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giovedì 11 aprile 2013

Un ateo al cospetto del sacro Pasolini e il Vangelo di Matteo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Un ateo al cospetto del sacro
Pasolini e il Vangelo di Matteo
di Giacomo Freri

Pasolini scopre il Vangelo quasi per caso, durante un soggiorno ad Assisi nel quale voleva incontrare Papa Giovanni XXIII. Ne rimane subito profondamente colpito, per due motivi principali: 
«Dal punto di vista religioso, per me, che ho sempre tentato di recuperare al mio laicismo i caratteri della religiosità, valgono due dati ingenuamente ontologici: l’umanità di cristo è spinta da una tale forza interiore, da una tale irriducibile sete di sapere e di verificare il sapere, senza timore per nessuno scandalo e nessuna contraddizione, che per essa la metafora di “divinità” è ai limiti della metaforicità, fino a essere idealmente una realtà. Inoltre: per me la bellezza è sempre una “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentato nel Vangelo.» 
C’è poi il Pasolini marxista che da quindi una lettura più politica del Cristo, ma mai dogmatica, sempre personalissima e aperta ai temi universali dell’uomo: 
«Seguendo le accelerazioni stilistiche di Matteo alla lettera, la funzionalità barbarico-pratica del suo racconto, [l’abolizione dei tempi cronologici, i salti ellittici della storia con dentro le “sproporzioni” delle stasi didascaliche (lo stupendo, interminabile discorso della montagna)], la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione. Il Vangelo doveva essere secondo me un violento richiamo alla borghesia stupidamente lanciata verso un futuro che è la distruzione dell’uomo, degli elementi  antropologicamente umani, classici e religiosi dell’uomo.»
E’ interessante vedere come le scelte registiche del film prendano una direzione inaspettata per lo stesso Pasolini, come se la materia sacra lo  avesse trascinato verso una direzione diversa da quella che si era prefissato di seguire: 
«Io tendevo a forzare la materia nella direzione dell’attualità, mentre lo facevo credevo che questo avesse un grandissimo peso. Per esempio quando facevo i soldati di Erode vestiti da fascisti, i soldati romani come la Celere, quando facevo Giuseppe e Maria profughi come profughi spagnoli sui Pirenei e così via, credevo che queste cose venissero fuori molto di più,cioè credevo di poter attualizzare il Vangelo senza toccare l’intima fedeltà che avevo stabilito fin da principio […]. Tutti questi richiami all’attualità, queste fuori, in realtà si sono poi livellati nell’insieme del film, hanno raggiunto una loro specie di fermezza, di distacco che io non avevo calcolato e che è venuto fuori a mia insaputa e quindi mi sto ancora chiedendo io stesso il perché».
«Il Vangelo è stato per me una cosa così spaventosa che, mentre lo facevo, mi ci aggrappavo e non pensavo più a niente. […] Dopo i primi tre giorni di lavorazione avevo deciso di sbaraccare tutto. […] Poi una sera ho messo lo zoom sulla macchina, il 300, ho cominciato a fare delle esperienze, e ho continuato così, giorno dopo giorno. […] La liberazione e l’invenzione tecnica si erano prodotte al di fuori di ogni programmazione. […]
Il Vangelo mi poneva il seguente problema: non potevo raccontarlo come una narrazione classica perché non sono credente ma ateo. D’altra parte io volevo filmare Il Vangelo secondo Matteo, dunque raccontare la storia del Cristo figlio di Dio, dunque raccontare una storia alla quale non credevo.Dunque non potevo essere io a raccontarla. E’ così che, senza precisamente volerlo, sono stato portato a rovesciare tutta la mia tecnica cinematografica e che è nato questo magma stilistico che è proprio al “cinema di poesia”. Perché, per poter raccontare il Vangelo, ho dovuto tuffarmi nell’anima di qualcuno che crede. Qui è il discorso libero indiretto: da una parte la narrazione è vista attraverso i miei occhi, dall’altra attraverso gli occhi del credente. Ed è l’utilizzazione di questo discorso libero indiretto che è causa della contaminazione stilistica, del magma in questione.»
Pasolini però, con grande pudore e rispetto, si ferma nel punto in cui il suo sguardo di ateo e il mezzo cinematografico stesso non possono arrivare: 
«Io avrei potuto demistificare la reale situazione storica, nei rapporti tra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare quella figura di Cristo mitizzato dal romanticismo, dal cattolicesimo della Controriforma, avrei potuto  demistificare tutte queste cose, ma poi come avrei potuto demistificare il problema della morte? Cioè il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso che è il mistero del mondo. Quello non è demistificabile».
Le dichiarazioni di Pier Paolo Pasolini sono tratte da L’avventurosa storia del cinema italiano a curadi Franca Faldini e Goffredo Fofi, Milano, Feltrinelli, 1981

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La Ricotta, deposizioni al processo per vilipendio alla religione.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



La ricotta è un episodio del film RoGoPaG, prodotta da Alfredo Bini, il quale, deponendo al processo per vilipendio contro la religione dello Stato, intentato dal P.M. Di Gennaro contro Pier Paolo Pasolini, disse:

"Il film è composto di quattro episodi. Il filo conduttore è costituito dai diversi aspetti di uno stesso fenomeno, il condizionamento dell'uomo nel mondo moderno. Il primo regista, Rossellini, si occupava del condizionamento dell'uomo nei suoi rapporti con la donna; il secondo, Gregoretti, si occupava del condizionamento relativo alla tecnologia ; Godard prevedeva in un prossimo futuro piccolissimi fattori di degenarazione che avrebbero portato alla fine del mondo senza scosse; Pasolini si occupava della maggior parte degli uomini non ancora in tale stato di condizionamento".


La ricotta è, quindi, una denuncia della decadenza morale dell'uomo contemporaneo. Pasolini si serve di uno dei simboli del cristianesimo, la passione di Cristo, per rappresentare, attraverso l'immoralità della troupe di quel set cinematografico, il vero Cristo: Stracci. Stracci ha una duplice funzione: rappresenta il sottoproletario sacrificato al vuoto borghese, e rappresenta l'incarnazione reale e contemporanea del Cristo. Stracci viene sacrificato, condannato a morte dalla ferocia di un mondo gretto e teso al consumo a tutti i costi.

Dirà Pasolini di questo film: 

"L'intenzione fondamentale era di rappresentare, accanto alla religiosità dello Stracci, la volgarità ridanciana, ironica, cinica, incredula del mondo contemporaneo. Questo è detto nei versi miei, che vengono letti nell'azione del film [...]. Le musiche tendono a creare un'atmosfera di sacralità estetizzante, nei vari momenti in cui gli attori si identificano con i loro personaggi. Momenti interrotti dalla volgarità del mondo circostante. [...] Col tono volgare, superficiale e sciocco, delle comparse e dei generici, non quando si identificano con i personaggi, ma quando se ne staccano, essi vengono a rappresentare la fondamentale incredulità dell'uomo moderno, con il quale mi indigno. Penso ad una rappresentazione sacra del Trecento, all'atmosfera di sacralità ispirata a chi la rappresentava e a chi vi assisteva. E non posso non pensare con indignazione, con dolore, con nostalgia, agli aspetti così atrocemente diversi che una sì analoga rappresentazione ottiene accadendo nel mondo moderno".

Pasolini fa largo uso di riferimenti a pittura e letteratura. Le Deposizioni del Rosso Fiorentino e del Pontormo vengono prese a esempi figurali; il Dies Irae accompagna molte scene del film; Orson Welles recita una poesia dello stesso Pasolini. Il film è girato tra la via Appia Nuova e la via Appia Antica presso la sorgente dell'Acqua Santa nell'autunno del 1963. Sullo sfondo le infinite distese dei palazzoni delle borgate romane, le stesse borgate di Ragazzi di vita, di Tommasino, di Accattone, di Mamma Roma, la stessa umanità antropologicamente identificata con i sottoproletari, ma un diverso approccio autobiografico e religioso. Quel set rappresenta per Pasolini il tempio invaso dai mercanti. Il film fu accolto con freddezza dalla critica, e la ragione va ricercata nelle parole di Moravia:

"La chiave del mistero va ricercata, secondo noi, oltre che nell'impreparazione culturale di molti critici, anche nella ingenua mancanza di tatto di Pasolini. Diamine: il regista nell'intervista dichiara: 'L'Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d'Europa', ed ecco che scontenta così i partiti di destra come quelli di sinistra. Poi, peggio ancora, Orson Welles rincara: 'L'uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista', ed ecco scontentati tutti quanti. L'Italia del passato, infatti era il paese dell'uomo, in tutta la sua umanità; l'Italia di oggi, invece, è soltanto il paese dell'uomo medio".
Per quanto riguarda la partecipazione di Orson Welles nella parte del regista-marxista del "film nel film", dice al proposito Carlo di Carlo, aiuto alla regia, insieme a Sergio Citti, dell'episodio:
"Riguardo La ricotta ricordo quel rapporto per me abbastanza assurdo con Welles. Pasolini lo volle a tutti i costi - e giustamente - perché nessuno meglio del 'mito' Welles poteva eprimere e rappresentare il regista (cioè il regista del film nel film). Welles accettò la parte solo per un fatto economico (non sapeva neanche chi era Pasolini) chiese una cifra spropositata per un film così breve che fece rimanere in bilico la realizzazione de La ricotta per molto tempo. Ma poi le sue condizioni vennero accettate. Orson Welles non sapeva mai nulla quando arrivava sul set. Si informava poco prima di ogni ciak cosa si doveva girare, mi chiedeva le battute tanto per sapere, a occhio e croce, di cosa si trattava, poi esigeva 'il gobbo'. L'italiano lo masticava abbastanza e avrebbe potuto tranquillamente imparare le battute. La scena più vistosamente eclatante della sua partecipazione al film fu quando doveva recitare la poesia di Pier Paolo: 'Io sono una forza del passato / solo nella tradizione è il mio amore...'. Allora Welles sulla sedia da regista venne posto al centro di una collinetta con gli occhiali abbassati tanto che potesse leggere (senza che lo si notasse perché favorito dal controluce) l'enorme 'gobbo' che io gli tenevo a una distanza di quattro metri e sul quale avevo trascritto la poesia".

MASSIMILIANO VALENTE

Citazioni tratte da Carlo di Carlo, Teoria e tecnica del film in Pasolini, a cura di Antonio Bertini, Bulzoni editore 1977.
 
Fonte: cinetecadibologna.it


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