so e ho le prove. In questo libro non mi interessava mostrare un mondo altro di violenti e di crudeli diviso dal nostro, non mi interessava dare una lezione di morale. Ho voluto sussurrare all'orecchio del lettore "questo ti riguarda"[11].

Chiedersi se il «rito civile» di Casarsa venga dal dossier di «Nuovi Argomenti» o dal vissuto dell'autore, oppure se l'episodio reale stia a monte dell'articolo o del romanzo, non porta a conoscenze sostanziali. Quando i letterati e i teatranti prendono posizione nei riguardi del reale si trovano, infatti, nella condizione di dover coniugare l'autenticità dei dati con narrazioni la cui verità non dipende dalle corrispondenze con quanto è effettivamente accaduto, ma dal loro trasparire sul senso dei fatti reali. E cioè dalla loro capacità di mostrare, come suggerisce Celestini con efficace immagine, le ossa sotto la carne[12].

6-Il "dramma sociale" dei nostri anni

All'epoca di Pasolini, Sciascia, e dopo Pasolini, i narratori teatrali degli anni Novanta e, poi, gli scrittori che mescolano romanzo e inchiesta, fiction e non-fiction[13], come Lucarelli, Saviano, Genna, De Cataldo o Carlotto, hanno diversamente reagito al perdurare d'una Storia dove niente sembra risolversi e concludersi eppure tutto muta sotto la spinta di forze ostili all'organizzazione etica del reale. Le loro opere, pur non essendo «aperte», trattano infatti fratture non ricomposte, verità non appurate, contrapposizioni non appianate, traumi non risolti. In altri termini, i narratori compensano con comunicazioni di realtà e gesti di testimonianza l'accadere di «drammi sociali» incompiuti, spesso privi di protagonisti esplicitati e non suggellati da una conclusione.
La forma tipica del «dramma sociale», secondo la classica descrizione dell'antropologo Richard Turner, riproduce nella realtà le fasi della narrazione, presentando infrazioni delle regole, situazioni di crisi crescente, meccanismi di compensazione e reintegrazioni dei gruppi sociali turbati oppure esodi che sanciscono l'irrimediabilità della frattura[14]. Diversamente, il «dramma sociale» odierno si arena nell'infinito interagire fra la seconda e la terza fase, improntando dinamiche mnemoniche che non sedimentano all'interno della collettività cicli conclusi – modalità esemplificata dal crollo del muro di Berlino: "fine" del «secolo breve» – ma riflettono, in modo fazioso e partecipe oppure critico e dialettico, il riacutizzarsi di conflittualità permanenti che trasmettono continui impulsi a schierarsi, a scegliere contesti di appartenenza e fattori di riconoscimento.
La realtà, dunque, non produce oggi «drammi sociali» che strutturino la memoria della collettività. Piuttosto, manifesta con vicende sospese alle fasi del conflitto e della compensazione le faglie tettoniche su cui poggia (sconnessioni fra legalità e illegalità, ideologie laiciste e religiose, manifesto e occulto). Le differenti postazioni storiche dalle quali le hanno osservate, dapprima Pasolini, e poi, a partire dagli anni Novanta, gli esponenti della nuova narrativa italiana, fanno meglio comprendere l'attuale profilo di maestro e anticipatore dello scrittore/cineasta. Mentre Pasolini immagina il futuro a partire dalla sparizione delle culture popolari e dalla crisi di rappresentatività del sistema politico, i nuovi narratori si confrontano con una fase successiva e tipicamente italiana, che, nata dal dissolvimento dei vecchi partiti, si risolve anch'essa, a somiglianza della prima, in contraddittorietà permanenti e refrattarie alla sintesi.
Pasolini, indagando fra gli anni Cinquanta e Settanta i prodromi della fine, ha dunque individuato mentalità e strategie di potere, che, nel tempo, si sono ulteriormente affermate fino a costituire il mondo reale dei nuovi narratori e nostro. Le condizioni che hanno accompagnato la fine d'una fase storica coincidono con le potenzialità espansive di quella successiva.

7-L'esempio di "Ultimo volo"

In Italia, «paese delle mezze verità», si sente che qualcosa sta per finire mentre «non finisce mai niente»[15]. Sicché appare emblematico che il compositore Pippo Pollina concluda con un movimento in levare il trascinante bolero al termine del suo Ultimo volo. Orazione civile per Ustica. Le parole del testo (scritto dallo stesso Pollina), quanto più invocano la ricomposizione d'un atto di giustizia, tanto più dichiarano l'insolvenza narrativa dei fatti. La risoluzione della vicenda viene infatti delegata all'inevitabile morte.
Anche il narratore de Le mille e una notte conclude le storie riferendosi, con formula ricorrente, «a quella che distrugge l'edificio dei piaceri e disperde le riunioni». Per lui, però, evocarla significa toccare il limite d'ogni possibile continuazione d'una storia già conclusa con nozze, premi o punizioni. Per Pollina, invece, la morte dei responsabili non si situa al di là della storia, ma, in assenza di colpevoli riconosciuti e puniti, costituisce la sua sola possibilità di finire: E mi sembra di vederle le iene nella stanza dei bottoni con uniformi di cartapesta a decidere i vivi e i buoni travaccati in poltrone di pelle, che non si rischia niente son l'arroganza del potere e l'indifferenza di certa gente.
Eppure la storia va avanti non conosce padroni, anche a quelli che muovono i fili un giorno tremeranno le mani, perché esiste un passaggio comune, un comune destino che fa più vita la vita e non fa sconti per nessuno[16]
Il paradosso dell'età contemporanea è che, in essa, niente sembra esaurirsi e terminare al punto di poter risorgere (o «espatriare» come diceva Luckács) nelle forme tradizionali del romanzo, dove il lettore cerca appunto uomini in cui leggere il "senso della vita". E deve quindi, in un modo o nell'altro, essere certo in anticipo di assistere alla loro morte. Almeno in senso traslato: alla fine del romanzo. Ma meglio ancora se alla morte vera[17].
Le drammaturgie narrative hanno dunque appreso a dialogare con le dinamiche aperte della Storia e il continuo perdurare dei «drammi sociali», eleggendo la realtà quale contesto del proprio rapporto con il reale.

8-La narrazione e il reale

La rinascita del racconto, la rivalutazione della parola, la responsabilità del relatore nei riguardi delle cose significate e la conservazione del reale nell'opera composta [18], contrastano le derive d'una civiltà che ha smesso di raccontarsi, che ha cancellato gli spazi del confronto collettivo, che vede il prevalere delle immagini sui segni verbali, che coltiva comportamenti alienati e induce linguaggi autoreferenziali. Per questo, tanto in Pasolini, che nei narratori scenici e in Saviano, le dinamiche narrative coesistono con la loro messa in crisi, che viene evidenziata oppure trattenuta a seconda che prevalga l'assunzione delle dinamiche stesse del reale (irrisolte, frattali, sospese) oppure la loro compensazione rituale, per cui, come nel Vajont di Marco Paolini, la costruzione del racconto e i suoi effetti sullo spettatore risarciscono emozionalmente la mancata soluzione dei conflitti. È lo stesso sentire che presiede alla «trilogia della vita» di Pasolini (Decameron; I racconti di Canterbury; Il Fiore delle Mille e una notte). Mai i racconti scaturiti dalla dialettica fra il reale e l'identità del narratore sono così immediati e popolari, come quando celebrano – fra ricordo, festa ed elaborazione del lutto – l'assenza del mondo narrato. Dice Pasolini discutendo con Sergio Arecco:

nel "Decameron" che sto finendo il narrare è ontologico: si narra per il gusto di narrare o si rappresenta per il gusto di rappresentare. Cosa si narra o si rappresenta? Qualcosa che non c'è più: uomini, sentimenti, cose. Non c'è, dico, storicamente; esistenzialmente sopravvive (il popolo di Napoli)[19].

Il riferimento a uomini, sentimenti e cose che non ci sono più, in parte, richiama la condizione fondamentale del racconto, che «si autoproduce […] sulla soglia di quella fine che attira e genera la narrazione stessa»[20], in parte, segnala un'emergenza operativa senza precedenti nell'opera dell'autore. Pasolini, narratore di antropologie contrapposte come lo sono quella popolare e quella borghese, aveva infatti prevalentemente trattato tipologie umane presenti e vive. Negli anni Settanta, però, a seguito della massificazione culturale del decennio precedente, deve fare i conti con l'omologazione degli strati sociali, con gli effetti della televisione, con la sparizione delle diversità e la crisi dei linguaggi.
Per lui, trarre dal passato, non tanto miti da innestare dialetticamente alla comprensione del presente (come aveva fatto con Edipo o Medea), ma gli immediati precursori di quello stesso popolo che vedeva ormai limitarsi alla pura e semplice 'sopravvivenza' significava, sì, aderire all'ontologia del narrare, ma compiendo un atto ideologico implicito e tutt'altro che scontato. Nel suo programma d'intervento, la morte storica delle vite narrate, e cioè la loro appartenenza al passato, evidenziava infatti la frattura fra i «valori» alla base della nostra civiltà e la società uscita dalla «rivoluzione» tecnologica degli anni Sessanta. In sintesi, Pasolini attribuiva alla risoluzione filmica del passato il compito di «contestare» al presente:

Non ho scelto i personaggi del Decameron per caso ma per offrire esempi di realtà. Un personaggio del Decameron è esattamente il contrario di un personaggio che si vede nei programmi televisivi o nei cd. [cosiddetti] film consolatori. […] Adesso, preferisco muovermi nel passato proprio perché ritengo che l'unica forza contestatrice del presente sia proprio il passato: è una forma aberrante ma tutti i valori che sono stati i valori nei quali ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono mettere in crisi il presente. E allora amo questa ricostruzione del passato, di psicologie che, al presente, non sono più reali, perché i personaggi del Decameron esistono ancora, ma sono rari, sopravvissuti[21].

Vi sono narrazioni che rigenerano vicende accadute modellandosi sulle forme tipiche del «dramma sociale» i cui paradigmi esistenziali, dice Turner, infiltrano «gli atteggiamenti vitali irriducibili degli individui»[22]. Accanto a questa tipologia, vi sono però narrazioni che guardano in faccia la realtà e trattano accadimenti in atto e conflittualità irrisolte, coniugando la vitalità dei personaggi a un disegno ideologico che, come vediamo in Uccellacci e uccellini, muta l'opera, da oggetto di fruizioni solamente o principalmente edonistiche, in organismo dialettico.

9-La realtà e il nuovo teatro di narrazione

Si tratta d'una distinzione fertile di indicazioni. Applicata al 'teatro di narrazione' distingue gli spettacoli fondati su eventi trascorsi – come Kohlhaas (1990) di Marco Baliani, Il racconto del Vajont (1994) di Paolini e Radio Clandestina (2001) di Ascanio Celestini – da una zona più sperimentale e, nel complesso, recente che dissolve l'involucro narrativo preferendo interagire dal vivo con l'immaginario e le coordinate di realtà dello spettatore.
Con Corpo di stato (1998) Marco Baliani rinuncia al progetto di narrare il rapimento Moro in base agli atti processuali, e spiega sul filo dell'autobiografia le reazioni dell'estrema sinistra a quegli avvenimenti. Così, lo spettacolo, testimonia attraverso il narratore una cultura e una forma mentis oggi censurate e che, pure, continuano a indirizzare scelte ideali e orientamenti etici.
Miserabili. Io e Margareth Thatcher (2006) di Marco Paolini affronta nei modi di un work in progress ragionato ad alta voce le metamorfosi della società italiana a partire dagli anni Ottanta. Fra un intervento musicale e l'altro, vengono toccati macro-eventi (la liberalizzazione economica della Thatcher, quella reaganiana, il ritorno di Komeini in Iran) e micro-personaggi. Pasoliniana, la definizione che Paolini dà di questo lavoro: «Miserabili è anche uno spettacolo di pensiero».
Appunti per un film sulla lotta di classe (2006) nasce da interviste fatte da Ascanio Celestini ai lavoratori precari di un call center alla periferia di Roma, ma è anche ciò che dice il titolo: un insieme di appunti per una storia sulla lotta di classe oggi. Non c'è lieto fine, anzi, non c'è proprio una fine. Le lotte sindacali possono poco o nulla, e le richieste di miglioramenti vengono svuotate dal timore di perdere il posto di lavoro. Anche qui, come in Miserabili, gli interventi musicali strutturano la distribuzione dei segmenti narrativi, che può cambiare di sera in sera. A cantare, con voce penetrante e modulata dagli intenti, è lo stesso Celestini. Il primo pezzo tocca una problematica centrale della Storia e, transitivamente, della narrazione. I «disgraziati», quelli che hanno perso il lavoro, la casa oppure la ragione, si riuniscono e incominciano «ad aggirarsi/ come si aggirò quel famoso/ spettro per l'Europa». Il riferimento al celebre incipit del Manifesto di Carl Marx («Uno spettro si aggira per l'Europa») evidenza la differenza fra le masse proletarie dell'Ottocento e del Novecento e la folla dei «disgraziati», che, a differenza delle prime, sa di non avere obiettivi predestinati e di non rivestire alcun ruolo simbolico. Tant'è che proprio l'atto della rivoluzione, che struttura le rivolte in forma di «dramma sociale», affiora al suo interno come proposta insensata e raptus bizzoso, acida parodia del divenire della Storia attraverso una dialettica di tesi e antitesi incarnate da contrapposte classi sociali.
Ancora più radicale la scelta fatta da Pietro Floridia e Gianluigi Gherzi con La strada di Pacha (2009) dove non c'è nemmeno una narrazione, ma un repertorio di storie assimilate dal relatore scenico – Gianluigi Gherzi – a seguito di ore di colloqui con Pacha, straordinaria operatrice culturale di Managua. Queste costituiscono un orizzonte dell'immaginario, che Gherzi ripercorre e connette con improvvisati passaggi per rispondere alle domande e alle impressioni del pubblico. Sicché lo spettatore è destinatario, non già d'una narrazione su Pacha (e di cui Pacha sarebbe un contenuto), ma della memoria che il relatore ha della Pacha vera, che parla, si racconta, agisce e non è mai personaggio, ma vita riferita, e cioè realtà conservata all'interno dello spettacolo, che, rispettandone l'identità irrimediabilmente esterna alla scena, evita di narrarla o rappresentarla in forma drammatica.
Quando il reale si rivela liquido, soggetto a continue conflittualità e trasformazioni, la nozione di "realismo" cessa di implicare processi imitativi e naturalistiche tranches de vie, per indicare piuttosto una volontà d'intervento sul reale. Quello che viene ora praticato non è, quindi, un realismo di stile bensì di sostanza, che irretisce il presente in svolgimenti discorsivi che, da un lato, ne snidano gli archetipi, le forze e le presenze umane, e, dall'altro, gli contrappongono criteri informati dall'umanità del relatore.

10-Pasolini testimone del proprio tempo

Pasolini, nella storia del rapporto fra il mondo reale e gli artefici di realtà altre, costituisce un modello importante poiché aggancia alle trasformazioni della realtà la funzione testimoniale dell'autore, che, attraverso le opere e gli interventi pubblici, rilancia nel sociale il contraddittorio conflitto fra la propria identità e l'esistente:

Io (nel mio corpo mortale) vivo i problemi della storia ambiguamente. La storia è la storia della lotta di classe: ma mentre io vivo la lotta contro la borghesia (contro me stesso) nel tempo stesso sono consumato dalla borghesia, ed è la borghesia che mi offre i modi e i mezzi della produzione. Questa contraddizione è insanabile: non ammette di essere vissuta altrimenti che come è vissuta. Cioè ambiguamente: e questo produce un elemento di mistero (che si vorrebbe e non si vorrebbe spiegare)[23].

In questa prospettiva, la realtà non ricorre all'interno delle opere solo perché imitata, conservata e trasmessa, ma perché somatizzata da chi ne parla o scrive, e resa, quindi, persona. Il che equipara l'atto di scrivere a quello di narrare dal vivo. Entrambi, infatti, procedono dal corpo dell'autore/emittente risolvendosi, all'altro capo del processo, in percezioni di presenze traboccanti senso.
I riferimenti di Saviano alle crisi di asma, alla rabbia, alle unghie conficcate nella carne non sono pennellate descrittive, ma riguardano la condizione primaria della sua scrittura, che rilancia l'introiezione dei mali umani e sociali con atti comunicativi e di testimonianza. Sullo sfondo di questa affinità elettiva con Pasolini: il viaggio a Casarsa, la ricerca della tomba, il ripetere io so, il passaggio del testimone. Ciò che Salviano raccoglie da Pasolini non è una tecnica artistica, ma la possibilità di riscattarsi dall'inferno che ha scelto di conoscere, facendolo conoscere.
La capacità di comunicare le trasformazioni dell'uomo e della Storia attraverso l'esperienza che se ne è acquisita, e quella di coniugare lo svolgimento discorsivo al corpo del relatore suscitandovi contenuti altrimenti indicibili, trattengono Pier Paolo Pasolini fra i contemporanei, facendone un maestro postumo dei rapporti fra il mondo e l'io.
Stefano Agosti, in un importante approfondimento critico, osserva come il Pasolini poeta rifiuti di dare per inconoscibile il mondo al di là del linguaggio, ma lo cali nel dire, tendendo il discorso fino a fargli superare, in un tragico ritorno alla creaturalità delle cose, i limiti del commento, dell'esercizio logico, dell'astrazione verbale:

se la poesia novecentesca appare tesa allo sforzo di trasformare il "discorso" in "linguaggio", puntando al raggiungimento di una posizione pre-discorsiva, […] nel caso di Pasolini siamo invece di fronte a un'intenzione e un'operazione esattamente inverse. […] Pasolini dà il via a un esperimento che porta tutta la situazione espressiva oltre il discorso, dopo il discorso […]; nel [suo] caso, […] l'operatore, mantenendo intatta l'istanza del discorso ma sovradeterminandola criticamente, sembra accennare alla possibilità di una sua dimensione postuma […][24].

Per comprendere la funzionalità retorica e il potere attrattivo del discorso pasoliniano, conviene considerare che la sua dialettica fra segno e referente non sviluppa forme esclusivamente letterarie, ma anche orali e visive. Il discorrere di Pasolini sull'introiezione del mondo nel vivere del relatore si è storicamente svolto in versi, in forma di racconto, in dialoghi con i lettori, in trattazioni teoriche e manifesti, in articoli, in drammi, in sceneggiature, in film.
In ogni articolazione della sua opera, Pasolini esercita la possibilità di conoscere e di conoscersi, che però affronta, di volta in volta, con obiettivi e strumentazioni corrispondenti al medium utilizzato.

11-La presenza dell'autore nel teatro di narrazione

La poesia e il «teatro di Parola» restituiscono la presenza dell'autore, che, declinando verbalmente le tensioni fra il corpo e l'esistere, espone allo sguardo mentale del lettore un flusso monologante, che, da un lato, prevede dizioni straniate che lo concilino all'ipotesi di emittenti altre (i personaggi e gli attori), mentre, dall'altro, apre impressionanti finestre sulla corporeità pulsante di vita psichica da cui procede.
Il romanzo e il cinema mutuano invece dall'originaria passione per la pittura (Pasolini, non avesse smarrita la tesi, si sarebbe laureato con Roberto Longhi) il fondamentale principio della rappresentatività dell'arte, per cui l'identità dell'autore, pur affiorando continuamente, media le realtà riflesse dal suo sguardo: soggettivo nella misura in cui declina e ricompone l'oggettività delle cose. Il cinema, per Pasolini, è l'arte di «esprimere la realtà con la realtà»[25]. Concezione che anticipa il più tardo innesto di attori sociali o attori non ancora attori alle dinamiche dell'innovazione teatrale, avvicinando i film di Pasolini con attori sottoproletari[26] ai teatri di Armando Punzo, Pippo Delbono e Marco Martinelli.
Gli scritti teorici, liberamente sistematici, indagano i criteri e le strumentazioni logico/formali che conservano le qualità del reale nelle sue trasposizioni in opera, consentendo all'autore di comporre – sulla pagina – una realtà di segni, e – sullo schermo – una realtà di realtà che, pur formalizzate, restano continuamente leggibili e presenti come stratificazioni geologiche in un terreno esploso.
Il discorso pasoliniano prosegue anche in assenza di scrittura e voce, perché sorretto dalla coscienza che i segni sono molteplici e tutto è segno:

In realtà non c'è "significato": perché anche il significato è un segno. […] Sì, questa quercia che ho davanti a me, non è il significato del segno scritto-parlato "quercia": no, questa quercia fisica qui davanti ai miei sensi, è essa stessa un segno: non certo scritto-parlato ma iconico-vivente o come altro si voglia definirlo.

Sicché in sostanza i "segni" delle lingue verbali non fanno altro che tradurre i "segni" delle lingue non verbali […]. La sede dove questa traduzione si svolge è l'interiorità.
Attraverso la traduzione del segno scritto-parlato, il segno non verbale, ossia l'Oggetto della Realtà, si ripresenta, evocato nella sua fisica, nell'immaginazione.
Il non verbale dunque, altro non è che un'altra verbalità: quella del Linguaggio della Realtà.
Che io usi la scrittura o che io usi il cinema altro non faccio che evocare nella sua fisicità, traducendola, la Lingua della Realtà[27].
Pasolini, dunque, 'parla' il reale traducendone la lingua. Sistema che consegna all'attenzione dei teatranti svolgimenti disposti a tradursi in insegnamenti intorno alle esigenze essenziali del teatrale, che, come fa l'opera pasoliniana nel complesso, coniuga presenza, realtà e linguaggio.
Per questo, in prospettiva, è consigliabile ricostruire l'influenza di Pasolini sui teatranti, non solo analizzando le rappresentazioni delle opere drammatiche come ha splendidamente fatto Stefano Casi[28], ma anche seguendo le traiettorie delle differenti articolazioni della sua opera: i pensieri, le narrazioni filmiche e il Manifesto per un nuovo teatro che Baliani suole citare riconoscendo nel brano che qui segue «una bella anticipazione del teatro di narrazione»[29]:

Venite ad assistere alle rappresentazioni del «teatro di parola» con l'idea più di ascoltare che di vedere (restrizione necessaria per comprendere meglio le parole che sentirete, e quindi le idee, che sono i reali personaggi di questo teatro)[30].

Note:
 

[1] Wu Ming 1, recensione di Gomorra apparsa in «Nandropausa», n. 10, 21 giugno 2006, anche in Wu Ming, New italian epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino, Einaudi, 2009, pp. 29-30. Col titolo Wu Ming 1 su Gomorra nel sito http://robertosaviano.it/documenti/8889/125/0
[2] Roberto Saviano, Gomorra. Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Milano, Mondadori, 2008, 1a ed. 2006, p. 232.
[3] Ibidem.
[4] Pier Paolo Pasolini, Che cos'è questo golpe, «Corriere della Sera», 14 novembre 1974, col titolo Il romanzo delle stragi in Id., Tutte le opere. Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti, Milano, Mondadori, 1999, p. 362.
[5] Ivi, p. 233.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 234.
[8] Roberto Saviano, Io so e ho le prove, «Nuovi Argomenti», novembre-dicembre 2005, anche nel sito http://www.pasolini.net/saggistica_trulli_inedito.htm
[9] Ivi.
[10] Maria Vittoria Messori, Saviano: «io, nel segno di Pasolini», «Il mattino», 2 luglio 2006, anche nel sito http://www.pasolini.net/narrativa_robertosaviano.htm
[11] Ivi.
[12] «Non fotografo l'avvenimento, ma cerco di attraversarlo per cercare quello che gli strumenti che possiedo mi permettono di trovare. È un procedimento più simile alla radiografia che alla fotografia». (Ascanio Celestini, L'estinzione del ginocchio. Storie di tre operai e di un attore che li va a registrare, in Gerardo Guccini, a cura di, La bottega dei narratori. Storie, laboratori, metodi di Marco Baliani, Ascanio Celestini, Laura Curino, Marco Paolini, Gabriele Vacis, Roma, Dino Audino, 2005, p. 186).
[13] Per Wu Ming 1 la «sintesti di fiction e non-fiction» descrive «un modo di procedere […] "distintamente italiano", e che genera "oggetti narrativi non identificati"». (New Italian Epic cit., p. 109).
[14] Cfr. Richard Turner, Dal rito al teatro, Bologna, il Mulino, 1999, p. 131 (ed. orig. From ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play, New York, Performing Arts Journal Publications, 1982).
[15] È il lamento dell'arciprete Antonio Lepanto nell'ultimo capitolo del Candido (1977) di Leonardo Sciascia.
[16] Pippo Pollina, Ultimo volo. Orazione civile per Ustica, in Cristina Valenti (a cura di), Ustica e le arti. Percorsi tra impegno, creatività e memoria, Corazzano (Pisa), Titivillus, 2007, p. 125.
[17] Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull'opera di Nicola Leskov, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1995, p. 265 (titolo orig. Schriften, Suhrkamp Verlag, 1955).
[18] Pasolini, anche perciò maestro, diceva: «la caratteristica principale dei film che io faccio è quella di far passare dinanzi allo schermo qualcosa di "reale"» (Ideologia e poetica, «Filmcritica», n. 232, marzo 1973, ora in Pier Paolo Pasolini, Tutte le opere. Per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, II, Milano, Mondadori, 2001, p. 2994).
[19] Pier Paolo Pasolini, Ancora il linguaggio della realtà (a cura di Sergio Arecco, «Filmcritica», n. 214, marzo 1971), in Valerio Magrelli (a cura di), Con Pier Paolo Pasolini, «Quaderni di filmcritica», Roma, Bulzoni, 1977, p. 100.
[20] Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti: filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1997.
[21] Pier Paolo Pasolini, Ideologia e poetica cit., p. 2995.
[22] Cfr. Richard Turner, op. cit., p. 135.
[23] Pier Paolo Pasolini, Ancora il linguaggio della realtà cit., p. 91.
[24] Stefano Agosti, La parola fuori di sé, in Cinque analisi, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 154.
[25] Pier Paolo Pasolini, Razionalità e metafora (a cura di Paolo Castaldini, «Filmcritica», n. 174, gennaio-febbraio 1967), ora in Id., Tutte le opere. Per il cinema cit., II, p. 2914.
[26] «Mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); perché è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura (mentre quella del borghese è volgare), perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita) […]». (Pier Paolo Pasolini, Questo è il mio testamento, «Gente», 17 novembre 1975, ora col titolo Quasi un testamento in Id., Tutte le opere. Saggi sulla politica e sulla società cit., p. 868) Alla creaturalità degli attori sottoproletari di Pasolini, scelti per essere se stessi, corrispondono alcuni significativi sviluppi del teatro degli anni Novanta, «torna[to] a confrontarsi col mondo, non più riflettendolo, come avveniva nel sistema mimetico, ma assumendone direttamente le realtà». (Gerardo Guccini, Presentazione di Verso un teatro degli esseri. Documenti e voci dall'incontro di Lerici – 2 luglio 2000, «Prove di Drammaturgia», n. 1/2001, p. 24)
[27] Pier Paolo Pasolini, Ancora il linguaggio della realtà cit., p. 97, una limitata sezione dell'articolo, contenente il brano qui riportato, è stata edita col titolo Il non verbale come altra verbalità in Pier Paolo Pasolini, Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, II, Milano, Mondadori, 1999, p. 1594.
[28] Cfr. Stefano Casi, I teatri di Pasolini. Introduzione di Luca Ronconi, Milano, Ubulibri, 2005, e in particolare il cap. Pasolini in scena, pp. 284-305, e, per un esaustivo repertorio di dati, la Teatrografia, pp. 207-218.
[29] Marco Baliani, Esperienza – tempo – verità: un seminario sulla narrazione (CIMES, Bologna, febbraio 2000), in Gerardo Guccini (a cura di), La bottega dei narratori cit., p. 63.
[30] Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro (1968), in Id., Teatro, Milano, Garzanti, 1992, p. 711, ora in Id., Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull'arte cit., II, p. 2484.

Fonte:
http://www.griseldaonline.it/temi/verita-e-immaginazione/pasolini-teatri-di-narrazione-saviano-guccini.html

http://www.iltuoforum.net/forum/il-libro-ritrovato-f44/pier-paolo-pasolini-1922-1975-t2801.html


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L'alterità come replica dell'identità. La Divina Mimesis di Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





L'alterità come replica dell'identità. La Divina Mimesis
di
Pier Paolo Pasolini
Neil Novello


È chiaro fino dal principio degli anni '60 che tra le terzine dantesche di Progetto di opere future, sezione penultima di Poesia in forma di rosa (1964), annunciando una «buriana» sull'Inferno, Pier Paolo Pasolini pensa alla prima cantica di Dante come a un archetipo per la riscrittura in prosa. È inscrive nel «progetto» il termine dell'alterità. Letterario, a leggere nel disegno la forma attualizzata di un libro parallelo, e non finito, dell'Inferno. Autobiografico, a pensare di inscriversi nel testo in forma di doppio personaggio. Storiografico, perseguendo l'alterità nella figura dell'analogia ravvisata tra il Medioevo e il neocapitalismo, quest'ultimo interpretato quale replica revisionata del tempo dantesco. Pertanto il Medioevo di Dante reagisce con lo sfondo storico del testo rigenerandosi in catastrofe epocale. O meglio, l'alterità storica funziona nella Divina Mimesis come un vero e proprio rovesciamento: il neocapitalismo è un Medioevo moderno o nuovo Medioevo.
Nello stile della collazione storiografica, a cercare l'esempio, un'indicazione ideale potrebbe trovarsi nelle «civiltà a paragone» descritte da Arnold J. Toynbee, sebbene le pasolianiane appaiano mediate dall'esperienza letteraria.

A una prefazione al veleno («do alle stampe oggi queste pagine come un 'documento', ma anche per fare dispetto ai miei 'nemici': infatti, offrendo loro una ragione di più per disprezzarmi, offro loro una ragione di più per andare all'Inferno») seguono un Canto I e un II, appunti e frammenti per la scrittura di un Canto III, appunti e frammenti per un IV diviso in otto brevi paragrafi, quindi appunti e frammenti per un Canto VII diviso in cinque paragrafi, e infine, quasi in funzione di appendice critica paratestuale, una Nota N. 1, una Nota N. 2, e una finale Nota dell'Editore.

Prima dell'Iconografia ingiallita, composta da un repertorio di venticinque fotografie da leggersi alla maniera di un «poema fotografico» seguite da un «Piccolo allegato stravagante», «excerptum» critico sull'antologia Letteratura italiana: Otto-Novecento di Gianfranco Contini, c'è un altro frammento di appunti per il Canto VIII.

Al «poema fotografico» è da attribuire un'altra variante dell'alterità: è termine d'analisi nella dialettica ermeneutica tra il testo scritto e il testo per immagini, e configura «l'altro modo» di leggere la prosa. A partire dalle immagini, e tornando verso il testo scritto, secondo una dialettica di lettura incrociata. Pasolini-Virgilio a Pasolini-Dante: «Guarda le loro fotografie ormai ingiallite». E rinvia a un «gruppo di partigiani» in cammino per una via di montagna, a simbolo degli anni della Resistenza.

Il doppio Pasolini-Dante e Pasolini-Virgilio sembra non sottomettersi al senso letterale del principio d'alterità. O meglio, la «dissociazione dell'io» appare da subito quale esito di uno scorporo formale, cosicché il momento dialogico del «parlato» identifica più che un dialogo reale tra «diversità», la soluzione rappresentativa di un monologo tenuto dinanzi allo specchio. È una «fictio», questa fondata sulla mistificazione dell'elemento dialogico precedente quella costruita sulla postumità dell'opera. Pasolini-editore finge d'ereditare la Divina Mimesis: rispettando l'autore, limita il suo compito alla cura di una edizione diplomatica. Si vedrà, avanti nella lettura, un altro e diverso esempio di mistificazione dell'alterità.

Dinanzi a Pasolini-Virgilio, Pasolini-Dante parla di sé a sé: e parla degli anni '40 friulani (il paradiso), degli anni '50 e la morte delle ideologie (il purgatorio), degli anni '60 e del neocapitalismo (l'inferno). Nondimeno, e in coincidenza con il Canto I, di qua dello sdoppiamento del personaggio autoriale inscritto nel testo, il narratore autobiografico incontra la Lonza, il Leone e la Lupa. O meglio, s'incontra in triplice forma felina, e tratteggia l'autoritratto nell'immagine delle fiere infernali. La Lonza: «eccola lì, uscita dai ripostigli comuni della mia anima (che accanitamente continuava a pensare, per difendersi, per sopravvivere - per tornare indietro!), eccola lì, la bestia agile e senza scrupoli […]. Così, la 'Lonza' (in cui non ebbi, subito, difficoltà a riconoscermi)». Il Leone: «Dal suo essere sonno e ferocia, egoismo e fame rabbiosa, il 'Leone' traeva un'ispirazione a vivere che lo distingueva, con violenza addirittura brutale, dal mondo esterno. Che lo ospitava quasi tremando. L'idea di sé non ha ragione: e quando si esprime distrugge la realtà, perché la divora. […] Sia pure parzialmente, anche in quel 'Leone', come in uno sproporzionato segno premonitore, io mi riconobbi». La Lupa: «Ma dovevo riconoscermi ancora in qualcosa di ben peggio. […] venne fuori una 'Lupa', che si affiancò alle altre due bestie. I suoi connotati erano sfigurati da una mistica magrezza, la bocca assottigliata dai baci e dalle opere impure, lo zigomo e la mascella allontanati tra loro; lo zigomo in alto, contro l'occhio, la mascella in basso, sulla pelle inaridita del collo».

Una terna di duplicazioni per tre forme d'alterità: dell'anima (la Lonza), dell'azione (il Leone), del corpo (la Lupa). E tre forme di proiezione e di riflesso: della Lonza, l'anima si rappresenta nell'«altezza morale» e nell'«onestà intellettuale»; del Leone, l'azione è «ispirazione a vivere» e a «saper divorare»; della Lupa, il corpo s'identifica nella «bocca assottigliata dai baci», nello «zigomo e la mascella allontanati tra loro».

All'incontro dell'alterità felina, Pasolini-Dante disegna un autoritratto mimetico: dalla natura della propria anima, alle strategie dello stare al mondo, fino alla descrizione mimetica del proprio corpo

Di fronte alle fiere è al cospetto di sé: nel riconoscersi, al contempo, quale triplice proiezione, Pasolini-Dante afferma il valore «naturale» dell'identità, attribuendo alle proiezioni qualcosa in cui rivedersi e qualcosa da cui fuggire. D'altra parte è transizione necessaria: il doppio autentico, la figura in cui realmente potrà riconoscersi è alle sue spalle, non davanti ai suoi occhi: non è il futuro (in cui non si riconosce), è il passato. E dal passato, nella forma dell'apparizione vissuta come salvezza, ecco Pasolini-Virgilio, personaggio-altro-e-uguale-a-sé farglisi dinanzi: «Sono settentrionale: in Friuli è nata mia madre, in Romagna mio padre; vissi a lungo a Bologna, e in altre città e paesi della pianura padana - come è scritto nel risvolto di quei libri degli Anni Cinquanta, che ingialliscono con me…». Dopo l'autoritratto, ecco scritta l'autobiografia per interposto personaggio-altro-e-uguale-a-sé. Alterità felina come autoritratto allo specchio, autobiografia come risarcimento dell'autoritratto: dalla ricostruzione dell'identità generale (Lonza, Leone, Lupa) alla ricostruzione dell'identità intellettuale (Virgilio).

Alterità come transizione dall'autoritratto all'autobiografia: con l'attacco della Divina Mimesis, Pasolini sembra adeguare un tale transito trascorrendo dall'elemento felino a quello umano-poetico. Che se implica un'indiretta considerazione nel passaggio dallo stadio animale alla natura umana, associa all'operazione il termine del darwinismo per non dire del niccianesimo. Alterità di Pasolini-Virgilio come termine d'evoluzione. E così identifica nella terna bestiale una specie di stadio complessivo dell'Es (e del Vizio), e nell'elemento poetico (Pasolini-Virgilio) l'incontro definitivo con l'Ego (e con la Virtù).

Una dissociazione tuttavia apparente.

Pasolini-Virgilio appare a Pasolini-Dante, e porta la salvezza, confermando una sua esistenza aprioristica nel mondo. È il padre sempre vissuto, non già l'esito di una scissione alla maniera di Petrolio. Nel romanzo Carlo di Polis assiste alla nascita di Carlo di Tetis dalle viscere del proprio corpo. Nasce un figlio (corpo da corpo) ma vive come fratello (corpo gemello), in quanto «concreta rappresentazione», reale porzione di sé raddoppiata.

La Divina Mimesis adatta il tema del doppio alla variante dell'alterità: in essa, la differenza tra le parti è forma possibile di analogia. Ed è analogia.

Prima che tale figura giunga a consistere nel riconoscimento dell'altro come simile, Pasolini-Dante sconta il debito dell'acquisizione. La fuga dall'alterità felina è l'inconscia rivelazione della parte immorale di sé, la raffigurazione del Vizio identifica invece l'immagine impaurita dell'autore che torna indietro sui propri passi. E riconosce la causa dell'ostruzione simbolica nell'immoralità (simbolica) delle fiere, di sé. Nel retrocedere, fuggendo dalla «Lonza», cerca già una via morale di salvezza. E trova un altro sé pronto ad accoglierlo: un altro che fa unità al maggiore grado, non già di potenza, ma di umiliazione:

«Ah, […] hai ragione, sono un'ombra, una sopravvivenza… Sto ingiallendo pian piano negli Anni Cinquanta del mondo, o, per meglio dire, d'Italia…».

È nel riconoscersi (Pasolini-Dante al cospetto di Pasolini-Virgilio), attraverso il primato della poesia, Pasolini-Dante crea le condizioni di partenza per l'esistenza di nuove forme d'alterità.

Le proiezioni fittizie in Gramsci, Rimbaud e Charlot, e poi in Thomas, sembrano ascriversi ai temi dell'elogio e dell'ironia. Ma anzitutto, Gramsci, Rimbaud, Charlot e Thomas sono ipotesi d'alterità: alterità immaginate come possibili, eventuali forme della propria forma, estranee, e solo spettri in potenza riguardo alla figura di Virgilio.

Pasolini-Charlot. Nel tono canzonatorio, accogliendo la forma della messa in parodia di se stesso mediante la postulata proiezione nel celebre autore di Luci della città , Pasolini-Dante identifica l'alternativa «extravagante», il nucleo di una drammatizzazione come momento dell'autoparodia. D'altra parte, la venatura tragica della Divina Mimesis (nella voce di Pasolini-Dante) è innervata all'elemento ironico e autoironico (nella voce di Pasolini-Virgilio). E coesistono sotto forma di mutua interrelazione: l'estensione a regola esemplare dell'ironia di Pasolini-Virgilio è Pasolini-Charlot.

Eppure, tale solitaria variabile è visibilmente sostenuta da un dittico, quello costituito dalla coppia Gramsci-Rimbaud, l'intellettuale marxista e il poeta «maudit» della Saison, che con immagine felice rappresentano non solo i modelli, ma anche i termini di un riconoscimento proiettivo d'ordine affettivo.

D'altro canto, l'intento autoparodico di Pasolini-Charlot è dissimulazione della logica oppositiva con cui sono accostati l'intellettuale e il poeta all'autore e attore di cinema. Nel genere scherzoso del «poteva essere», l'alterità di un Pasolini-Charlot controbilancia la più concreta e reale eventualità di un Pasolini-Gramsci e di un Pasolini-Rimbaud. Il primo è versione puramente «apollinea», i secondi, «dionisiaci» simboli dell'«essor» intellettuale.

Nelle iniziali fasi del cammino in compagnia di Pasolini-Virgilio, Pasolini-Dante, di là della stupenda ed elettiva rievocazione del decennio casarsese (gli anni '40), subisce l'afflizione della nostalgia. Specie quando anche il divario tra l'essere e il mondo, anziché sublimarsi nel modello aureo della «unio mystica» si acuisce in una distanza incolmabile. Al confronto delle rispettive parti, l'Eden friulano, o della «unio mystica», si scontra con l'era neocapitalista, termine di una rivelazione dolorosa. Qual è infine l'esperienza di colui che soffre l'alterità propria e del mondo come l'esperienza percettiva di un «non-luogo», come topica dell'altrove: «Solo io, segnato da un confine: sproporzione, incredibile, tra questo piccolo me e tutto il resto del mondo, così grande, inesauribile anche nella nostalgia!».

Nella filigrana dello sfondo storico, in quanto momento di un percorso lineare e cronologico condotto a partire dal paradiso friulano per giungere all'inferno neocapitalista, Pasolini compie una revisione di struttura. Interpreta il calco della Commedia dantesca, non già per riscrittura «mimetica» (dei canti, non della struttura), ma in quanto rovesciamento dell'ordine strutturale. Non più dall'inferno al paradiso ma dal paradiso all'inferno. In questo, il disegno della Divina Mimesis non è l'esito di una duplicazione (forma di doppio letterario di matrice strutturale), quanto il suo rovesciamento (quindi, momento di creazione di un'alterità).

Nondimeno, l'elemento autobiografico è lettura dello stato del mondo e lettura retrospettiva del mondo perduto. Un mondo vissuto tuttavia sul filo di un proustismo cercato ma irrecuperabile. A confronto, i decenni Quaranta e Sessanta rovesciano storicamente il destino della poesia: l'età del «mythos» friulano (o l'esistenza della poesia) contro l'età del «logos» neocapitalistico (o della morte della poesia).

Alterità della forma poetica come nuova e definitiva forma della poesia, come esito degenerativo della lingua. Altra alterità correlata: dalla lingua dell'espressione alla lingua della comunicazione come dalla poesia alla morte della poesia (Nella NOTA N. 2, a proposito della lingua nella poesia contemporanea, può leggersi la «prevalenza della comunicatività sull'espressività»).

A voler riassumere, c'è un autore reale, c'è un autore implicito sdoppiato nell'alterità, e c'è infine un autore in forma di editore che pubblica le carte avute in dono dall'autore reale. In questo, l'alterità è triplice, a partire dalla natura polisensa dell'autore: reale, implicito e editore postumo di se stesso. Pasolini l'annuncia nella menzionata «fictio» della «Nota dell'editore», quando confessa - in prima persona - che «io mi limito a pubblicare tutto quello che l'autore ha lasciato. Il mio unico sforzo critico, molto modesto, d'altra parte, è quello di ricostruire il seguito cronologico, il più possibile esatto, di questi appunti». È La Divina Mimesis postuma pensata come edizione diplomatica.

La strategia finzionale consiste nell'inventare un'alterità dell'autore in forma di editore di natura non-altra: a raccogliere le carte dell'autore è l'autore travestito da editore. L'altro è lo stesso. L'alterità riveste il valore della ripetizione. E più, alterità di natura macabra. L'autore travestito da editore raccoglie le carte dell'autore «morto, ucciso a colpi di bastone, a Palermo, l'anno scorso».

E cioè: nella «fictio» mistificante, l'autore reale (Pasolini) scrive di un editore travestito (Pasolini bis), il quale eredita «il corpo dattiloscritto dell'opera» dall'autore defunto (Pasolini ter), limitandosi a pubblicare secondo un ordine cronologico falsamente considerato l'unico intervento di mano estranea. In realtà è esigenza dell'autore in carne e ossa, filtrata dall'ordinamento stesso voluto dall'editore incaricato della pubblicazione.

Un libro, questa Divina Mimesis, concepito come un «misto di cose fatte e di cose da farsi», alla maniera delle pagine più programmatiche di Alì dagli occhi azzurri, racconti in parte «da farsi» e racconti in parte «non fatti». (Alterità della forma letteraria: non finito e estetica postmoderna). E l'editore che eredita il «pacchetto di fogli di carta da macchina da scrivere» per la pubblicazione informa sullo stato generale del documento, notando che accanto a un libro doppiamente intitolato «MEMORIE BARBARICHE» e «FRAMMENTI INFERNALI», e altri titoli sparsi nel corpo del fascio di fogli, compare un terzo titolo sulla penultima pagina, quasi che l'autore abbia concepito la scrittura di un capitolo rimasto tra le cose «da farsi». Il titolo impresso sulla pagina bianca è «PARADISO».

Rimane un mistero sapere se l'altra parte della Divina Mimesis (quella non scritta nella finzione), dovesse realmente continuare in un paradiso (un neo-paradiso rispetto agli anni '40 friulani?). E mistero rimane sapere inoltre se tale stagione assumesse già la forma dell'alterità ultima assoluta: la ricerca di una nuova (e possibile) bellezza nell'utopia.

Fonte:
http://www.griseldaonline.it/temi/l-altro/la-divina-mimesis-pier-paolo-pasolini-novello.html


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“Salò” di Pier Paolo Pasolini, una provocazione sempre attuale.

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“Salò” di Pier Paolo Pasolini, una provocazione sempre attuale.




[Una settimana fa, ho partecipato all'iniziativa "Si parla tanto di poesia - 3° edizione" presso la Libreria Coop. L'incontro, organizzato da Marco Formaioni, si è diviso in due parti: la prima verteva sulla poesia di Giorgio Caproni (a cura del professor Davide Puccini), la seconda, indegnamente curata dalla sottoscritta, sulla poetica di "Salò" di Pier Paolo Pasolini. Questo, per chi interessa, è il testo del mio intervento su Pasolini]


Che cosa ci disturba, davvero, in un film così estremo come “Salò”? Avanzo un’ipotesi: quello che ci infastidisce e ci disgusta non è tanto la rappresentazione esplicita della perversione, ma il fatto che sia stato un “intellettuale”, qualunque cosa questa definizione voglia dire per noi (e abbia voluto dire per Pasolini: non è detto che i due significati coincidano), ad assumerla e a recuperarla come metafora dell’oggi nel recinto della cultura: e con questo gesto violando appunto la scontata (e impotente) sacralità assegnata alla cultura dal perbenismo indifferente del senso comune.
La rappresentazione esplicita della perversione non può scandalizzarci in sé, se non altro perché oggi, rispetto al 1975, i media ci hanno assuefatto alla “normalità” della trasgressione, disinnescandone al tempo stesso la carica eversiva e riportandola, come del resto Pasolini aveva previsto, nell’ambito rassicurante della omologazione consumistica: penso ad esempio al servizio trasmesso qualche giorno fa dalle Iene a proposito dell’industria del porno e dei suoi protagonisti made in USA, una serie di immagini abbastanza esplicite (con dichiarate propensioni sadomaso) che nella loro pretesa documentaristica rimandano ad originali (facilmente reperibili in Rete) ovviamente assai più hard; penso al documentario della Zanardo “Il Corpo delle Donne” che ci sbatte in faccia la consolidata abitudine e indifferenza dello spettatore medio di fronte alla rappresentazione degradata e disumanizzata del corpo femminile, asservito ad una concezione piattamente consumistica della sessualità, sottratta al regno della vita per essere consegnato al suo mortifero destino di merce fra altre merci; penso a film apparentemente “estremi”, di denuncia o impegno, tipo Shame o Cosmopolis, che tuttavia non si sottraggono ai meccanismi abituali dell’industria culturale che da un lato vuole, come dire, épater le bourgeois, dall’altro, ovviamente, ne solletica le voglie e la malizia tipicamente piccolo borghese. con l’alibi dell’operazione “culturale”; penso alla miniserie televisiva Black Mirror, che nel primo episodio narra la pubblica umiliazione del primo ministro inglese, costretto da un misterioso ricattatore a fottere un maiale in diretta televisiva davanti a milioni di persone, e che da questa umiliazione estrema ricava alla fine un maggior grado di consenso (e quindi di Potere) sebbene perda se stesso; penso alle grottesche esternazioni del nostro italico Nerone, ai resoconti boccacceschi delle ormai famose “cene eleganti” in quel di Arcore che sembrano mimare in chiave minore e parodistica (una specie di parodia della parodia) le pratiche sadomasochistiche cupamente funeree dei quattro protagonisti di Salò.

Com’è noto, Salò si propone come una riflessione sull’oscenità naturalmente insita nei meccanismi di potere e di dominio. L’idea che il potere sia intrinsecamente cattivo ha cominciato a diffondersi parallelamente alla democratizzazione (apparente) dello spazio pubblico. Scrive Carl Schmitt a questo proposito: “Credo che nell’ultimo secolo l’essenza del poter umano ci si sia svelata in modo del tutto particolare. E’ strano infatti che la tesi del potere cattivo abbia iniziato a diffondersi proprio a partire dal XIX secolo. Noi eravamo giunti alla conclusione che il problema del potere sarebbe risolto, o comunque appianato, in virtù del fatto che esso non deriva né da Dio né dalla natura, bensì è qualcosa che gli uomini stabiliscono tra di loro? Di che cosa mai dovrebbe avere ancora paura l’uomo, se Dio è morto e il lupo non spaventa più nemmeno un bambino? Eppure, esattamente a partire dall’epoca in cui sembra compiersi questa umanizzazione del potere – cioè dalla Rivoluzione Francese – si diffonde irresistibilmente l’idea che il potere sia in sé cattivo. Il detto “Dio è morto” e l’altro “Il potere è in sé cattivo” nascono nel medesimo tempo e dalla medesima situazione. E in fondo significano la stessa cosa”. Ovvero nel momento in cui il potere tenta di giustificarsi non più come fenomeno naturale o forma di investitura divina, ma attraverso il consenso intersoggettivo che lo produrrebbe (anche se, al tempo stesso, in quanto potere, ha la capacità di generare il consenso che lo mantiene, in un circolo vizioso che non sembra facile interrompere), agli occhi di molti mostra la sua faccia demoniaca e l’arbitrarietà delle sue pretese.
Con la medesima tempistica storica, non a caso, muta la percezione della crudeltà. Il nostro sguardo occidentale, ad esempio, non sarebbe più disposto a sostenere lo spettacolo reale di un supplizio estremo come l’esecuzione di Damiens, avvenuta il 28 marzo 1757 in Place de la Grève a Parigi. Ne parla diffusamente Alessandro Dal Lago nel suo recente “Carnefici e Spettatori”, riportando fra l’altro la descrizione raccapricciante presente in un famoso testo teatrale di Peter Weiss.
Torace braccia e cosce gli furono squarciati, nelle ferite gli fu versato piombo fuso, lo cosparsero di olio bollente pece infuocata cera e zolfo, la mano gli fu bruciata via, alle sue membra legarono funi, quattro cavalli attaccati e frustati per un’ora non usi al nuovo compito, e non lo spaccarono, fino a che lo segarono alle spalle e ai fianchi, così perdette il primo braccio e poi il secondo. Lui stava a vedere quello che gli facevano e poi si volse verso di noi, riuscendo a far udire la sua voce. E quando gli strapparono la prima gamba e poi la seconda, era vivo ancora ma la sua voce s’era fatta più fioca. E infine pendette lì un tronco sanguinolento con il capo cionco. Ormai gemeva soltanto e guardava a occhi sbarrati il crocifisso che gli porgeva il confessore”.
L’efferatezza del supplizio ovviamente ci impressiona. Eppure pare proprio che nessuno dei contemporanei fosse più di tanto scandalizzato dalla disumanità dell’evento: lo stesso Voltaire, che “pure conduceva da anni un’aspra polemica contro la tortura e le esecuzioni capitali, non mostra una particolare riprovazione per il supplizio di Damiens, quando una decina d’anni dopo ne dà un sintetico resoconto”. (Dal Lago, pag 71). Per non parlare di Casanova, che assiste al supplizio assieme a due allegre signore e a un suo compagno di bisboccia da un appartamento affittato appositamente e che trascorre le quattro ore dell’agonia di Damiens impegnato in approcci galanti più che espliciti con le dame (le quali, nonostante la piacevole distrazione, restavano ostinatamente affacciate alla finestra per non perdersi nemmeno un particolare).
Ma da un certo momento in poi, secondo l’analisi di Dal Lago, la spettacolarizzazione di una giustizia crudele ma necessaria (almeno nell’ottica di un’espiazione sacrificale che sancisse la sacralità del potere che la esercitava), cede il posto al nascondimento, alla “privatizzazione” e apparente “de-erotizzazione”della punizione: “oggi – scrive Dal Lago – si suppone che i parenti di una vittima che assistono all’esecuzione di un omicida non godano dello spettacolo, ma testimonino esclusivamente, con la loro presenza, l’avvenuta retribuzione del crimine”. La situazione, in realtà, è assai più complessa. Come scrive Dal Lago, ”il mondo secolare traveste la sua violenza nelle forme della “legge”, della “giustizia” e della “sicurezza”. Al punto che è capace di fare la guerra senza che i suoi abitanti, tutto sommato, ne siano consapevoli o l’avvertano nella loro vita quotidiana”. La società si vergogna della sua crudeltà reale, quella che davvero si dispiega nella storia, e non esita a rimuoverla dallo sguardo o a scandalizzarsi se essa casualmente sfugge alla censura (Abu Ghraib): ma al tempo stesso non rinuncia a spostare in avanti l’asticella della rappresentazione finzionale, offrendo agli spettatori la loro dose quotidiana di sangue, sesso e sado-masochismo, in nome della libertà di espressione e della ormai universalmente ammessa licenza alla perversione virtuale. Eppure non si tratta di libertà: in realtà è soltanto una sottile ipocrisia che ammette la fiction ma nega ed edulcora la verità.
Ecco perché Salò scandalizza e disturba ancora. Perché la “mostruosità” dei suoi protagonisti in realtà rimanda alla nostra apparente normalità e ne è l’evidente metafora: seduti nelle nostre comode poltrone, nei nostri salotti apparentemente protetti, come i quattro signori di Salò assistiamo con gusto voyeuristico alla riproduzione mediatica della violenza e della crudeltà in televisione e in Rete, ovvero nel recinto innocuo della fiction, del cinema, del resoconto giornalistico, ottundendo progressivamente la nostra capacità di reagire e compatire. Al tempo stesso la perversione della nostra immaginazione colonizzata dal potere mediatico si trasforma in un piacere da drogati, per i quali la dose di crudeltà virtuale deve via via aumentare per garantire la desiderata scossa adrenalinica. Ma ufficialmente non saremmo disposti ad ammettere che in questo complesso e contraddittorio meccanismo di rimozione e, al tempo stesso, accettazione dell’immagine del male si nasconda non la malattia di chi ce lo sbatte in faccia ma, al contrario, la patologia del nostro modo di relazionarci con noi stessi, con gli altri, con i meccanismi di dominio sociale.

Pasolini ha perseguito coscientemente e lucidamente la provocazione. Salò non è, come pure qualche critico ha preteso, il segno della sua disperata “follia”, ma l’analisi spietata della nostra. E’ il gesto estremo (assieme all’ultimo romanzo Petrolio) di un intellettuale che voleva farla finita con il gioco autoreferenziale della letteratura e dell’arte come recinto protetto e “autonomo” rispetto all’urgenza della storia: un intellettuale che, al contrario, rivendicava per sé il dovere della lotta e si incaricava di una disperata testimonianza “contro”, respingendo non tanto l’idea di progresso, quanto la sua banalizzazione come sviluppo “felice” del tardocapitalismo e come spinta alla colonizzazione e all’omologazione mercantilistiche delle coscienze e dei corpi.

Bibliografia essenziale
Carla Benedetti, Giovanni Giovannetti, Frocio e basta. Sacra follia? Pasolini, Cefis, Petrolio. Così muore un poeta. Milano, 2012
Carla Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura. Torino, 1998
Adelio Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, a cura di Lorenzo Pellizzari, Venezia, 1977, 1994
Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, Milano, 2005
Carl Schmitt, Dialogo sul potere, MIlano, 2012 (Stuttgart, 1994 2008, Berlin, 1995)
Alessandro Dal Lago, Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà. Milano, 2012

Fonte:
http://www.contaminazioni.info/salo-di-pier-paolo-pasolini-una-provocazione-sempre-attuale/



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La storia dell’umanità è la storia del potere e viceversa - Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini

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Salò o le 120 giornate di Sodoma : la storia dell’umanità è la storia del potere e viceversa
di Luca Monticelli

L'esperienza teorico culturale

Salò rappresenta il testamento critico di Pier Paolo Pasolini, non perché le vicende dell'Idroscalo siano avvenute come un "suicidio per procura" (il poeta infatti progettava un film con Eduardo De Filippo), ma perché storicamente quest'ultimo film racchiude quello che è stato il pensiero teorico e critico-sociologico del Pasolini saggista-editorialista degli anni '70. Salò è metaforicamente e emblematicamente un film sulle più famose tesi pasoliniane. L'emblema prenatale del film sono due articoli rispettivamente del 10 giugno '74 (ampliato l'11 luglio dello stesso anno) e del 15 giugno '75 entrambi pubblicati sul Corriere della sera.
Il primo è lo "studio della rivoluzione antropologica in Italia", dopo la vittoria dei "no" al referendum sull'abrogazione del divorzio dove viene descritta la disfatta, la scomparsa dell'Italia contadina e paleoindustriale; Pasolini parla di un nuovo Potere difficile da definire che ha manipolato radicalmente e antropologicamente le grandi masse contadine e operaie. E' cambiata la natura della gente, ognuno in Italia sente l'ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell'essere felice, nell'essere libero: perché questo è l'ordine che egli inconsciamente ha ricevuto, e a cui deve obbedire. L'uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo.
Il secondo articolo è invece "l'abiura dalla Trilogia della vita" in cui il poeta scrive di odiare i corpi e gli organi sessuali dei nuovi giovani e ragazzi italiani, degenerazione dei corpi e dei sessi che ha assunto valore retroattivo: i giovani e i ragazzi del sottoproletariato romano –proiettati dal regista nella vecchia e resistente Napoli, e poi nei paesi poveri del Terzo Mondo – se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente lo erano: erano quindi degli imbecilli costretti a essere adorabili, degli squallidi criminali costretti a essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti, ecc. Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La stoccata finale è per la televisione e per la scuola dell'obbligo, le quali, hanno ridotto tutti i giovani e i ragazzi a schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie. Pasolini si stava adattando alla degradazione e stava accettando l'inaccettabile: "riadatto il mio impegno ad una maggiore leggibilità (Salò?)".
Questo il clima generale, questo il quadro che fanno da sfondo alla decisione di Pasolini di appropriarsi di un progetto che Sergio Citti stava esaminando. Citti pensava, infatti, di produrre una sceneggiatura dalle Centoventi giornate di Sodoma di De Sade. Pasolini fa proprio il progetto (Sergio Citti, con Pupi Avati, saranno poi collaboratori alla sceneggiatura), traspone l'originaria ambientazione settecentesca nella repubblica di Salò del 1944 e sviluppa l'idea che sorregge il romanzo di De Sade del "piacere" della violenza, delle sevizie, della perversione sessuale, di come agisce il potere dissociandosi dall'umanità e trasformandola in oggetto.
Il sesso in Salò è una rappresentazione del sesso come obbligo e bruttezza, è la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione di quella che Marx chiama la mercificazione dell'uomo: la riduzione del corpo a cosa attraverso lo sfruttamento. Il potere fascista e nella fattispecie il potere repubblichino è un simbolo di tutto il potere, legislativo e esecutivo che nel suo codice e nella sua prassi altro non fa che sancire e rendere attualizzabile la più primordiale e cieca violenza dei forti contro i deboli: cioè, degli sfruttatori contro gli sfruttati. I potenti di De Sade infatti non fanno altro che scrivere Regolamenti e regolarmente applicarli.
Pasolini ha concepito questo film, dunque, in un momento storico in cui percepiva lucidamente, attraverso tutto ciò che stava accadendo attorno a lui (la violenza, la corruzione, la caduta verticale dei valori, l'imposizione di miti consumistici, l'omologazione sociale e culturale) il grado di sfacelo di un intero paese e il crimine di un potere "tritacoscienze" che agiva – e agisce (?) – in nome di una democrazia solo nominale, formale. Come dice uno degli "anarchici carnefici" nel film: "là dove tutto è proibito, in realtà si può fare tutto, mentre là dove si può fare qualcosa, come nelle forme di potere dette democratiche o tolleranti, si può fare solo quel qualcosa".

L'ombra del sottoproletariato

Ripudiando la trilogia della vita, Pasolini è oppresso dalla sperimentazione quotidiana di un mondo ove anche i sensi hanno perso ogni ipotesi di felicità, di innocenza, e le stesse masse subproletarie sono omologate, standardizzate persino nell'aspetto fisico. I sottoproletari si sono impadroniti dei valori della borghesia portandoli alle estreme conseguenze, senza addolcimenti di alcun genere. Una generalizzazione pericolosa perché la scomparsa della vecchia separazione tra mondo borghese e mondo popolare era un fenomeno verificatosi ovunque, ma per il poeta fu una vera tragedia: la religione del suo tempo, l'immedesimazione nei ragazzi di vita, il sesso come irrisione del potere erano persi per sempre. Per capire bene la portata rivoluzionaria che questi fenomeni comportarono nella vita e nella poetica del regista bisogna tornare indietro negli anni. Quando Pasolini dovette trasferirsi a Roma nel '50 andò a vivere in borgata a Ponte Mammolo, vicino al carcere di Rebibbia e tirava avanti insegnando nelle scuole medie.
E' in questi anni che si situa la scoperta del sottoproletariato che, per lui, prima di essere esperienza poetica è esperienza esistenziale. Roma è un universo che non riconosce le città e le nazioni, è transnazionale; è l'avanzo di una civiltà precedente, un mondo contadino prenazionale e preindustriale. E' la natura sottoproletaria. "Ragazzi di vita" definito da Contini un'epopea picaro-romanesca riflette pienamente la violenza e la dolcezza, la purezza e l'opportunismo del Riccetto e soci. I tanti ragazzi del "coro della vita" di cui fanno parte vivono l'età del pane, giorno dopo giorno l'obiettivo è quello di racimolare qualche soldo per beni estremamente necessari per il proprio sostentamento e che magari invece vengono puntualmente perduti al gioco o spesi per il vino.
Nel suo primo film Accattone (1961) Pasolini aveva immortalato "un'atroce condizione umana" allo stesso tempo pura perché ignorante della storia borghese, i romani descritti avevano molto di più in comune con uomini del medioevo che non con uomini contemporanei appartenenti all'ideologia della classe dominante. Accattone, che cammina per strada accompagnato da La passione secondo Matteo di Bach, è un povero Cristo i cui valori non sono che i primitivi istinti di sopravvivenza.
Nel '75, quando il film fu trasmesso per la prima volta in tv Pasolini sul Corriere della Sera scrisse: "Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di uno di quei genocidi culturali che avevano preceduto quelli fisici di Hitler. I giovani, svuotati dei loro valori e dei loro modelli come del loro sangue, e divenuti larvali calchi di un altro modo di essere: quello piccolo-borghese."
Cos'era successo? Ma naturalmente il boom! Il nuovo Potere aveva cancellato, tramite la televisione, i valori contadini e originariamente cristiani delle masse sottoproletarie con l'esplosione del consumismo. I ragazzi di vita, che rimanevano miserabili, avevano sostituito la loro scala dei valori con quella dei borghesi.
L'incontro tra queste differenti realtà non può che essere disastroso per i sottoproletari e per Pasolini stesso. Dopo questo mutamento antropologico infatti il comunismo marxista, irrazionale, romantico, populista dell'autore subì un brutto colpo, tanto che la vagheggiata palingenesi di un mondo nuovo di milioni di sopravvissuti di borgata contro pochi padroni borghesi rimase un'utopia da contemplare che segnò l'esordio della battaglia individuale e personale di Pasolini contro il Potere e l'ipocrisia borghese.
Devastante lo è anche per i sottoproletari e se ne ha una prova in Mamma Roma (1962): prostituta che ha come mira il riscatto della propria sofferenza secondo i canoni del pensiero piccolo borghese, a cui per elezione vorrebbe appartenere, per fare "invidiare tutti i pezzenti". L'elezione sarebbe dovuta avvenire con l'appartamento nuovo, un lavoro rispettabile per sé e per il figlio Ettore, strappato alla provincia natale per vivere tra la gente perbene. Pasolini fu costretto molte volte a doversi difendere sui giornali da accuse di populismo, qualunquismo e fu persino definito " un nostalgico dell'Italietta".
Proprio l'Italietta piccolo borghese, fascista, volgare che lo aveva perseguitato, linciato ed equivocato. Non solo fu accusato dai soliti detrattori dell'Espresso, dell'Unità o del Borghese ma anche da amici come Calvino, Moravia o Natalia Ginzbourg. Una delle risposte migliori fu quella data al "Mondo" l' 11 luglio del 1974 nella quale l'autore spiegava la tristezza dell'ex sottoproletario costretto a diventare borghese: "Una delle caratteristiche principali di questa uguaglianza dell'esprimersi vivendo, oltre alla fossilizzazione del linguaggio verbale è la tristezza: l'allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva. La tristezza fisica di cui parlo è profondamente nevrotica. Essa dipende da una frustrazione sociale. Ora che il modello sociale da realizzare non è più quello della propria classe, ma imposto dal potere, molti non sono appunto in grado di realizzarlo. I ragazzi del popolo sono tristi perché hanno preso coscienza della propria inferiorità sociale, visto che i loro valori e i loro modelli culturali sono stati distrutti."

Il potere e i ragazzi di oggi

Ecco, è chiaro che Pasolini con Salò, volesse prendersela più col potere di oggi, distruttivo e omologante, che col fascismo repubblichino. Diceva anzi che era stata l'impossibilità di sopportare fisicamente "i beni di consumo di oggi, le facce di oggi, i capelli lunghi di oggi" a fargli proiettare la critica al Potere nell'epoca di Salò, come simbolo estetico di anarchia. Era senza dubbio più ossessionato da certa violenza mercificante del Potere che dai pericoli del neofascismo, al punto di dire che sotto il fascismo il sottoproletariato era intatto perché l'ideologia fascista gli era imposta mentre adesso l'ideologia dominante gli viene inculcata e i sottoproletari la accettano come propria.
Con Salò il poeta voleva compiere una metafora delle nequizie cui conduce il potere, quali gli sembravano esprimersi soprattutto nel rapporto sessuale sadico. In qualsiasi potere c'è qualcosa di brutale, che porta al possesso dei corpi, usati come oggetti. I delitti nazifascisti nei mesi di Salò ne sono l'esempio storico piu persuasivo, ma oggi se ne ha la riprova nei crimini del consumismo. I veri anarchici sono sempre quanti manovrano le leve di comando, come emerge in una sequenza del lungometraggio: "Noi non siamo forse la dimostrazione vivente di che è realmente il Potere? L'unica vera, grande, assoluta Anarchia, è quella del potere. Infatti noi, qualsiasi cosa ci venga in mente, la più folle ed inaudita, la più priva di senso, possiamo scriverla in questo quadernetto, ed essa diviene immediatamente legale; se poi saltasse in mente di cancellarla, essa diverrebbe immediatamente illegale. Le leggi del Potere, non fanno altro che sancire questo potere anarchico,... e ciò vale per qualsiasi potere".
Nulla, secondo la visione pasoliniana, è più anarchico del potere arbitrariamente spinto da esigenze puramente economiche che sfuggono ad un sentire comune. Il potere, di per sé, è codificatore e rituale; la ripetitività del gesto sodomitico rappresenta, per la sua meccanicità, il paradigma che riassume questa terrificante imposizione del neocapitalismo.
I carnefici di Salò, attraverso la manipolazione dei corpi assumono la potenza di dei in terra, cioè il loro modello è sempre Dio. In una delle farneticanti congetture dei 4 signori viene definito il gesto sodomitico come morte della specie, più precisamente è il più mortale, il più ambiguo e per questo accetta, allo scopo di trasgredirle, le norme sociali, è infine il più scandaloso, perché pur essendo il simulacro dell'atto generativo, ne è la totale derisione". Questo inciso è un evidente richiamo ad un altro articolo di Pasolini apparso sul Corriere della sera il 19 gennaio 1975, nel quale si dichiarava contrario al referendum sull'aborto: "Quindi, ogni figlio che un tempo nasceva, essendo garanzia di vita, era benedetto: ogni figlio che invece nasce oggi, è un contributo all'autodistruzione dell'umanità, e quindi è maledetto. Sarebbe il rapporto eterosessuale a configurarsi come un pericolo per la specie, mentre quello omosessuale ne rappresenta una sicurezza."
Il film è scandito ritmicamente dall'ossessività dei cerimoniali quali matrimoni, cene, racconti, giochi, ispezioni e dall'accompagnamento musicale della pianista. La pianista stessa si suiciderà gettandosi dalla finestra, metafora dell'arte servile al Potere tecnocratico, la quale di fronte alle esecuzioni dei ragazzi non può che negarsi ed esaurire il suo compito. "La nuova gioventù" intraprende il proprio viaggio negli orrori della società dei consumi, in cui la prima merce ad essere consumata è il proprio corpo, le proprie feci e così coloro che asseconderanno meglio i carnefici, in premio, saranno portati a vivere nella Repubblica di Salò. La propaganda del consumo trova nella televisione la sua cassa di risonanza massima –mezzo popolare per eccellenza e in grado di raggiungere facilmente diversi strati di popolazione- ed è sicuramente uno degli argomenti che maggiormente hanno stimolato gli attacchi e le riflessioni del Pasolini luterano.
Proprio in Salò il poeta sembra predire le future caratteristiche di una tivù allora ancora "paleo" ma che da lì a qualche anno si sarebbe trasformata in "neo". Nell'Antinferno i 4 anarchici del Potere seduti su un divano osservano cinici e svogliati "i culetti sodi" e "le tettine" delle ragazze che sceglieranno di rapire. Queste sono "presentate" da mature "imbonitrici" che svolgendo il ruolo di editori o produttori cercano di incitare, eccitare e compiacere il pubblico, rappresentato dai 4 comodamente seduti.
Evidente anche l'etichetta della bellezza venduta dai mass-media e legata ad uno stereotipo di falsa perfezione: una bella ragazza viene "scartata" perché le manca un dente. "Non c'è niente di più contagioso del male" recita una battuta e nel Girone delle Manie la signora Vaccari ha il compito, con le sue storie, di trasformare le ragazze in puttane di primordine. Le sue lezioni di pratica sessuale sono l'aggressiva propagazione della possibilità di un solo tipo di amore e di una sola passione convenzionale. Nel flusso postmoderno televisivo e neocapitalistico rientrano a pieno titolo anche i continui dialoghi dei carnefici infarciti di citazioni colte, battute e barzellette stupide così come la vacuità del concorso "miglior culo" o l'obbligo di mangiare merda perché "nulla deve andare perduto", anche le feci vanno commercializzate (vedi Piero Manzoni e la sua Merda D'artista).

Le ribellioni

Gli unici veri gesti di insubordinazione, le uniche ribellioni sono rappresentate dal Comunismo come unica evasione dalle barbarie: nell'Antinferno un figlio di partigiani scappa dal camion in cui erano stati caricati i sequestrati e viene ucciso, così come nel Girone del Sangue un collaborazionista viene sorpreso a far l'amore con una serva di colore, e che, al fucile puntato contro di lui mostra fiero il pugno chiuso.
Questi sono gli unici gesti che si contrappongono alle sottomissioni, ai matrimoni con i carnefici, alle urla invocanti Dio dei succubi che non fanno nulla per rivoltarsi ma restano all'interno della società degli orrori legittimandola. Anzi, avviene anche che i prigionieri provochino la morte dei propri compagni, come ad esempio nel Girone del Sangue quando ognuno dei ragazzi che rischia qualche punizione per salvarsi accusa i compagni di colpe più grandi, come tenere la foto di un uomo sotto un cuscino o un rapporto saffico. Però, sia il gesto politico che quello religioso della richiesta d'aiuto sono inutili e solitari. Ciò che è scomparso è la solidarietà, la capacità di partecipare al dolore degli altri, il mutuo soccorso. Ogni tentativo di ribellione si profila quindi come fuga individuale senza speranza e fine a se stessa. E' più che legittimo il sospetto che l'autore abbia più odio per quei giovani corpi inermi, esposti dalla stupidità dell'innocenza a ogni oltraggio, che per i loro carnefici, strumenti d'una fatale demenza.
Egli odia il sesso, divenuto da gioia e libertà per gli umili in epoche repressive, atroce espressione di violenza in epoche permissive. Fa un film perverso per protesta contro la perversione che è ormai ovunque.
E se la protesta non fosse contro la perversione ma contro la vita stesse? E se la pianista che si getta dalla finestra fosse il simbolo della coscienza di Pasolini ormai tradito dall'inespresso esistente, dalla disperata vitalità e dall'ossesso del corpo? E' ormai impossibile anche la vagheggiata sintesi dell'uomo nuovo tra marxismo e cristianesimo. Secondo Pasolini c'era un punto di coincidenza: la religione che cacciata dalla porta rientra dalla finestra. Non solo nel fondo dell'azione di Marx c'era un profondo spiritualismo nell'identificazione di se stesso con gli sfruttati nelle fabbriche, anche i comunisti hanno fiducia nella "prospettiva" del futuro , la Speranza. Una volta verificatasi la vittoria di classe del proletariato, non vi sarà più storia e vi sarà dunque un momento ideale di astoricità: è proprio su questo punto che il marxista è un uomo religioso che segue una fede che ha come risultato ultimo la vittoria dei poveri contro i ricchi. Per il poeta queste istanze cristiane c'erano nel profondo di ogni borghese che ha optato per il marxismo, come lui, e che lotti per gli operai.
Una Speranza, un'idea tradita dalla realtà e da Salò: autentica ideologia della sconfitta.

Un film estremo

Salò è di certo un film estremo, che risponde alla sfida della tolleranza. Pasolini, durante la lavorazione, ha cercato di rappresentare consapevolmente 'il cuore della violenza' con una freddezza e una lucidità espressive quasi maniacali. Salò fu soggetto a traversie giudiziarie che vanno dall'imputazione per oscenità a quella di corruzione di minori, durate a fasi alterne fino al 1978; questa era però l'aperta ambizione del regista con la quale si preparava a sfidare la sdrammatizzazione operata dal Potere: "Questo film va talmente al di là dei limiti, che ciò che dicono sempre di me dovranno poi esprimerlo in altri termini. È un nuovo scatto. Un nuovo regista. Pronto per un mondo moderno. Chi potrebbe dubitare della mia sincerità quando dico che il messaggio di Salò è la denuncia dell'anarchia del potere e dell'inesistenza della storia?

Salò secondo Moravia

Moravia, il 6 dicembre del 1975, definì sul Corriere della sera Salò un film del tutto cerebrale e provocatorio. Parlava di Pier Paolo come omosessuale dotato di spirito religioso e patriottico che desiderava far parte della società italiana accettando, suo malgrado, e può darsi senza rendersene conto, il punto di vista negativo di questa società nei confronti dell'omosessualità, vale a dire non riuscendo a liberarsi di un senso di colpa.
Pasolini scoprì a sue spese che la società italiana non era la società libera e grandiosa del Rinascimento, ma che era piuttosto una società piccolo-borghese repressa e repressiva e, perdipiù, molto diversa da quella che doveva essere e da quella che dichiarava di essere. Scoprì inoltre di avere un senso di colpa provocato da una società non solo indegna di portare un tal nome, ma corrotta e spregevole; per questo Sade è una pietra da lanciare contro la società italiana, con l'intento provocatorio di farla uscire allo scoperto, fuori dalla sua corruzione e dalla sua contraddittoria condanna dell'omosessualità. La tragedia di Pasolini non era quella dell'uomo corrotto dal denaro, ma quella del patriota tradito dal suo paese.

La sequenza

I 4 Signori aiutati dai loro collaborazionisti, poco prima del finale, torturano, stuprano e bruciano le loro vittime nel giardino della villa e a turno, siedono su una poltrona e dalla finestra con un binocolo osservano compiaciuti gli orrendi delitti. La strage ci viene mostrata in soggettiva così che è il pubblico a guardare col cannocchiale i fatti che si verificano nel giardino; questa inquadratura è costruita in modo tale che il regista sembra ci dica: "E' a te che dico, è di te che parlo, sei tu a permettere tutto questo". Lo spettatore è il voyeur che non ribellandosi allo status quo legittima la malvagità del Potere, proprio come i ragazzi rapiti nel film.

Il finale

Una ideologia della sconfitta che paradossalmente viene annullata dall'inaspettato finale: nel mezzo dell'immane carneficina, due giovani collaborazionisti, annoiati e indolenti, cambiano canale alla radio d'epoca che trasmette i Carmina Burana di Orff, per improvvisare sulla canzonetta degli anni Quaranta "Son tanto triste", motivo conduttore del film, qualche passo di valzer, pronunciando questo dialogo: "Sai ballare?" "No." "Dai, proviamo. Proviamo un po'..." "Come si chiama la tua ragazza?" "Margherita."
La trovata del ballo infatti potrebbe essere l'azzeramento della carneficina dovuto ad un piccolo e puro bagliore di speranza, contrariamente però, la tenerezza che ispirano i due ragazzi potrebbe anche essere una mancanza di coscienza dei figli che non si ribellano, pensano ad altro legittimando così i loro padri.

Fonte:
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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