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venerdì 12 aprile 2013

Pasolini e l'Officina della poesia

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



L'Officina della poesia
di Gianni D'Elia

«Officina», «fascicolo bimestrale di poesia», redatto a Bologna dal 1955 al 1959, uscì in due serie: la prima di dodici numeri; la seconda di due, edita da Bompiani. Una ristampa anastatica è uscita dall’editore Pendragon, nel ‘93 (Via Artieri 2, 40125 Bologna, tel. 051/267869, fax 051/263572). Il volume antologico sulla rivista curato da Gian Carlo Ferretti è edito da Einaudi: «Officina», Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta. I magnifici sei redattori erano: Pasolini: Roversi, Leonetti, Romanò, Scalia e Fortini, scomparso nel maggio 1994 (Pasolini nel 1975, Romanò nel 1989).


Mi ricordo l’incontro tra la generazione politica (e illetterata) che eravamo noi, usciti dalla sconfitta dei movimenti giovanili in Italia dopo il ’77, e la generazione letteraria della critica poetica di impronta marxista, che erano loro, quelli di «Officina», la rivista bolognese uscita tra il 1955 e il 1959, a opera di Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi, Francesco Leonetti, a cui si  aggiunsero Angelo Romanò, Gianni Scalia e Franco Fortini. Mi ricordo la primavera del 1980 come un sogno a occhi aperti. Tra maggio e giugno di quell’anno, prima a Bologna e poi a Pesaro, incontrammo quelli che eravamo andati a cercare già alla fine del ’77, i nostri miti politico-letterari. Quando dico noi, dico un gruppetto di amici pesaresi: avevamo in testa di fare una rivista, io, Katia Migliori e Stefano Arduini, che poi facemmo: «Lengua», il cui numero zero uscì nel febbraio del 1982, ospitando proprio in apertura le testimonianze di Scalia, Romanò e Roversi.
Per noi quella era l’avanguardia della tradizione, già in polemica con l’imminente «tradizione del nuovo» dei Novissimi e del Gruppo 63, cioè con la tradizione d’avanguardia novecentesca. Lo scontro furioso che ne seguì, con il bando reciproco e la sconfitta momentanea di Pasolini, ci spingeva, vent’anni dopo, più verso l’avanguardia del cuore che verso quella del mito informale. Resta il fatto che queste due sinistre letterarie, e i loro postumi, ancora difficilmente si incontrano e si parlano. Ed è un male.
  Mi ricordo è presente di verbo intransitivo e pronominale, anche impersonale, e inevitabilmente include colui che ricorda nell’oggetto ricordato: troppo o poco, il narcisismo è a portata. Ricordare la letteratura di sinistra, oggi, è però decisivo, anche a rischio del ricordare se stessi, più che a se stessi, per ripartire davvero dalla critica del presente politico devastato di questo decennio, che ha mutato la poesia e la letteratura in un mercato indifferenziato, e la critica letteraria in «note specifiche del prodotto», come scrisse Paolo Volponi (un altro poeta della prosa - la poesia come romanzo di formazione - uscito da «Officina», di cui ricorre il 24 agosto il decennale della scomparsa). Una grande generazione generosa di scrittori. E allora ricordiamo, ricordando i cerchi concentrici che portano a quei giorni di primavera inoltrata dell’80, per noi e per chi scrive così decisivi. Katia Migliori, che ora insegna all’Università di Urbino, stava allestendo il suo indice ragionato di Officina, apparso poi nel dicembre del 1979 presso le Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri di Roma, nella collana degli Indici ragionati dei periodici letterari europei diretti del compianto Mario Petrucciani, allievo di Ungaretti. Katia telefonò a Pasolini agli inizi d’autunno del ’75, chiedendogli un incontro. Ne aveva ricevuto una promessa: finito il montaggio di Salò, a cui stava lavorando, i si sarebbe potuti incontrare a Casarsa, dove Pasolini avrebbe passato dei giorni di operoso riposo. Al telefono Pasolini era stato gentile e molto disponibile. Non fu più possibile, e non l’abbiamo mai incontrato, causa l’assassinio.

Incontrammo la carissima Laura Betti, che continuerà l’opera di Pasolini, e pare impossibile ora non ci sia più.
Di Officina lessi per la prima volta nella bella antologia curata per Einaudi da Gian Carlo Ferretti, nel 1975. Allora militavo ancora in Lotta continua, studiavo legge a Urbino, poi ci sarebbe stata l’esperienza della radio libera, tra il ’76 e il ’78, fino alla presa d’atto di una sconfitta, non solo politica ma culturale e complessiva. Il sogno della comunicazione immediata, che rispondeva alla crisi della comunicazione ideologica, era svanito. Si apriva il campo della scrittura in proprio, non bastava più trasmettere, bisognava capire.
La poesia di Pasolini, Roversi, Fortini, la prosa e la letteratura critica di Officina, soprattutto le analisi storiche di Romanò, che legavano i testi e gli autori tra Otto e Novecento al contesto della società e della cultura italiane, criticandone la logica separatezza estetica, mi sembrarono di una efficacia incredibile.
La crisi della politica ne veniva illuminata, in profondo, senza rifiuti formalistici, ma neppure senza indulgenze plenarie. C’era qualcosa che poteva capire la storia e interrogarla, oltre ogni idea di autonomia delle forme, a contatto con le idee del secolo, con le speranze e le disperazioni più vere di ogni vivo. Ed era la poesia, come forma di conoscenza, come indipendenza da ogni ideologia prescrittiva e di partito, come esercizio di un realismo ideologico e di pensiero, e proprio  nel solco di una nuova concezione marxista ed eretica, come estrema risorsa anche morale  dell’individuo anonimo, magari come scandalo della contraddizione e rifiuto delle logiche dominanti, politiche e culturali. Ricerca di realtà, più che tendenza. Prima del Natale del ’77, arrivai a Bologna per cercare la libreria Palma verde, per incontrare Roversi. Ora la libreria è chiusa, e sta finendo il trasloco dell’archivio all’editore Pendragon, la biblioteca destinata al comune di Cento, dove Roversi è nato. Allora era in via Castiglione, la strada a destra delle due torri, l’ultima locazione è stata in via de’ Poeti, al numero 4. Feci via Castiglione avanti e indietro, per almeno un’ora. Mi aspettavo una libreria normale, e ce ne sono molte lì, con le vetrine l’esposizione. Poi, chiedendo e richiedendo, imbucai un grande portone, al numero 35, e facendo un androne arrivai a una porticina con una piccola targhetta, dove col nome della libreria antiquaria era battuto a macchina l’orario di apertura e chiusura. Roversi fu di una gentilezza sorprendente, mi parlò di Pasolini e della rivista, mi regalò tre numeri di Officina, tra cui l’ultimo con la copertina nera. Mi chiese se scrivevo, cominciai a mandargli le prime poesie. Gli devo il mio primo libro, che uscì nell’80 nella collana di Savelli che dirigeva con Giancarlo Majorino.
Con Pietro Ingrao, mi pare il più grande compagno che abbia mai incontrato: generoso, intransigente, in libero colloquio, di una democrazia incarnata, fisica, pur nei tratti severi di un viso incorniciato da una barba ottocentesca. La nuova rivista, Lengua, avrà dal suo assenso la spinta decisiva, dall’82 al ’94.
A maggio dell’80, sempre a Bologna, al convegno Senza Pasolini, a cui eravamo stati invitati sia io che Katia Migliori, rivedemmo Gianni Scalia, vero filosofo orale e inesauribile per eloquio onnivoro e simpatia d’intelligenza, che avevamo già incontrato spesso, e conoscemmo Romanò, che fu di una attenzione squisita, come poi Leonetti, acutissimo, e Volponi, che mi sosterrà al Viareggio.
Davanti alla stazione, sotto i portici di un albergo, ci incamminammo verso il teatro, dove si svolgeva la manifestazione, insieme a Scalia e ad altri amici. Angelo, appena presentati, iniziò subito con naturalezza un suo discorso,  disponibile e amico ai nostri quesiti, nella sua magrezza fragile ed energica, con il suo sguardo chiaro, dolce e intenso. Disse che si poteva intendere Pasolini meglio con gli strumenti dell’antropologia culturale e dell’etnologia che con osservazioni esclusive all’ambito letterario. Pasolini era come uno di quei guerrieri impuberi da consacrare, che le tribù indigene seppelliscono nel ritiro d’iniziazione dentro la terra, perché uscendo di lì con le proprie forze perdano la loro prima natura, acquistando con la seconda nascita culturale la condizione adulta. Tra la prima e la seconda nascita, c’era indicato lo spazio di metamorfosi cognitiva che Pasolini aveva voluto e dovuto attraversare: da una natura (la  grazia poetica) a una cultura (la critica e l’acquisizione storica di sé) sentita come dovere etico di relazione, rinascita del soggetto nell’ambito della storia e della testimonianza civile del conflitto tra sentimento (passione) e oggettivazione (ideologia).
Il nostro esatto contrario: noi venivamo dalla politica alla letteratura, loro, i maestri, dalla poesia erano giunti all’impegno.
Nessuna autosufficienza o partenogenesi nella letteratura, ecco lo statuto del critico già affilato di «Officina»: vitalità razionale, che cercò di riportare la poesia a contatto con la realtà storica e la vita collettiva, respingendo il novecentismo e l’ermetismo, così come il documentarismo neorealistico, in quanto risultati  anche alti o insufficienti di una cultura viziata però dal formalismo o dal populismo della tradizione italiana. Sul rapporto tra letteratura e generazione giovanile, Romanò scrisse qualcosa che mi riguardava, recensendo il mio primo libro, ma che pare utile ancora per tutti i protagonisti collettivi di un’età sconfitta  ma appassionata della vita italiana: «Questo avviene dopo un decennio durante il quale il problema dell’identità e della realizzazione era dato per risolto, pienamente e obbligatoriamente, nell’azione politica. Fare politica era tutto e tutto era politica. Lo sforzo di ridurre la realtà e l’esperienza dentro schemi categorici ha ossessionato una generazione.
Oggi la crisi di insignificanza dei movimenti e dei linguaggi induce a soddisfare da qualche altra parte il bisogno di totalità e di senso; la letteratura offre, in qualche modo, un’alternativa per il recupero di tensioni e di verità che altrove sono cadute o sono negate... La politica ingabbia il mondo, ma ciò che essa esclude è essenziale. La poesia ripristina il rapporto con ciò che è essenziale, sia pure non più che descrivendone e celebrandone la mancanza». («Rinascita», 8 . VIII . 1980). E questa è stata la sinistra culturale cattolica di Romanò. Poiché  Roversi non partecipò al convegno bolognese, Katia pensò di invitarlo a Pesaro, un mese dopo, alla presentazione del suo libro su «Officina». C’era la Mostra del Nuovo Cinema, in quei giorni di giugno, e nel cortile dell’antico palazzo Toschi-Mosca si tenne la riunione. Roversi venne, rivide Romanò che non incontrava da vent’anni, rimase con noi e Scalia per tutto il giorno fino al pomeriggio, poi, prima che iniziasse il dibattito, ripartì. La sua presenza fu allora di nuovo così chiara, rovescio della sua latenza pubblica, per una scorza di timidezza e di resistenza all’esterno, ma senza nessuna riserva di condivisione nella vita e in un progetto comune, fattivo.
Pochi giorni dopo il convegno su Pasolini, sempre a maggio, arrivò a Pesaro Franco Fortini, per la presentazione di un libro di Antonia Mulas, foto e testi sulla fabbrica di San Pietro (Einaudi, 1979). Sulla porta della galleria di Franca Mancini, apparve nel suo vestito lucido estivo, corrosivo fin dal principio.
Prese il libro che gli avevo dato, lo sfogliò, lesse un verso. Mi disse che era buono, il verso, ma che a lui la poesia dei giovani «non andava».
Poi, a cena, cambiò umore. Nella bella casa della gallerista, ci tenne intorno per quasi tre ore, me e un mio amico, raccontandoci di tutto: pezzi di vita e di cultura, brani di sue poesie, recitando a memoria divinamente, aneddoti di viaggi in Russia: «Scriva sempre la verità», così una donna a Mosca, regalandogli una penna. Mi ricordo il suo modo di ridere e parlare, indietreggiando col bicchiere in mano, rubizzo sotto il capello bianco, con gli occhi giovanissimi e illuminati. Mi telefonò il mattino dopo, aveva letto il libro, durante la notte, si era commosso: «Pasolineggi e penneggi (da Sandro Penna) un po’ troppo nelle prime parti, ma il terzo gruppo è già tuo, ci risentiamo». A dicembre, mi arrivò una sua lettera brevissima, su una carta intestata Einaudi. «Questo stemma parla chiaro: mandami qualcosa di inedito». Il libro allora non si fece, ma quella fu, in qualche modo, una profezia per il decennio successivo. Roversi, nell’intervento su «Lengua», ne scriveva, febbraio 1982, un’altra: «Bisogna allestire i muri contro il vento. E gli steccati contro il leone».
Il monopolio del linguaggio diffuso e integrato, di lì a poco, sarebbe dilagato nel nostro paese. Cosa può una «Officina», o una «Lengua », contro una «Mediaset?».


Fonte:
L'Unità, martedì 31 agosto 2004


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Curatore, Bruno Esposito

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