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venerdì 17 maggio 2013

L'ultima cena di Pasolini.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





L'ultima cena di Pasolini.




Dove ha cenato l’ultima sera, prima di morire, Pier Paolo Pasolini?
A Roma ci sono due ristoranti che si contendono questa fama. Uno è «Pommidoro» nel quartiere di San Lorenzo. L’altro è «Il biondo Tevere», sulla via Ostiense. Mi è capitato negli ultimi tempi di frequentarli entrambi e mi sono chiesto quale dei due fosse quello «autentico». Oppure Pasolini aveva cenato due volte? Quando da Pommidoro mi hanno mostrato l’assegno (mai incassato), con data e firma, con il quale lo scrittore aveva saldato il conto (la sera del 1° novembre 1975), ho avuto la certezza che avesse cenato lì. Ma poi ho scoperto che effettivamente era stato anche al Biondo Tevere. Basta ricostruire le ultime ore di vita dello scrittore.

Con Ninetto Davoli Pasolini cena da Pommidoro.

Poi fa un giro nei pressi della stazione Termini, dove conosce Pino Pelosi, il ‘ragazzo di vita’ con il quale decide di passare il resto della serata. I due si accordano per andare a Ostia. Sono sull’Alfa Gt di Pasolini. È sera tardi, sono passate le 23. Ma Pelosi non ha ancora mangiato. Ecco quindi che Pasolini accosta, sulla via Ostiense, presso la trattoria Il Biondo Tevere.Un ristorante tipico, molto popolare, abitualmente frequentato da Pasolini, Moravia, Elsa Morante e altri intellettuali. Lì Pasolini portava gli attori dei suoi film, spesso ragazzi di strada come Davoli o i fratelli Citti, e lì, sulla veranda affacciata sul fiume, si tenevano le riunioni di preparazione alle pellicole.
Per questo la proprietaria del ristorante, la signora Giuseppina Panzironi, non si stupisce quando, a tarda ora, vede arrivare Pasolini con un giovane ragazzomai visto prima. «Prego professore, si accomodi ». È tardi, il ristorante sta per chiudere, ma per Pasolini non si può non fare un’eccezione. «Era la sera del 1° novembre, la festa di Ognissanti», ricorda oggi la signora Panzironi, tutt’ora attiva al ristorante che ha mandato avanti per una vita intera con suo marito, scomparso da qualche anno. «Allora era una festa molto sentita dalla gente, infatti non avevamo lavorato molto quella sera e per questo stavamo per chiudere. Ma mio marito non ebbe dubbi ad accogliere Pasolini, che era un nostro cliente abituale, una persona di poche parole ma sempre di straordinaria gentilezza». Pasolini prende per sé un semplice spuntino: una banana e una birra. Mentre per il ragazzo che è con lui ordina una cena vera e propria. I ristoratori chiudono la serranda. Quando Pasolini e Pelosi, poco dopo, lasciano il locale, la signora Panzironi e suo marito li accompagnano alla macchina.

Saranno gli ultimi a vedere lo scrittore vivo.

Quando l’indomani si diffonde la notizia dell’assassinio, la titolare del Biondo Tevere trasale. «Quando abbiamo sentito che era stato ucciso da quel ragazzino, sia io che mio marito abbiamo pensato che non era possibile. Pasolini aveva sì più di 50 anni, ma fisicamente ben messo, atletico, sportivo. Pelosi non aveva 18 anni, era un ragazzino mingherlino e difficilmente avrebbe potuto prevaricarlo. La polizia ha. chiesto a mio marito se quella sera ci fossimo accorti per caso che qualcuno avesse seguito l’auto di Pasolini. Ma non abbiamo visto nulla. Purtroppo. È ancora un grande rammarico, quello di non aver potuto fare nulla per proteggerlo e, dopo, per aiutare le indagini ».



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Curatore, Bruno Esposito

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Omicidio Pasolini - Arringa dell'avvocato Guido Calvi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Arringa dell'avvocato Guido Calvi
[1. La parte civile ritira la sua costituzione]
PROCESSI
 

 Le ragioni che inducono la parte civile a ritirare la sua costituzione possono trovare spiegazioni solo ricordando le motivazioni che determinarono inizialmente la scelta di essere partecipi di questo procedimento penale. Certamente più semplice, e anche sostenuta da valide e comprensibili argomentazioni, sarebbe stata la scelta di astenersi dalla costituzione di parte civile. La vita e l'opera di Pasolini sono state arrestate tragicamente e la loro perdita, per i familiari, per gli amici, per il mondo della culrura, non poteva in alcun modo trovare compensi.
Né tanto meno poteva esservi proporzione o semplice rapporto tra il dolore e lo sgomento provati e la ricerca di una rivalsa, sia pure processuale, nei confronti di un assassino, così miserevole e abietto nella sua sordida insania. Solamente chi non l'ha mai voluto o potuto conoscere, chi ha odiato lui e la sua cultura, chi lo ha stimato con invidia malcelata, chi ha sperato da sempre che per sempre la sua voce fosse chiusa nel silenzio, ha potuto ricordare e giudicare Pasolini esclusivamente alla luce degli ultimi e drammatici istanti della sua esistenza.
Era, dunque, semplice rifiutare quegli ultimi istanti e il giudizio che su essi sarebbe stato espresso. Ma così non è stato. Si è voluto invece essere presenti così come Pasolini avrebbe deciso: "Ho sempre pagato, sono andato disperatamente in fondo a tutto. Ho fatto molti errori, ma certo non ho rimpianti". E ciò perché, scriveva in una poesia del 1969: "Della nostra vita sono insaziabile / perché una cosa unica al mondo non può mai essere esaurita". Senza acrimonia o iattanza, ma con l'umiltà della coscienza che solo Pasolini avrebbe potuto difendere o spiegare appieno se stesso, la parte civile ha scelto di collaborare con la giustizia, solamente perché la verità, o almeno quella parte di verità, alla sua morte, non fosse ancora una volta travolta e mistificata dal risentimento e dalla incomprensione.
Abbiamo voluto offrire a voi giudici e alla opinione pubblica i nostri dubbi e le nostre certezze circa quanto accadde la notte del 2 novembre. Abbiamo voluto provare la volontarietà dell'omicidio ed esporre le ragioni che ci inducono a ritenere che Giuseppe Pelosi non fosse solo e che gli elementi obiettivi raccolti in istruttoria possono essere compiutamente valutati solo in presenza di una pluralità di esecutori. In tutto ciò l'attenzione, la serenità, l'obiettività e l'intelligenza di tutto il Tribunale, a cominciare dal suo Presidente, ci sono stati di conforto e di aiuto. Riteniamo che, per ora, il nostro compito sia terminato. Vogliamo che Pelosi sia condannato, ma non spetta più a noi chiedere come e in quale misura la pena sia concretata. Abbiamo fatto tutto ciò che ci è stato possibile per dimostrare la responsabilità dell'imputato e dei suoi complici. Tuttavia la pena che sarà irrogata ci è estranea e la sua valutazione preclusa, poiché Pelosi "è" di questo processo, "è" di questo Tribunale, mentre la memoria di Pasolini appartiene a noi tutti perché "è" di un'altra realtà. L'unica e ultima richiesta che resta è dettata dalla insoddisfazione per la parzialità della verità accertata.
Il Tribunale decide ora su quanto è stato portato a sua conoscenza. Restano i complici ancora ignoti. E questi appartengono a un capitolo del processo che altri giudici dovranno riaprire e continuare. Non possiamo ritirare la costituzione di parte civile senza aver dato prima una valutazione, sia pur sintetica, sui punti del processo che reputiamo fondamentali. Tale scelta infatti è legata al momento formale della costituzione stessa considerando quanto eccezionale e dolorosa sia stata la riflessione giudiziaria sulla morte di Pasolini. In altre parole, come abbiamo già scritto, il ritiro della parte civile non attiene all'accertamento delle responsabilità penali del Pelosi, anzi esso avviene proprio perché tale accertamento, a nostro parere, è stato acclarato in modo inequivoco, ed è posto in essere sulla soglia della irrogazione della pena e della richiesta del risarcimento. Di qui la necessità, in questa sede, di puntualizzare il nostro convincimento sui temi della maturità dell'imputato e delle modalità del delitto. Uno dei momenti centrali in questo processo è, senz'altro dubbio, l'analisi circa la "maturità" dell'imputato. Su questo tema giuristi, psicologi, intellettuali anche stranieri, si sono impegnati pubblicamente in riflessioni che, non sempre, hanno offerto contributi positivi a una
chiara impostazione del quesito che in sede processuale è stato posto. In ogni caso, crediamo debba essere premesso che l'art. 98 C.p., pur inserito in un quadro normativo notoriamente autoritario e conservatore, rappresenta un segno di sicura e alta civiltà giuridica.
Non si dimentichi, infatti, che in altri Paesi il minorenne può essere punito financo con la pena di morte mediante ghigliottina. Ciò detto, riteniamo che il problema debba essere riproposto e valutato sulla base dei criteri interpretativi propri ed esclusivi dello specifico ambito nel quale il concetto di incapacità d'intendere e di volere è posto, e cioè sul terreno giuridico.
L'art. 85 C.p.. dopo aver ribadito e ampliato il principio di stretta legalità secondo cui "nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile", dichiara: "è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere". L'art. 98 C.p., poi, afferma che il minore degli anni 18 è imputabile se nel momento in cui ha commesso il fatto "aveva capacità di intendere e di volere". Il quesito al quale il Tribunale deve rispondere è questo. E questo è anche l'ambito entro il quale i periti possono e debbono operare nel coadiuvare l'attività dei giudici. [...]
[2. La personalità di Pino Pelosi] Pelosi è imputabile? È capace di intendere e di volere? È maturo? La risposta, come abbiamo visto, non può essere data intendendo per "oggetto concreto" l'imputato, bensì il rapporto tra imputato, il suo sviluppo psichico e il fatto criminoso. Non vi è dubbio che, anche a una osservazione superficiale, il Pelosi appaia un soggetto con gravi carenze intellettive e terribili lacune etico-sociali, ma la sua maturità, dal punto di vista giuridico, va valutata in relazione alla comprensione dell'atto criminoso e posta nel momento in cui uccise Pier Paolo Pasolini. Dunque, la vera e definitiva questione è se Pelosi, allorquando uccise Pasolini, era in grado di rappresentarsi gli effetti della propria azione e di darne comunque, e sia pure in modo informe e primitivo, un giudizio etico-sociale. Ebbene la risposta non può darsi senza avere presente la ricostruzione. la dinamica e le modalità del delitto. Se fossimo stati di fronte a una azione improvvisa, repentina e quasi inconsulta, ben diverse sarebbero l'analisi e le conclusioni cui perverremmo. In realtà, l'istruttoria ha fornito elementi per escludere una si- mile ricostruzione degli avvenimenti, ed è proprio ciò che rende più complesso e assai difficile l'accertamento della capacità del Pelosi.
A nostro avviso, la volontarietà dell'omicidio è stata ampiamente dimostrata, e a sostegno di ciò sono soprattutto le perizie medico-legali, le osservazioni del nostro consulente prof. Faustino Durante, e le stesse incerte e lacunose dichiarazioni del Pelosi. Di ciò tratteremo in altra parte delle nostre conclusioni, ma qui osserviamo che se quella notte del 2 novembre Pasolini fu colpito in prossimità della sua auto, se disperato fuggì sanguinante per oltre 70 metri, se fu inseguito e raggiunto, se qui fu di nuovo colpito, se Pelosi tornò indietro, salì sull'auto, ripartì, deviò ampiamente sulla sua sinistra, passò sul corpo martoriato con ambedue le ruote, ebbene tutto ciò non solo prova la volontarietà dell'esecuzione ma sottolinea, nella dilatazione dello spazio temporale, pervicace e reiterata volontà omicida che non poteva essere priva della coscienza di quanto stava accadendo e della intelligenza della reale situazione che stava ponendo in essere. Pelosi aveva dunque la capacità di rappresentarsi gli effetti delle sue azioni? A nostro avviso sicuramente sì.
Ma Pelosi aveva anche la capacità di esprimere un giudizio etico e sociale su quanto stava commettendo? Qui il discorso è più complesso. Il nostro consulente prof. Luigi Cancrini ha espresso con chiarezza qual è il nostro punto di vista e ad esso ci riportiamo. Il Pelosi come tutti è soggetto ad una scala di valori che l'ambito sociale nel quale egli vive forma, e che la sua famiglia media criticamente. Ed è solamente in relazione a un tale complesso inscindibile, individuo- famiglia-società, che è possibile esprimere un giudizio di maturità. Si tratta, insomma, di "riflettere sulla possibilità di considerare "maturo" un individuo e un gruppo che mettono in opera, nel corso dei colloqui diagnostici, comportamenti complessivi di questo tipo e di questo livello: l'indifferenza al problema proposto dalla sorte di un uomo, la preoccupazione centrata sul giudizio della gente (i giornali che hanno parlato di Pino dicendo che era "soprannominato" Rana e lui invece non rassomiglia per niente a una rana, la "famiglia esemplare" rovinata da "quello lì"), sono l'espressione evidente di una difficoltà grave, comune a tutto il gruppo familiare, ad affrontare con la serenità e il realismo propri di un comportamento maturo i fatti di cui si sta qui discutendo. E ciò anche se è possibile ritrovare, per ognuno di essi, spiegazioni anche convincenti all'interno di un certo contesto socio-culturale e all'interno di quella che deve, comunque, essere considerata come la reazione a un momento di gravissima tensione del gruppo familiare considerato nel suo complesso".
È questo un punto assai importante "perché sarebbe impossibile giudicare il grado di maturità del Pelosi se non lo si valutasse all'interno del contesto familiare in cui egli è cresciuto e di cui, tuttora, egli subisce gli influssi. Ben note sono infatti a tutti i moderni studiosi dell'antisocialità giovanile, le connessioni esistenti fra il comportamento con cui quest'ultimo si manifesta fuori della famiglia e all'interno di questa, e l'atteggiamento fortemente contraddittorio nei confronti dei valori e degli orientamenti generali del gruppo sociale più vasto. Ben noto è, cioè, il fatto per cui il comportamento "antisociale" del figlio viene a essere regolarmente appoggiato, anche se in modo abitualmente del tutto in-consapevole, da una serie di comportamenti complessivi di un gruppo familiare che vive ed esprime al livello del figlio una complessiva situazione di difficoltà nei confronti dell'ambiente sociale più vasto". Non è semplice esprimere un giudizio sui comportamenti complessivi del Pelosi e della sua famiglia inquadrati all'interno di quello che è l'attuale livello di maturità della coscienza civile del Paese. Quali che siano le ragioni di questa arretratezza, in ogni caso. essa va tenuta presente "soprattutto se si tiene conto del fatto che le circostanze storiche e sociali in cui questo gruppo ha sviluppato il suo particolare tipo di orientamento e di valori costituiscono di fatto l'unica occasione offerta finora al Pelosi per progettare se stesso come individuo e come cittadino".
Non è sufficiente. quindi, proporre l'idea "per cui alla famiglia Pelosi, cioè quella particolare famiglia incarnata da quel padre e da quella madre, possa essere guardata come la causa di un comportamento inadeguato del ragazzo". In nessun caso, infatti, la famiglia può essere considerata come sistema "chiuso": "essa subisce infatti il condizionamento dell'ambiente alle cui esigenze deve continuamente adattarsi. La dipendenza sociale ed economica e la difficoltà di confrontare i propri sistemi di riferimento culturali con quelli dominanti all'esterno sono le cause più comuni di tensione tra la famiglia e l'ambiente. Specchio di contraddizioni che crescono fuori di lei, la famiglia ripropone nel conflitto tra padre e madre, tra genitori e figli, tutti i conflitti propri della gestione autoritaria del potere e le difficoltà legate alla mancata realizzazione dei suoi membri. È per questo motivo che le difficoltà di ordine psicologico e le manifestazioni di disadattamento non si distribuiscono a caso nella popolazione: le classi sfruttate sono sempre più colpite di quelle al potere.
Famiglie spezzate, alcolismo, tossicomanie, e manifestazioni diverse del disadattamento giovanile possono essere studiate proprio in questo senso come conseguenza delle pressioni di ordine socio- culturale sopportate da zone della popolazione mantenute in condizioni abituali di inferiorità. Osservata da questo punto di vista la famiglia può essere considerata come un sistema di trasmissione delle pressioni esercitate sull'individuo dall'ambiente sociale più vasto. Di questo essa infatti non trasmette solo i valori ma anche le contraddizioni, il disagio e la follia. È possibile dunque, al termine di tali considerazioni, guardare alla famiglia del Pelosi come al veicolo passivo e acritico di un pregiudizio diffuso nel più vasto ambiente sociale un pregiudizio che tende a connotare in termini dispregiativi il "diverso" e a veicolare nei suoi confronti tutto il rancore, l'odio e la incapacità di rappresentarsi obiettivi reali di critica e di protesta". La conclusione alla quale, sulla base delle considerazioni elaborate dal nostro consulente, perveniamo, è che "l'immaturità e il comportamento antisociale in cui esse si esprimono devono essere guardate come il risultato di un processo che coinvolge l'ambiente in cui il ragazzo è cresciuto e la complessiva immaturità delle strutture che ne hanno influenzato lo sviluppo e che non hanno potuto occuparsi altrimenti di lui.
Perché nessuno si è preoccupato del fatto che il minore abbandonasse la scuola? Perché nessuno è intervenuto nel momento in cui egli accettava di prostituirsi? Che diritto si ha oggi di chiedergli conto di un singolo gesto che costituisce il tragico epilogo di una storia possibile solo all'interno di una società che pretende di essere matura lasciando che i ragazzi come Pelosi affoghino nella apatia e nella indifferenza delle sue istituzioni?" Ecco le domande dalle quali noi ci siamo mossi e di fronte alle quali, in questa sede, ci fermiamo perché esse ci avviano verso spazi che non sono più patrimonio esclusivo del diritto. Ecco anche, però, il nodo che occorre sciogliere e che noi, qui, abbiamo solo potuto prospettare e valutare nei termini più obiettivi e critici che ci è stato possibile. Paradossalmente, sia pure partendo da così differenti assunti, siamo giunti alle medesime conclusioni dei periti d'ufficio. Pelosi è immaturo? Sì, ma solo se egualmente immature sono la società che lo ha prodotto, la famiglia che lo ha educato, e i valori che queste gli hanno proposto.
Accertare la sua maturità sarebbe soltanto un alibi per assolvere i veri responsabili di un delitto atroce, rinnovato e rinnovabile - sarebbe solamente un modo per dare ulteriore validazione a un processo sociale e culturale del quale Pelosi è, in fondo, anch 'egli vittima inerme. (segue) [3. Ricostruzione dell'assassinio] L'istruttoria dibattimentale ha offerto con sufficiente chiarezza un quadro che consente ora una ricostruzione dei tragici fatti in termini assai credibili e vicini alla verità, pur se ci si mosse all'inizio delle indagini tra infinite difficoltà e incertezze. È stata soprattutto la consulenza del prof. Durante che ha permesso una chiarificazione attraverso l'elaborazione logica e induttiva degli elementi non certo abbondanti che la situazione offriva. È nostra profonda convinzione di essere riusciti a fornire al Tribunale elementi di giudizio sufficienti al fine di giungere alle conclusioni indicate circa la volontarietà dell'omicidio e la pluralità degli esecutori. Qui desideriamo riassumere, sia pure sinteticamente e schematicamente, gli elementi che ci hanno condotto a tale convinzione e che nel corso dell'istruttoria dibattimentale hanno trovato ampio riscontro.
La volontarieta dell 'omicidio emerge con assoluta certezza da tutti gli elementi di sopralluogo e dalle risultanze stesse della perizia d'ufficio. che possono essere così riassunti:
1. La reiterazione dei colpi inferti fin dalla prima fase, che è provata da:
1.1. La camicia inzuppata di sangue: sia che si tratti di sangue "scolato" dalle ferite e sia che provenga da tentativi di Pasolini di "tamponarsi" le ferite, è un chiaro segno che le ferite stesse non erano banali, e soprattutto che non si trattava di una sola lesione. In particolare, la presenza di abbondante sangue sulle maniche avvalora l'ipotesi dei periti d'ufficio (scritta e ripetuta in aula) di una prima posizione di difesa del capo e di un probabile secondo tentativo di tamponamento dell'emorragia. In conclusione: i colpi debbono essere stati ripetuti. (Dai periti è stata negata, in aula, la possibilità di un imbrattamento nel movimento compiuto da Pasolini per togliersi la camicia: ciò in quanto essendo essa stata slacciata sul davanti non è passata sul capo.)
1.2. La presenza di capelli di Pasolini nel tragitto di fuga. Tale elemento indica la gravità delle lesioni oltreché il reiterare dei colpi durante la fuga, e prova inequivocabilmente che non era Pasolini a colpire Pelosi in fuga ma viceversa. Su questo elemento i periti in aula non hanno risposto con chiarezza avanzando addirittura la inaccettabile ipotesi del semplice strappamento di capelli a opera di "fissurazioni" del bastone. È già stato chiarito al Tribunale che la ciocca di capelli essendo stata rinvenuta a 8 metri di distanza dal cadavere (e cioè a circa 60 metri dal luogo ove fu inferto il colpo) non poteva essere in alcun modo attribuita a colpi inferti con la tavoletta "Buttinelli", perché tale tavoletta ha agito soltanto laddove fu rinvenuto il corpo, ove appunto sono visibili, sulle fotografie in atti, tutte le schegge del legno.
2. La reiterazione dei colpi inferti nella seconda fase, che è provata da:
2.1. La presenza di sangue e di capelli di Pasolini su tutte e due le su-perfici larghe e sui margini della tavoletta "Buttinelli" strappata dal cancello avanti al quale fu rinvenuto il corpo di Pasolini.
2.2. La emorragia cerebrale dai periti non attribuita al sormontamento ma ai colpi inferti con mezzi contusivi prima del sormontamento
. 2.3. Il calcio ai testicoli: è da precisare che si trattò di un così violento trauma da determinare una infiltrazione di sangue anche nei tessuti profondi come riportato nella perizia d'ufficio.
3. Il volontario sormontamento del corpo di Pasolini con le ruote dell'autovettura della stessa vittima, è provato da:
3.1. Lo spazio tra il corpo e la rete di recinzione situata sulla carreggiata destra opposta a quella ove fu rinvenuto il corpo era di circa 8 metri.
3.2. La distanza fra l'ultima buca e il corpo di Pasolini era di circa 8 metri.
3.3. Ifari accesi: e quindi visibilità piena dello spazio antistante la vettura.
3.4. La velocità non eccessiva del veicolo: l'ing. Capuccini nella sua perizia d'ufficio dice che la velocità era "relativamente elevata e probabilmente superiore a quella normalmente tenuta da un veicolo in manovra". Quindi il "relativamente elevata" è veramente molto "relativo" perché se rapportata alla velocità di un veicolo in manovra essa sarà stata di 10-15 km/h. A ciò aggiungasi che sempre l'ing. Capuccini nella sua relazione parla di: "lievi ammaccature nella zona inferiore sinistra... nonché nei condotti di scarico e nella parte anteriore e inferiore del primo silenziatore. Lievi tracce di strisciature si notano anche nella fiancata interna del secondo silenziatore nonché nella parte inferiore del serbatoio della benzina". Se si tiene conto di due fatti, veicolo non nuovo e presenza di due grosse buche (evidentissime sulle fotografie in atti), si può concludere con assoluta certezza che nel passare sull'ultima buca (a 8 metri prima del corpo di Pasolini) la velocità doveva essere veramente bassa. Infatti, anzitutto alcune ammaccature possono essere state preesistenti (vettura vecchia), e in secondo luogo una velocità superiore ai 10-15 km/h avrebbe prodotto, a causa della buca, ben più gravi ammaccature. Ciò vale in modo particolare per il tubo di scappamento nella sua parte terminale, che al contrario non presentava nessuna alterazione.
Dai punti 3.1, 3.2, 3.3, 3.4 si deduce facilmente la seguente dinamica: il Pelosi conducendo l'auto con fari accesi sulle due grosse buche a velocità molto bassa. esce dall'ultima buca e immediatamente si trova sulla destra una strada di 8 metri di larghezza e davanti all'auto uno spazio di 8 metri che lo separa dal corpo di Pasolini che giace assai vicino al bordo sinistro del bivio. È per il Pelosi facilissimo mantenere la primitiva direzione di marcia e, compiendo una lieve deviazione a destra sulla sua stessa strada, raggiungere la via asfaltata senza toccare né avvicinare il corpo di Pasolini. È inoltre molto importante ricordare che tra le stesse buche e la rete di recinzione (sulla destra) esiste un largo spazio. Quindi addirittura fin dal momento in cui l'auto si trovava nella zona precedente la buca, Pelosi aveva direttamente puntato l'auto sul corpo di Pasolini (il tutto è comprovato e documentato sulle fotografie).
[4. La presenza di più agressori] La presenza di più aggressori è comprovata dai seguenti elementi:
1. Entità delle lesioni preesistenti al sormontamento.
1.1. La certezza sulla genesi contusiva di alcuni gravi complessi lesivi del capo. Su questo punto valgono le affermazioni scritte e i verbali dei periti d'ufficio, i quali hanno soffermato la loro attenzione sulla lesione ad "H" (non si dimentichi che si tratta di un complesso di lesioni che nel loro insieme occupano una zona con diametri di 6 e 4 cm!), e sulle tre grosse lesioni situate nella zona del parietale di sinistra. I periti hanno affermato che, in relazione ai due mezzi rinvenuti, le lesioni suddette vanno forse attribuite al margine della tavoletta "Buttinelli" e ciò per la resistenza di essa e per il suo peso. Essi non hanno comunque escluso la possibilità di altri mezzi produttori di queste lesioni. A questo proposito va ribadito il concetto già accennato in aula dal consulente di parte civile: la tesi dei periti potrebbe essere valida qualora si fosse certi che la produzione delle lesioni stesse sia avvenuta davanti al cancello dei Buttinelli (seconda fase dell'aggressione) quando fu adoperata la tavoietta. Ma se così fosse non si spiegherebbe più la provenienza dell'abbondante emorragia verificatasi nella prima fase dell'aggressione e deducibile dal rinvenimento della camicia abbondantemente impregnata di sangue, nonché la perdita di ciocche di capelli di Pasolini lungo il tragitto della sua fuga: momenti nei quali fu usato soltanto il "friabile" bastone che gli stessi periti non hanno con sicurezza dichiarato idoneo a produrre quelle lesioni. Su questo punto si ricordino ancora due elementi: 1° la friabilità del bastone che si ruppe nel senso della lunghezza (lo ha ricordato ai periti lo stesso Tribunale addirittura precisando loro che una delle due metà era appena sporca di sangue e che quindi il bastone doveva essersi rotto subito!): 2° la relativa scarsa robustezza della stessa tavoletta che si ruppe dopo il primo colpo (deposizione del Pelosi, testimonianza di Buttinelli).
1.2. Le lesioni fratturative delle falangi (due fratture e una lussazione): anche su questo elemento i periti di ufficio non hanno tratto tutte le conseguenze logiche che da esso deriverebbero. Tuttavia si può avanzare il ragionevole dubbio che siano presenti altre lesioni fratturative alle braccia che per una mancata indagine radiografica particolareggiata di tutti i segmenti ossei non potranno mai essere escluse. Per quanto attiene alle fratture delle falangi, va affermata con decisione la più che verosimile azione di corpi contundenti ben più consistenti e pesanti della tavoletta.
1.3. La impossibilità di individuare altre lesioni gravi non dovute al sormontamento, ma verosimiglianza di una loro presenza. Tutti sono d'accordo, compresi i periti d'ufficio e compreso il consulente della difesa, che è pressocché impossibile distinguere altre gravi lesioni non dovute al sormontamento. Orbene: la verosimile loro presenza si basa fondamentalmente sulla constatazione anatomopatologica di una emorragia cerebrale che con certezza non è stata prodotta dal sormontamento (cosi affermano gli stessi periti), ma che è molto poco attendibile riferire soltanto al colpo che produsse la lesione ad "H". Per essere ancora più chiari: è un dato ormai inconfutabile che la lesione ad "H" è stata prodotta dalla tavoletta, ed è altrettanto indubbio che il grave sanguinamento durante la prima fase dell'aggressione debba essere attribuito a vaste lesioni del cuoio capelluto verificatesi per le lesioni al parietale sinistro. Se a questo punto si tiene presente un fatto sicuro, e cioè che Pasolini fuggì per 70-80 metri e che quindi non poteva essere già portatore di una emorragia cerebrale, come è possibile attribuire tale emorragia interna a uno o due colpi di tavoletta? Quindi in questo momento lesivo doveva esserci un altro mezzo ben più robusto della tavoletta. In conclusione, i corpi contundenti non rinvenuti hanno agito sia nella prima fase (determinando vaste lesioni con diffusa emorragia provata dall'insanguinamento della camicia) e sia nella seconda fase (determinando una emorragia cerebrale certamente verificatasi non nella prima fase di aggressione, poiché Pasolini non avrebbe avuto possibilità di percorrere un tragitto di 70-80 metri, e altrettanto certamente non attribuibile all'azione della tavoletta "Buttinelli").
2. La particolare vascolarizzazione arteriosa del cuoio capelluto. Tale constatazione è stata fatta dai periti anche in aula. Si ricordino alcuni elementi significativi: l'arteria temporale superficiale che decorre proprio sotto la cute ha un diametro di ben 3 mm. Quindi si è in presenza non di semplice "fuoriuscita" di sangue, bensì di "schizzi" e "zampilli" veri e propri
. 3. La scarsissimo imbrattamento dei vestiti di Pelosi con sangue di Pasolini. I periti hanno rilevato: 1° la presenza di una macchia di imbibizione rossastra interessante il polsino sinistro della maglia a carne (una zona di 3x4 cm). Da rilevare che non è una macchia intensa ma una "sbavatura", quindi o una primitiva piccola macchia lavata o una semplice striatura (chiarissima sulla fotografia in atti): 2° l'imbrattamento sulla parte terminale del pantalone di destra: si tratta solo di alcune macchie. Se per assurdo Pelosi si fosse lavato i vestiti, anche altre macchie sarebbero rimaste quantomeno sotto forma di striature e di sbavature; 3° la presenza di sangue sotto la suola di una delle scarpe di Pelosi. Tale elemento non contrasta con l'asserito scarso imbrattamento di sangue sul Pelosi per ovvie ragioni essendo stato, egli, sicuramente in prossimità del cadavere di Pasolini.
4. L'assenza di lesioni sul corpo di Pelosi. Su questo elemento va sottolineato: 1° quanto i periti d'ufficio affermano circa la lesione alla fronte: "Il mezzo lesivo deve aver comunque esercitato la sua efficacia lesiva in ogni caso di modesta entità in senso trasversale"; 2° che i medici della Pubblica sicurezza di Ostia parlarono di ferita da taglio, il che contrasta con l'azione di un bastone mancandovi ecchimosi ed escoriazioni; 3° che la regione frontale fu vista dai periti dopo quattro giorni e anche essi non vi rilevarono infiltrazioni ematiche circostanti. La lesione alla fronte occorre riferirla più verosimilmente a un urto contro il volante (mezzo a strettissima superficie e situato in senso trasversale rispetto al guidatore) anche per un'altra osservazione: se Pelosi avesse avuto la lesione frontale prima della fuga in auto è assurdo ritenere che, data la nota vascolarizzazione del cuoio capelluto e dato il sobbalzare dell'auto per le buche e per la fuga velocissima sulla strada asfaltata nonché per l'arresto immediato contro il marciapiede, non vi fosse maggiore imbrattamento del suo stesso sangue sulle superfici anteriori dei suoi vestiti. Fu invece rinvenuta una macchiolina sul bordo della canottiera e qualche macchiolina contro la tappezzeria dell'auto, davanti al volante. Anche quest'ultima disposizione delle tracce ematiche fa ritenere molto più attendibile la produzione della lesione frontale per urto contro il volante. Per quanto riguarda la frattura delle ossa nasali si può non avere alcuna difficoltà a ritenere verosimile quantomeno un pugno difensivo da parte di Pasolini. Comunque non è detto che la frattura sia con certezza riferibile a quella notte (lo hanno riferito gli stessi periti) ed essa inoltre bene si accorderebbe con il sicuro trauma cranio- facciale subito dal Pelosi al momento dell'arresto improvviso dell'auto contro il marciapiede. Ciò che è importante sottolineare è l'assenza assoluta su Pelosi di lesioni da afferramento come sono tipiche in una colluttazione a due (quantomeno una escoriazione o una contusione di un certo rilievo delle mani o delle braccia): tutto quello che lamentò il Pelosi nella visita a CasaI del Marmo i periti affermano che era soggettivo senza alcun riscontro obiettivo.
5. L'assenza di sangue di Pasolini all'interno della propria autovettura e sulla portiera di guida. Su questi elementi si può considerare l'opportunità di avanzare una nuova ipotesi mai prima accennata: l'auto non è stata spostata da Pelosi ma da un altro aggressore che ha ideato e posto in essere il sormontamento del corpo di Pasolini; solo successivamente alla guida dell'auto si è messo il Pelosi. Ciò avvalora ancor più l'ipotesi della presenza di altri aggressori. Infatti: Pelosi presentava poche tracce di sangue sulle mani così come tutti gli altri in quanto la molteplicità degli aggressori non ha permesso a Pasolini di difendersi mai validamente e di afferrarne mai alcuno, o al massimo gli ha permesso soltanto di raggiungere qualcuno degli aggressori (che al limite potrebbe essere lo stesso Pelosi) con un pugno scarsamente valido tanto da non lasciare tracce obiettive; essendo quindi solo contro più aggressori è stato ben presto sopraffatto e ha pensato soltanto a salvarsi fuggendo, ma raggiunto (certamente anche dal Pelosi) è stato colpito con la tavoletta (usata anche dal Pelosi) e con altri mezzi (questi ultimi giustificano la emorragia cerebrale) nonché dal calcio ai testicoli; poi, caduto a terra, probabilmente riceve un calcio da Pelosi che sporca così la sua scarpa destra e il fondo del pantalone dallo stesso lato; infine viene abbandonato ormai privo di coscienza (emorragia cerebrale). A questo punto gli aggressori raccolgono i due pezzi di tavola e il bastone e tornano all'auto: Pelosi entra dalla parte non della guida e, trattandosi di un'autovettura a due portiere, compie la mossa istintiva tipica di questi casi: con la mano destra afferra la maniglia e con la sinistra si appoggia sul tetto dell'auto là dove si rinvengono tracce del sangue di Pasolini. Il complice (adulto, e quindi più freddo nonché più scaltro) simula l'investimento di Pasolini; poi scende dall'auto e Pelosi prende il posto della guida fuggendo.
Questa ricostruzione, che a una analisi superficiale potrebbe sembrare alquanto romanzesca, in realtà è la sola che offre una giustificazione credibile di molti dati di fatto:
1°) spiega la contraddizione tra l'ingenuità di Pelosi e l'idea di simulare l'investimento che non è affatto un'idea ingenua;
2°) spiega la frase del Pelosi laddove dice di aver smesso di colpire Pasolini perché ormai lo vedeva a terra esanime e quindi lo riteneva morto; e quindi non ha capito neanche perché lo si dovesse sormontare con l'auto;
3°) spiega la presenza di tracce di sangue di Pasolini sulla parte destra del tetto dell'auto proprio in corrispondenza del limite posteriore della portiera di destra (dato obiettivo che nella prima ricostruzione del consulente di parte civile era posto in termini ancora problematici);
4°) spiega l'assenza di sangue di Pasolini all'interno della sua auto dato che trattandosi di più aggressori nessuno di essi era seriamente imbrattato di sangue neanche sulle mani, ma ne poteva avere soltanto qualche traccia per avere toccato i mezzi contundenti;
5°) spiega, infine, l'assenza di grossi imbrattamenti di sangue di Pasolini sui vestiti del Pelosi perché nella dinamica di un'aggressione compiuta da più persone c'è chi sta più vicino, o meglio chi vi partecipa più attivamente, e chi no. Tale ipotesi trova la sua base sugli elementi oggettivi che spiegano incongruenze, lacune e contraddizioni e che tuttavia non si contrappongono alla tesi della volontarietà dell'omicidio. Questa, infatti, attiene all'autore del delitto chiunque esso sia. Se l'omicida è Pelosi questa è soltanto una ipotesi e ferma resta la certezza della sua volontà omicida. Se Pelosi non è invece il solo omicida, la volontarietà va attribuita ad altri e, pur tuttavia, Pelosi resta comunque, e forse in forma ancor più grave, compartecipe lucidamente cosciente dell'omicidio.
[5. La personalità e il mondo ideale di Pasolini]
Non possiamo, infine, chiudere queste note senza ricordare la personalità e il mondo ideale di Pasolini, il suo atteggiamento verso il problema della violenza, verso i diseredati, verso i potenti, e che cosa egli è stato nella nostra cultura con le sue opere, le sue tensioni morali, il suo impegno civile.
"In tutta la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza, né fisica, né morale. Non perché io sia fanaticamente per la nonviolenza. La quale, se è una forma di auto-costrizione ideologica, è anche essa violenza. Non ho mai esercitato nella mia vita alcuna violenza, né fisica né morale, semplicemente perché mi sono affidato alla mia natura, cioè alla mia cultura..."
Questa dichiarazione prelude in modo conciso ma significativo a un inedito che Pasolini volle pubblicare nell'ambito di quella anomala ma così indispensabile raccolta pubblicistica Scritti corsari destinata a suggellare la sua composita opera poetica - i più non lo hanno ricordato, ma, dalla letteratura più intima e clandestina al cinema più pubblico e popolare, Pasolini è rimasto saldamente poeta - con la netta impronta del reale e del quotidiano. Un confronto arduo e sofferto, ma sempre a viso aperto, con i fatti, con gli amici, con i nemici, con gli amici-nemici.
Monologo o dialogo che fosse, è stato sempre più fitto e serrato, tanto da far della sua vita un apologo, culminato tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre dello scorso anno. In modi che qualcuno ha definito persino "maniacali", Pasolini si batteva contro la brutale "omologazione totalitaria del mondo" oggi in atto - cioè contro quel processo consumistico-edonistico che avrebbe travolto l'individuo sino a trasformarlo in cosa: una povera cosa era infatti il corpo del giovane Antonio Corrado, ucciso a colpi di pistola nella notte fra il 29 e il 30 ottobre 1975 nel quartiere romano di San Lorenzo, vittima inconsapevole di una vendetta fascista, ammazzato al posto di un giovane extraparlamentare di sinistra perché stessa era la via, stessa la barba, stesso il soprabito; due giorni dopo, un'altra efferata violenza avrebbe ridotto anche Pasolini a una cosa senza vita, in quella notte fra il 1° e il 2 novembre cominciata proprio nelle vie di San Lorenzo, percorse a capo chino "perché si vedono facce terribili in giro, prive d'espressione": la morte, arrivata per mano di un ragazzo-oggetto che forse sa o forse non capirà mai fino a che punto è stato tale.
Come dice Jean Paul Sartre, può darsi che Giuseppe Pelosi guardasse. sebbene con acerba inconsapevolezza, all'omosessualità come a una "tentazione costante e costantemente rinnegata, oggetto del suo odio più profondo", ma forse la sua insicurezza non poteva ancora permettergli di "detestarla in un altro perché in questo modo si ha la possibilità di distogliere lo sguardo da se stessi".
Suo padre sì, il suo contesto sì, possedevano questa ottusa e tronfia consapevolezza, e lui avrebbe preso la sua "patente" e la sua "maturità" in questo senso, nel modo più viscerale, senza sapere che ormai la società sembra "tollerare" il diverso, o forse avvertendo con il suo ultimo, definitivo sentimento che Pasolini "aveva capito che era intollerabile, per un uomo, essere tollerato". È tragicamente singolare ritrovare oggi tutto questo in un articolo scritto da Pasolini più di tre anni fa, il 7 gennaio del 1973, sulle colonne del "Corriere della Sera":
"Le maschere ripugnanti che i giovani si mettono in faccia, rendendosi laidi come vecchie puttane di una ingiusta iconografia", scriveva lo scomparso, "ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre... Cioè la condanna radicale e indiscriminata che essi hanno pronunciato contro i loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre... Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione): ma ormai migliaia e centinaia di migliaia di facce di giovani italiani assomigliano sempre più alla faccia di Merlino
[nota: il 'trasformista' ideologico, il personaggio più sordidamente emblematico di tutta la vicenda della strage del 12 dicembre del '69 a Piazza Fontana]...".
Un apologo forse incompiuto, ma certo terribilmente concluso nel momento in cui il suo cuore ha cessato di battere, il suo sguardo di svelare, la sua coscienza di fremere.
Sì, perché dal 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini ha cessato di esistere, e nei discorsi degli amici, in quelli dei nemici e in quelli degli amici-nemici, si è sempre sentita da allora, in modo grave, la sua mancanza, per non parlare di quanto la sua personalità sia assente nell'ingrato epitaffio offerto da questo delitto, e nel troppo intorbidito e controverso ricordo degli ultimi, drammatici momenti della sua vita, raccolti dagli impietosi occhi e orecchie di chi c'era, di chi non c'era, di chi poteva o di chi voleva esserci. Il cadavere di Pasolini è stato divorato dalla nostra società e dal nostro tempo: è questa la nemesi che chiude, come per un'esauribile regola narrativa, l'apologo. Si può ricordare qualcuno che non c'è più e talvolta lo si è fatto senza offesa né tradimento. Per colui che ha lasciato di sé l'impronta marcata della sua opera, poi, ciò sembrerebbe addirittura più semplice visto che ci sono i documenti a parlare in sua vece.Nonostante la incommensurabile e gravosa eredità che egli ci affida, o forse persino a dispetto di questa, Pier Paolo Pasolini ci ha precluso la via del ricordo, e ce ne siamo resi conto fin dal momento del più acuto dolore per la sua scomparsa, davvero profondamente tale perché "perdita e basta". Sia pure in una interpretazione esoterica, Pasolini è stato più volte definito "un testimone provocatorio", ma la sublime maledizione non è stata dettata né da un narcisismo del poeta, né dall'estro reclamistico dì un editore: c'era in questa sorta di slogan una verità istintiva, immediata, quasi epidermica, ma profonda e implacabile proprio come lo sono i messaggi stereotipi della pubblicità, che devono prima colpire, poi manipolare le nostre insoddisfazioni. Tutti ricordiamo come Pasolini seppe reperire nell'ineffabile inventiva consumistica dei "Jesus jeans" la crepuscolare parabola di un potere ciclopico, perché "il linguaggio dell'azienda è un linguaggio per definizione puramente comunicativo:
i "luoghi" dove si produce sono i luoghi dove la scienza viene "applicata", sono cioè i luoghi del pragmatismo puro. I tecnici parlano un gergo specialistico, sì, ma in funzione strettamente, rigidamente comunicativa. Il canone linguistico che vige dentro la fabbrica, poi, tende a espandersi anche fuori: è chiaro che coloro che producono vogliono avere con coloro che consumano un rapporto d'affari assolutamente chiaro" ("Corriere della Sera", 17 maggio 1973).
Nelle due parole "testimone provocatorio" c'è prima un elemento-chiave che illumina non tanto la personalità di Pasolini quanto, essenzialmente, il suo rapporto fondamentale con la collettività, poi segue la registrazione "a caldo" di una sensazione rapida, ancora da codificare, che è appunto quel "provocatorio". Sovente, di un individuo in qualche modo "pubblico" si azzardano legittimi pronostici, e la gara per decifrarne con anticipo i pensieri e le reazioni di fronte a questa o a quella questione può risultare finanche poco vivace.
Per Pasolini questo gioco non si metteva in moto; per lui no, oseremmo dire per lui solo. È stata questa sua caratteristica a fargli conquistare sul campo l'aggettivo "provocatorio", che è un giudizio ottuso ma sincero, disarmante nella misura in cui ognuno potrà leggerlo, positivamente o negativamente, secondo la prospettiva preferita, senza tuttavia mai afferrarlo veramente. Immune come per natura dal tumore conformista (in realtà, questa sua vittoria molto personale è stata sofferta, come ben si può immaginare, poiché solo un lucido, costante e dolente esame della realtà può far sì che le impennate non finiscano prima o poi nella trappola dell'anticonformismo di maniera, o nella retorica del "bastian contrario" con cui si tappa la bocca al dissenziente fino a fargli provare il senso di colpa per la propria "anormalità", una colpa che quasi sempre prende il sopravvento sui suoi slanci), Pasolini, pur non discostandosi mai da una sua logica ostinatamente vigile, ha sempre generato, con le sue reazioni, stupore. E quest'ultimo dapprima ha coinciso con una diffusa ostilità, che mal celava quella pressoché unanime cecità culturale sempre pronta a sbarrargli il cammino, ma poi la volontà di "resistere alla provocazione" ha via via lasciato il posto a graduali, sempre più estese prese di coscienza, in un Paese che fatalmente proprio nel moltiplicarsì dei disagi e degli stenti vede più chiaramente il proprio cammino.
Non è casuale, infatti, che dal 1968 il poeta abbia progressivamenie intensificato i suoi interventi, dando sempre maggiore incisività ai suoi bersagli, divenuti tremendamente congrui, e infittendo le schiere degli amici (quei movimenti politici e culturali che della sua presenza hanno sentito il bisogno: tutti coloro che con lui hanno voluto dialogare al di là delle polemiche devianti o persino delle divergenze di fondo) e dei nemici (i depositari o i servi di un potere che prima lo ha disprezzato quale intellettuale e quale omosessuale confinandolo ai margini, poi, comprendendo l'inutile sforzo di rinchiuderlo in un ghetto, ha voluto mostrargli i denti). Né gli uni né gli altri potranno ricordarlo al presente, tuttavia, perché il suo pensiero era in costante divenire e si sottraeva a qualsiasi schema: traeva linfa dalla vita, e ne accettava le più orride beffe, ne condivideva le contraddizioni pesanti da portare. Pasolini non coltivava utopie sorde, e questo tratto così semplice e fermo è stato arduo da accettare per chi lo ha accusato di "voler tornare indietro". di "rimpiangere il passato", perché chi l'ha detto o solo pensato non potrà mai confessare, in primo luogo a se stesso, la disperata fragilità del proprio, preventivato futuro. Con la sua presenza, Pasolini era egli stesso l'utopia, in quanto veicolo dialettico di un'era, e di alcune generazioni. Il "testimone" si poteva arrestare solo con la morte. Ora la coscienza pubblica, straziata e straziante, di un'epoca tace, e chi ha tanto invocato il silenzio non può dolersene. Sul "Corriere della Sera", il 30 gennaio 1975. Pasolini ammoniva sé e noi a questo proposito:
"... La mia vita sociale in genere dipende totalmente da ciò che è la gente. Dico "gente" a ragion veduta, intendendo ciò che è la società, il popolo, la massa, nel momento in cui viene, esistenzialmente (e magari solo visivamente) a contatto con me. È da questa esperienza esistenziale, diretta, concreta, drammatica, corporea, che nascono in conclusione tutti i miei discorsi ideologici..."
Dal 2 novembre 1975 la memoria si è dimostrata infatti ingrata, e con lui e con noi: non ha saputo darci i mezzi per farlo rivivere, perché non poteva e mai potrà. Lo abbiamo notato nella lode o nell'infamia di tanti suoi improvvisati biografi, quasi tutti, ciascuno a suo modo, rifugiatisi nella più arida convenzionalità. Sono risbucati fuori anche i rappresentanti di un livore e di una rozzezza che credevamo, peccando di presunzione, estinti. Pasolini li conosceva bene, sono coloro che usano l'aggettivo "squallido" ("... cioè l'aggettivo di sempre, sistematicamente, meccanicamente, canagliescamente usato negli articoletti di cronaca di tutta la stampa italiana..."), irriducibili perché anonimi portavoce di quella "ltalietta, paese di gendarmi" che il poeta non avrebbe mai dimenticato:
 "... Mi ha arrestato, processato. perseguitato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane non può saperlo... Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l'angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l'arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose relative alla sua persona..." (da '"Paese Sera", 8 luglio1974).
Forse l'unico frammento di memoria che potrebbe restituirci, almeno per un attimo. Pier Paolo Pasolini vivo, è il suo film Salò o le centoventi giornate di Sodoma, che egli aveva configurato come un elemento di rottura spontanea con le sue opere precedenti, nell'intento di fondere il "testimone" e "l'artista", alla ricerca di una leggibilità esplicitamente attuale, fatta di riflessioni ma anche di carne e di sangue. Ma questo film il popolo italiano, considerato "immaturo" dai suoi "tutori", pare che non possa vederlo e discuterlo. È questo l'ultimo sopruso, l'ultima violenza dell'esistenza-apologo di Pier Paolo Pasolini e, per lo meno in questo caso, il sopruso e la violenza hanno l'inequivocabile, inconfondibile sapore della "ufficialità".
 
6. ["Il romanzo delle stragi"]
C'è un'altra memoria, però, che terrà in vita Pier Paolo Pasolini. È la memoria di una strana Storia, che raramente accede all"'ufficialità" poiché troppo alternativa rispetto a questa, ma non riesce tuttavia a spegnersi negli occhi e nella mente degli uomini che cercano, pensano, sanno, dibattono. Il 14 novembre del 1974, Pasolini scrisse quello che chiamò Il romanzo delle stragi:
 "Io so. lo so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). lo so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. lo so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).
lo so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killers e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. lo so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore. che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace, che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il "progetto di romanzo" sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il l968 non è poi così difficile...".
Infatti, non bisogna necessariamente essere intellettuali e romanzieri per acquisire le stesse consapevolezze che armavano quel giorno la penna di Pasolini, dal momento che milioni di italiani "sanno" e manifestano ogni giorno nelle piazze, nelle fabbriche, nelle scuole, ovunque, un dissenso che è il frutto di questa consapevolezza. Allo stesso modo noi sappiamo chi sono, tra le quinte di questo apologo, i mandanti e gli esecutori "ideali" dell'assassinio di Pasolini, come lo sapeva quella folla di romani che lo ha salutato, con dolore e con rabbia, per l'ultima volta nella camera ardente a Campo de' Fiori. Quella folla così eterogenea, così "romanesca e inattendibile" perché così popolare, sapeva e sa. Ma come noi non ha le prove. Solo qualche indizio.

Avv. Guido Calvi Interrogatorio del 2 novembre 1975 dell'imputato Giuseppe Pelosi
"Mi trovavo con gli amici Salvatore, Claudio e Adolfo detto "Lo Sburacchione" perché ha il viso pieno di forungoli, di cui non conosco i cognomi e che però sono in grado di rintracciare, alla Stazione Termini verso le ore 22; ci si è avvicinato un signore con gli occhiali sui 35-50 anni, col volto magro, di media statura, a bordo di un'autovettura. Il signore era a bordo dell'auto "Alfa Romeo GT" sulla quale sono stato poi trovato e arrestato questa mattina. Sceso dall'auto venne incontro a un mio amico.
In particolare quel signore ha parlato con l'amico Adolfo e ho sentito che gli diceva: "Ci facciamo un giro?" Il mio amico rideva e io ho capito che quel signore era un "frocio". lo mi sono allontanato e sono andato al chiosco-bar di piazza dei Cinquecento all'angolo con piazza Esedra.
Dopo pochi minuti quel signore è arrivato in macchina davanti al bar, è sceso dall'auto e mi è venuto incontro. Io mi trovavo sulla porta. Ha fatto anche a me la proposta di fare un giro in macchina dicendo che mi avrebbe fatto un bel regalo. Non mi ha fatto proposte concrete anche se io avevo più o meno capito che cosa volesse da me.
Mi ha portato in una trattoria vicino alla Basilica di San Paolo, e precisamente sul raccordo che conduce sul viale Marconi e sullo svincolo per Ostia Lido. Mi ha detto che era un cliente della trattoria, infatti lì lo salutavano tutti.
La trattoria era deserta ma il personale proprio perché era cliente [...] di questo signore che diceva di chiamarsi Paolo. Io ho mangiato perché avevo fame, lui ha soltanto bevuto una birra. Nell'osteria non mi ha fatto proposte ma mi ha parlato amichevolmente, ha voluto sapere del mio lavoro. Siamo stati insieme dalle ore 23 alle 23.20 nella trattoria, poi siamo risaliti in macchina. Il signore ha fatto benzina presso un Selv Serv e poi ha preso una strada, anzi precisamente l'Ostiense, e cioé quella alberata e con reticolati. Strada facendo mi ha detto che mi avrebbe portato in un campetto isolato, che mi avrebbe fatto qualcosa e che mi avrebbe dato lire 20.000. Nel dire questo mi toccava le gambe e poi giungeva ad accarezzarmi i genitali. Mi ha portato direttamente, come se conoscesse perfettamente i posti, al campo sportivo.
" A questo punto il dottor Masone precisa che il luogo del delitto e costituito da una radura adiacente al campo sportivo dove figura anche una porta e che era attrezzata rudimentalmente per il gioco del calcio. Dentro questa porta è stato rinvenuto un maglione intriso di sangue e una tavola recante l'indicazione ''via dell'Idroscalo n° 93" spezzata in due tronconi in senso longitudinale e macchiata di sangue. Il corpo del Pasolini e stato trovato a 100-150 metri dalla anzidetta sul viottolo in terra battuta che conduce al campetto di fortuna partendo dalla strada asfaltata.

L'imputato dichiara:

"Il luogo è quello descritto, e preciserò meglio quello che ivi è accaduto. Ricordo infatti che il Paolo lasciò la strada asfaltata e si addentrò in un viottolo a terra battuta, e si è fermato con l'auto vicino alla porta da calcio. Ricordo che in vicinanza c'erano delle baracche in muratura. Inizialmente, in macchina, il Paolo mi ha preso il pene in bocca per un minuto circa ma non ha completato il 'bocchino" dicendo di uscire fuori dall'auto.
Mi ha fatto poggiare a una rete metallica di recinzione e mi è venuto dietro premendosi a me da dietro e cercando di abbassarmi i pantaloni. Io gli ho detto che la smettesse e lui invece ha raccolto un paletto del tipo di quelli che recingono i giardini e voleva infilarmelo nel sedere, o perlomeno me lo ha appoggiato contro il sedere senza nemmeno abbassarmi i pantaloni. lo ho afferrato un pezzo di legno, mi sono girato e gli ho detto: "Ma che ti sei impazzito?" Il Paolo si era tolto gli occhiali che aveva lasciato in macchina, e nel vederlo in viso mi è sembrato con una faccia da matto tanto che ne ho avuto proprio paura. Io sono scappato in direzione della strada asfaltata sul terreno fangoso mentre il Paolo mi inseguiva. Siccome portavo ai piedi le stesse scarpe con i tacchi alti che ho in questo momento, ho inciampato e sono caduto.
A questo punto mi sono sentito addosso il Paolo che si agitava alle mie spalle, io ho capito che voleva ricominciare e mi sono rigirato divincolandomi, e allora il Paolo mi ha colpito alla testa col bastone proprio nel punto dove ho il cerotto e dove mi è stato dato un punto di sutura al Pronto soccorso. Io a mia volta dopo avere ricevuto il colpo ho afferrato il bastone con le due mani e sono riuscito a scaraventare lontano da me il Paolo. Sono nuovamente fuggito e sono stato nuovamente raggiunto; il Paolo mi ha colpito col bastone, ora ricordo, era un paletto verde, e mi ha colpito alla tempia, alla testa e in varie parti del corpo. Io ho visto per terra la tavola con la scritta di cui ha detto prima il dottor Masone e gliela ho rotta in testa, ma questo non e servito a farlo smettere. Sembrava che non avesse sentito niente e sembrò non sentire nemmeno due calci nelle "palle". Allora gli ho afferrato i capelli, gli ho abbassato la faccia e gli ho dato due calci in faccia. Il Paolo barcollava ma ha trovato ancora la forza di darmi una bastonata sul naso. Allora non ci ho visto più e con uno dei due pezzi della tavola di cui ho detto prima l'ho colpito di taglio più volte finché non l'ho sentito cadere a terra e rantolare. Allora sono scappato in direzione della macchina portando con me i due pezzi di tavola che ho buttato e anche il paletto verde che ho pure buttato vicino alla rete e vicino alla macchina.
Subito dopo sono salito in macchina e sono fuggito con quella. Ero stravolto e ho impiegato del tempo per metterla in moto e per accendere le luci. Nel fuggire non so se sono passato o meno con l'auto sul corpo del Paolo. Descrivo le manovre che ho fatto con l'auto. L'auto era col muso rivolto alla rete di recinzione e con il "culo" alla porta di calcio.
Ho ingranato la retromarcia e sono passato sotto la porta, e poi ho fatto la conversione curvando a sinistra".
Il dottor Masone a questo punto precisa che la manovra descritta corrisponde piu o meno alle tracce rinvenute sul luogo.
"Ripeto che nel guidare non ho fatto caso a nulla: la macchina sobbalzava perché il terreno era pieno di buche".
 Il dottor Masone, a questo punto, a richiesta del magistrato precisa che parte del tragitto percorso dall'auto presenta effettivamente accidentalità del terreno, ma che il punto in cui è stato trovato il cadavere è invece piuttosto regolare anche se in terra battuta.
Il colonnello Vitali a questo punto, fa presente che in base alle ultime ispezioni dell'auto di cui gli è stata data notizia dal personale operante, risulterebbero tracce di sangue e di capelli nella parte inferiore esterna dell'auto "Alfa GT" del Pasolini.
Contestato quanto sopra all'imputato, lo stesso dichiara:
"Io non ho investito volontariamente il corpo del Paolo e nemmeno ricordo di esserci passato sopra con l'auto inavvertitamente. Ero sotto shock e non capivo niente. Ricordo solo che sulla strada alla prima fontanella mi sono fermato per lavarmi e togliermi le macchie di sangue che avevo indosso".
Il colonnello Vitali riferisce, per quanto appreso a sua volta dal personale operante, Carabinieri di Ostia, che subito dopo l'arresto il Pelosi chiese di cercare in macchina un anello, e che un anello fu poi rinvenuto vicino al cadavere.
Contestata la circostanza, il Pelosi risponde:
"Io cercavo le sigarette, l'accendino e un anello mio: si tratta di un a-nello d'oro con pietra rossa, a fianco della pietra ci stavano due aquile e tutt'intorno la scritta "United States of America"".
A questo punto il dottor Masone esibisce l'anello repertato che il Pelosi riconosce per proprio e dichiara che "può darsi" che I'abbia perso mentre vibrava i colpi. Si fa presente che la scritta è lievemente differente e che dice esattamente "United States Army".
L'imputato dichiara:
"L'anello è mio, l'ho comprato da uno "stuart" che lo ha portato dall'America. Ripeto che i fatti sono quelli da me narrati e che ho agito per difendermi e che ho colpito duramente quando ho avuto l'impressione che il Paolo mi volesse proprio ammazzare per come si stava comportando. Durante i fatti che ho descritto ero solo, anzi siamo stati sempre solo io e il Paolo dal momento in cui abbiamo lasciato l'osteria fino a quando è successo quello che è successo".
A domanda risponde:
"Delle persone di cui ho detto fornisco i dati che possiedo: Claudio si chiama Seminara e abita in via [...], lo "Sburacchione" si chiama Adolfo De Stefanis e abita, credo, in via [...], di Salvatore ignoro il cognome, so che abita verso la Batteria Nomentana".
Oriana Fallaci - Deposizione del 2 dicembre 1975
A domanda risponde:
"Ebbi i primi accenni in ordine all'eventualità che il Pasolini non fosse stato ucciso solo dal Pelosi, ma anche da due motociclisti, e che ciò fosse stato visto da qualcuno, e che l'iniziale versione raccolta dalla S.V. non fosse quindi esatta, da una giornalista americana del "Chicago Tribune", Kay Withers, che ritengo abiti a Roma e che a sua volta riferiva voci provenienti da due giornalisti dell'agenzia "Reuter". All'inizio non detti peso all'accenno, ma il racconto tornò alla mia memoria allorché ebbi un incontro con una persona che mi dette la narrazione sulla morte di Pasolini da me riportata nell'articolo "Ucciso da due motociclisti?" su "L'Europeo".
Prima della pubblicazione dell'articolo. e anche per ottenere il giudizio di un collega e per approfondire i fatti, volli avere un altro colloquio con l'individuo alla presenza del dott. Libero Montesi, vice-direttore della rivista a Roma: ma alle nostre sollecitazioni per ottenere dall'informatore il nome del testimone che dalle baracche avrebbe visto, la notte dell'assassinio, lo svolgimento dei fatti, egli si dimostrò spaventatissimo e rifiutò dichiarando che il testimone si sarebbe rifiutato di parlare con chiunque perché aveva paura e non avrebbe parlato nemmeno "coperto d'oro". Anche l'invito rivolto all'informatore affinché anche per scritto anonimo o telefonata il giornale potesse acquisire maggiori conoscenze, non ebbe successo, né ebbero successo ulteriori tentativi di persuasione.
Noi cercammo di appurare altre notizie dal direttore della "Reuter", che disse di non sapere nulla. La Withers mi riferi poi, o almeno così dedussi da una successiva conversazione con lei, che uno dei due giornalisti della "Reuter", da lei interpellato, le aveva detto di aver letto le voci relative sulla stampa.
Non sono in grado di dare indicazioni sul Gianfranco Sotgiu (generalità che io ricavai dal passaporto da lui esibitomi) e che venne a parlare con me: era un uomo magro, di media statura. di età tra i 25 e i 30 anni. con i capelli scuri e con leggere inflessioni romanesche nell'accento.
Voglio precisare che circa la persona che mi informò, e che desidero che si indichi sempre come persona senza precisazione di sesso (intendo in tal modo che si rettifichino i punti del verbale in cui la si indica con la qualificazione maschile) non ritengo di fornire alcun particolare, considerandomi vincolata dal segreto deontologico. La indicazione di Stella Angeletti Di Martino la ricavai dal "Paese Sera".
Aggiungo a richiesta della S.V. che la persona che ci informò non volle alcun compenso. Dopo la pubblicazione del mio primo articolo ebbi una conversazione nel mio ufficio con il Malusà Libero, il quale mi offriva una sua personale ricostruzione dei fatti. Anzi preciso che tale persona non si qualificò, e che il nome di Malusà Libero mi viene fatto dalla S.V. Aveva comunque una barba biondiccia che gli ricopriva la parte inferiore del viso. Non mi parve persona attendibile e quindi al più presto la congedai, anche perché il suo rifiuto a qualificarsi e a fornire le ragioni del suo interessamento mi lasciarono perplessa."



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Curatore, Bruno Esposito

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I sei errori della polizia

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



I sei errori della polizia di Gian Carlo Mazzini


Una serie di errori ha intralciato il normale svolgimento delle indagini sulla morte di Pasolini, nelle prime quarantott'ore dopo il delitto.
Solo una coincidenza fortunata, il posto di blocco sul lungomare di Ostia dei carabinieri, ha permesso di mettere le mani su Pelosi, confessatosi in un primo tempo ladro di auto, poi assassino. Se la gazzella dei carabinien non avesse bloccato l'Alfa GT che aveva imboccato a folle velocità una direzione vietata, adesso probabilmente saremmo molto più lontani dalla verità. E, in fondo, non ci sarebbe poi troppo da meravigliarsi, pensando a come si sono mossi e intralciati polizia e carabinieri nelle prime indagini. Solo da giovedì 6 novembre, a settantadue ore di distanza dal ritrovamento del cadavere di Pier Paolo Pasolini, la collaborazione delle forze dell'ordine è diventata più stretta: da quando cioè, anche loro, hanno capito che i punti oscuri, i dubbi e le incertezze erano troppi e che il fatto di avere sotto chiave l'autore confesso di un omicidio, un cadavere e le armi di un delitto, non erano sufficienti a far archiviare la "pratica" Pasolini classificandola come omicidio nel mondo del vizio. Almeno sei errori costellano le prime indagini. Li elenchiamo.

 1. Alle 6.30 di domenica mattina 2 novembre arrivano su una stradetta di terra battuta all'idroscalo tra Ostia e Fiumicino due Giulia della polizia, avvertita della presenza di un cadavere dal figlio di un proprietario delle baracche che sorgono nella zona. Trovano una piccola folla intorno al corpo, che non pensano minimamente d'allontanare.
Tantomeno circondano la zona per bloccare il passaggio. Alle 9 infatti nel rudimentale campo di calcio, a pochi metri dal cadavere di Pasolini, almeno una ventina di ragazzi in magliette e pantaloncini sono impegnati in una partita di pallone che ogni tanto esce dal rettangolo di gioco e che viene rimandato a calcioni dagli stessi agenti. Pochi metri dietro una delle due porte, quella a sud, l'esame sommario del terreno fa scoprire un bastone rotto, insanguinato, con tracce di capelli e cuoio cutaneo e la camicia di Pasolini imbrattata inverosimilmente di sangue sulle spalle fino alla cintola. Tutte le altre eventuali tracce sono andate perdute dal passaggio di macchine e pedoni diretti o alle altre baracche o al campo di gioco, oppure da curiosi. È stato impossibile fare i calchi dei copertoni della macchina di Pasolini e ricostruire l'itinerario. Come non si è potuta accertare la presenza di altre macchine o motociclette.

 2. Nessuno ha pensato di tracciare sul foglio quadrettato a disposizione degli inquirenti i punti esatti dei vari ritrovamenti, che di solito vengono contraddistinti da lettere dell'alfabeto. I carabinieri intanto avevano trasferito Pelosi, confessatosi ladro della GT metallizzata, al carcere per minorenni di Casal del Marmo (appena arrivato in cella, pare che lo stesso Pelosi si sia vantato con i suoi compagni di aver ammazzato Pasolini), e cercavano sulla macchina un anello che Pelosi aveva detto di aver perso.
Alle 9 circa è arrivata alla stazione dei carabinieri di Ostia la segnalazione che era stato trovato Pasolini assassinato. E lì, all'Idroscalo, mandano una pattuglia a cercare l'anello di Pelosi: l'aveva raccolto un maresciallo della polizia di Ostia che se l'era messo in tasca. In quale punto lo aveva trovato? La risposta non può essere stata che vaga. Fino alle 9, insomma, i carabinieri avevano un ladro di auto con la macchina, e la polizia un cadavere che non sapevano com'era arrivato sul luogo.

 3. Fino a giovedi, la macchina di Pasolini era sotto una tettoia nel cortile di un garage dove i carabinieri di solito ricoverano le macchine sequestrate, aperta e senza sorveglianza. Del resto era solo la macchina rubata da un ladro. Chiunque avrebbe potuto mettere o levare indizi, lasciare o cancellare impronte. Alla squadra scientifica è arrivata solo giovedì.

 4. Sul luogo del delitto, la polizia è ritornata solo nella tarda mattinata di lunedi 3 per tentare una ricostruzione del caso, ma senza nessuna misura precisa, con le tracce ormai inesistenti, e ha tentato di ricostruire sia l'investimento mortale di Pasolini che la fuga di Pelosi non con l'Alfa GTdel morto ma con una normale Giulia. Ora, la strada dov'è stato ritrovato il corpo di Pasolini è percorsa longitudinalmente da profondissime buche, che, a detta di esperti, è quasi impossibile superare con una GT notevolmente bassa senza toccare il terreno almeno con la coppa dell'olio. La notte tra domenica e lunedì, infine, la zona non era vigilata.

 5. Solo da giovedì gli investigatori hanno cominciato a interrogare gli abitanti delle baracche o i frequentatori della Stazione Termini. Perché? Avevano archiviato tutto? Consideravano chiuso il caso? Non li interessava andare più a fondo nelle indagini?

 6. Sul luogo del delitto non è mai stato chiamato il medico legale.
È chiaro che polizia e carabinieri, certi di trovarsi di fronte a un normale caso di omicidio a sfondo sessuale, con l'assassino già in carcere, hanno ritenuto superfluo ogni accertamento sul cadavere che poteva invece servire per le successive indagini. Queste, ora, ripartono più o meno da zero. L'ipotesi che a uccidere Pasolini non sia stato solo Pino Pelosi si fa strada anche negli inquirenti. Le testimonianze raccolte dall"'Europco" non sembrano più nemmeno ai poliziotti così fantastiche. Così come un delitto che sembrava solo quello di un ragazzo di vita prende un'altra consistenza.