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lunedì 8 aprile 2013

Oriana Fallaci: la mia verità negata sulla morte di Pasolini


Oriana Fallaci: la mia verità negata sulla morte di Pasolini
Dopo l’articolo sull’Europeo, fu condannata per reticenza sulle fonti

«La mia scarsa stima del sistema giudiziario non è incominciata quando
i magistrati si sono messi a fare politica. Ma per questa esperienza»

ORIANA Fallaci è a New York e non avrebbe voglia di parlare di Pier Paolo Pasolini, della sua morte, delle inchieste e delle speculazioni successive, delle rivelazioni recenti, tardive e incomplete di Pino Pelosi. Tantomeno vorrebbe farlo per telefono. Però poi acconsente, «perché Pasolini era amico mio e di Alekos Panagulis». La stessa ragione per la quale, trenta anni fa - lei che era già «la Fallaci», quella del Vietnam, delle interviste ai potenti, dello scontro con Yasser Arafat, lei che non si occupava di cronaca - decise di misurarsi su un omicidio. Per lo smisurato affetto di una donna straordinaria verso uno straordinario uomo. E acconsente per un motivo insospettabile: «Vede, la mia scarsa stima del cosiddetto sistema giudiziario non è incominciata quando i magistrati si sono messi a fare politica, ossia ad applicare gli interessi dei loro partiti, la loro ideologia politica, al Codice Penale. E’ incominciata proprio per l’esperienza che ho avuto dopo la morte di Pasolini».
L’edizione dell’Europeo del 14 novembre 1975 fu nobilitata da un breve e fulminante articolo di Oriana Fallaci. Cominciava così: «Esiste un’altra versione della morte di Pasolini: una versione di cui, probabilmente, la polizia è già a conoscenza ma di cui non parla per poter condurre più comodamente le indagini. Essa si basa sulle testimonianze che hanno da offrire alcuni abitanti o frequentatori delle baracche che sorgono intorno allo spiazzato dove Pier Paolo Pasolini venne ucciso... Pasolini non venne aggredito e ucciso soltanto da Giuseppe Pelosi, ma da lui e da altri due teppisti, che sembrano assai conosciuti nel mondo della droga...». Oriana l’aveva scritto di getto, all’ultimo minuto, col giornale già quasi in stampa. Oggi ricorda: «Ho vissuto molto intensamente la morte di Pasolini perché era un amico. Aveva scritto una bella prefazione a un libro di Alekos Panagulis, un libro di poesie, “Vi scrivo da un carcere in Grecia” (1974, ndr)». Era il tempo in cui Alekos e Oriana vivevano insieme. Lui era stato imprigionato e torturato per l’opposizione al regime dei colonnelli, e da poco graziato. Chiese a Oriana di presentargli Pasolini e il sodalizio si allargò. «Nacque un rapporto frequente, andavamo spesso a cena», dice lei.
L’ultima, di cui Oriana narra nell’«Apocalisse» e alla quale Alekos mancò per via d’uno sciopero aereo, fu in un ristorante lungo la via Appia. Parlarono dell’omosessualità, dell’esclusiva riservata ai rapporti eterosessuali: la procreazione. Fu allora che Pasolini abbandonò per un istante la sua dolcezza: «Devo spiegarti perché odio, perché detesto, perché aborro il tuo libro “Lettera a un bambino mai nato”. E perché mi nausea ascoltare ciò che stai sostenendo. Io non voglio sapere che cosa c’è dentro un ventre di donna. Io inorridisco a sapere che cosa c’è dentro un ventre di donna. Una volta anche mia madre tentò di spiegarmi che cosa c’è dentro un ventre di donna. E ci litigai. Io che amo tanto mia madre». Poi Pasolini carezzò la mano di Oriana.
Ci sono molte cose che Oriana ricorda di Pasolini. Sono le cose per le quali si convinse a scrivere dell’assassinio, a scoprire tutto meglio e prima; a sopportare un’incriminazione e una condanna (per reticenza, quattro mesi di reclusione) che a pensarci oggi ci si immalinconisce. New York, 1966. Pasolini scoprì l’America e andò a far visita a Oriana in un grattacielo della Cinquantasettesima strada. «Mi disse: sono stato tutta la notte a “cercare” - e quando lui diceva “cercare” io so cosa intendeva - e a passeggiare nel Bronx. E mi ricordo che io balzai in piedi. “Che hai fatto?! Dove?! Ma lo sai cos’è il Bronx?!”. Ora il Bronx è meglio ma a quel tempo andare nel Bronx era come andare in un ghetto di Calcutta. E lui, camminando su e giù per il living room con un sorriso quasi beato mi fece il ritratto della sua morte. Mi disse: “Sai, io sono un gattaccio torbido che una notte morirà schiacciato in una strada sconosciuta...”».
La mattina in cui seppero del massacro di Ostia, Oriana e Alekos occupavano un appartamento all’Excelsior di Roma. «Si restò senza fiato», racconta. Si mise al lavoro. Rintracciò il testimone (o “la” testimone o “i” testimoni: «Io non rivelerò mai, mai, mai il nome della persona o delle persone da cui ho saputo che ad ammazzare Pasolini non era stato Pelosi da solo. Io sono una persona d’onore. Giurai di non fare il loro nome e non lo farò mai, morirò col mio segreto punto e basta») e scrisse una verità alla quale soltanto oggi pare si voglia prestare attenzione: Pelosi non poteva aver fatto tutto da solo. Lo diceva la logica. Lo dicevano le indagini di Oriana Fallaci per l’Europeo. Oggi lo dice Pelosi stesso. Lo dice (al Corriere della Sera di martedì 10 maggio) Torquato Tessarin, ex direttore di produzione di Pasolini. E’ stato uno dei pochi, forse il solo, a ricredersi: «Voglio chiedere pubblicamente scusa a Oriana Fallaci, l’unica ad aver scritto che Pasolini fu ucciso da tre persone». Trent’anni fa Tessarin dichiarava la Fallaci pazza ed esaltata, «visionaria come lo era stata nelle corrispondenze dal Vietnam».
Lei ora non se ne cura: «Io non so chi sia questo ex direttore di produzione e attore e regista che mi ha chiesto scusa sul Corriere. Non ho la minima idea di chi sia. Di quelli che componevano il piccolo mondo intorno a Pasolini ricordo soltanto il nome di un tale che chiamavano “Cavallo pazzo”. Non so se “Cavallo pazzo”, il quale pronunciava delle bestialità irripetibili, degli improperi vergognosi nei miei riguardi, sia questo direttore di produzione. Tutti del resto facevano a gara a chi era più bravo a insultare in modo più sconcio, più rozzo. Fu una rara, rara prova di inciviltà in un paese che l’inciviltà la conosce bene. Ma il punto non è quello che dicevano i cavalli pazzi. Il punto è il modo in cui si comportarono la polizia e poi la magistratura».
La polizia, spiega la grande scrittrice, «prese a perseguitarmi. Mi mandava, soprattutto all’ufficio dell’Europeo di via Boncompagni, vicino a via Veneto, degli strani individui che, si capiva, avevano il compito di trarmi in inganno, di tendermi trappole per farmi dire che avevo mentito e scritto cose non vere». Niente a paragone della magistratura: «Se lei mi chiede qual è l’immagine che io ho del magistrato, non è quella del signore con la barba bianca, gli occhiali e la toga nera dignitosamente assiso in tribunale. E’ quella del magistrato che per primo mi interrogò dopo gli articoli dell’Europeo, che mi convocò in procura e io andai da bravo cittadino - ho l’ingenuità dei bravi cittadini - non pensai di portarmi l’avvocato, andai, dissi, sentiamo, forse è interessato a quello che noi dell’Europeo abbiamo scritto. E trovai questo barbuto, maleducatissimo, che si dava un mucchio di arie, seduto dietro la scrivania squallida di una stanzuccia squallida, che mi trattava come una delinquente, sgarbato, aggressivo».
Voleva sapere i nomi dei testimoni ai quali Oriana Fallaci si riferiva nei reportage. Lei si appellò al segreto professionale, allo statuto dei giornalisti, alla norma deontologica che impone di tutelare le fonti, specialmente se rivelarne l’identità può metterle in pericolo. Era certamente quello il caso, e la Fallaci lo ripeté al processo, sia in primo che in secondo grado. Ma non le evitò la condanna e nemmeno le procurò la solidarietà, dovuta e sacrosanta, dell’Associazione della stampa. Non si tratta soltanto dell’ingiustizia: «Io so cosa significa essere condannati ingiustamente: è una delle cose più ributtanti che esistano». Si tratta anche di una questione di dignità. La tracotanza del pubblico ministero, l’aria di sufficienza di giudici maldisposti, l’alterigia e la villania degli avvocati a lei contrari. Le provò su di sé e «dopo quella duplice esperienza, davanti all’ingiustizia della giustizia non mi sono più stupita: il mio battesimo l’ho fatto in seguito alla morte di Pasolini».
Paradossalmente, ciò che più le è rimasto nella memoria di quelle udienze è l’immagine catastrofica e offensiva di un cancelliere donna: «Una ragazzaccia volgarissima, con questi capelloni tutti scarmigliati e con una maglietta, invece della toga - come io credevo che dovesse avere un cancelliere - una maglietta senza maniche, una t-shirt, con un grande topolino disegnato sul davanti. Vedere questo topolino seduto su uno scranno, a giudicare un cittadino trattato come fosse alla gogna, lo trovai mostruoso. Mi inorridì». Questa sciatteria insieme con le prevaricazioni e i vilipendi subiti la spingono oggi a riparlare di Pasolini: «Questa faccenda mi interessa soltanto nella misura in cui ha aperto la strada della mia disistima per il giornalismo, la polizia, la legge. Soprattutto della legge, soprattutto dei magistrati, del sistema giudiziario e di chi lo amministra».
La pena è stata amnistiata ma ad Oriana Fallaci importa poco. Ritiene che lo Stato le dovrebbe delle scuse, la rifusione dei danni morali e materiali. E in fondo le interessa relativamente riporsi la solita domanda: perché? Perché ci fu tanto accanimento contro di lei, e soltanto contro di lei, non contro altri dell’Europeo? E perché non si spesero altrettante energie per dimostrare che Pelosi non era un assassino solitario? Se l’è chiesto per un po’. Poi «mi sono guardata bene dal continuare a rimuginare sulle loro miserie morali e mentali. Ma è una domanda che io ora pongo a voi: perché gli dava tanto fastidio che l’Europeo avesse detto questa verità? Perché l’hanno rifiutata? Perché per rifiutarla se la sono presa con la Fallaci e basta? Sono domande senza risposta, per me sono come il dogma della verginità della Madonna». Ci si potrebbe rituffare nelle teorie dei complotti, nei grovigli politici, e in fondo questo era il sospetto di Tommaso Giglio, direttore dell’Europeo in quegli anni. Si potrebbe ragionare sul fatto che anche adesso sono in pochi a trovare la voce, e comunque è una voce flebile, per dire che pure quella volta la ragione era di Oriana Fallaci. Si potrebbero sostenere tante tesi, ma senza troppi appigli. Forse è sensato e sufficiente tornare all’inizio di questo articolo, ripetere che nel 1975 Oriana Fallaci era già Oriana Fallaci. Già quella del Vietnam, quella delle interviste ai potenti messi spalle al muro. La Oriana Fallaci detestata perché scriveva quello che nessuno sopportava leggere: in che direzione stava girando il mondo. O, per dirlo con parole sue: «Già a quel tempo e da parecchio tempo ormai ero il bambino di quella fiaba di Grimm, il bambino che dice: “Il re è nudo”».
la stampa 12-5-05
Fonte:
 http://www.lamescolanza.com/Temp2005/52005/Fallaci=1252005.htm



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Il dogma sulla morte di Pasolini

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Il dogma sulla morte di Pasolini
di Carla Benedetti, da ilprimoamore.com

Alcuni esperti di Pasolini e alcuni giornalisti continuano ancora oggi, nonostante i tanti dubbi emersi negli ultimi anni, a dare per assolutamente certa la matrice sessuale dell'omicidio di Pasolini. Sono Nico Naldini (cugino e biografo di Pasolini), Marco Belpoliti (autore del volumetto Pasolini in salsa piccante, uscito da poco da Guanda), Pierluigi Battista (in un articolo sul "Corriere della sera" dell'8 novembre) e qualche altro.
Come mai queste persone sono così convinte che Pasolini sia stato ucciso in una rissa omosessuale? Su cosa poggia la loro certezza? Non su prove né su indizi. Solamente su di un sillogismo. Eccolo:
Pasolini era omosessuale, rimorchiava ragazzi nelle notti romane e praticava una pericolosa sessualità sado-maso. Quindi non può che essere stato ucciso in quel modo.
La fallacia è lampante. Dalla stessa premessa può discendere benissimo anche la conclusione opposta:
Pasolini era omosessuale, rimorchiava ragazzi ecc... Quindi era gioco facile nascondere un altro tipo di delitto dietro a quella falsa pista.
Quel falso sillogismo è stato per tanti anni la versione ufficiale sulla morte di Pasolini. C'era un reo confesso, il diciassettenne Pino Pelosi, e questo bastò. Però neanche il Tribunale di primo grado fu in grado di eliminare i dubbi, tanto che condannò il Pelosi "assieme a ignoti", lasciando aperti molti interrogativi. Oggi che gli interrogativi sono cresciuti, il sillogismo viene invece riaffermato senza argomenti e senza dubbi- cioè come dogma.
In questi ultimi anni si sono aggiunti nuovi fatti, testimonianze e indizi (1) che mostrano platealmente le lacune e le incongruenze di quella versione. Tanto che nel 2009 la procura di Roma ha riaperto le indagini, affidate al sostituto Diana De Martino. Ecco i più importanti:
1) Nel 2005 Pelosi, dopo aver scontato la pena, ritratta la sua confessione, sostenendo di essersi accusato dell'omicidio perché sotto minaccia. Dopo tanti anni - spiega - non ha più paura a parlare, probabilmente chi lo minacciava è morto.
2) La notte dell'omicidio Pasolini non andava a rimorchiare ragazzi ma a incontrarsi con un ricattatore da cui si aspettava di avere indietro le bobine del film "Salò" che gli erano state rubate (testimonianza di Sergio Citti).
3) Sul luogo del delitto c'era una seconda auto su cui non sono state fatte indagini (diverse testimonianze). Secondo Pelosi a uccidere Pasolini furono tre uomini che parlavano siciliano.
4) Il 20 febbraio 2003 il sostituto Procuratore pavese Vincenzo Calia concluse una lunga inchiesta, durata 9 anni, sulla morte di Enrico Mattei. L'aereo del Presidente dell'Eni era precipitato la sera del 27 ottobre 1962 nella campagna presso Pavia. La procura pavese aveva già svolto anni prima un'inchiesta, che però si era conclusa con un "non luogo a procedere, perché i fatti non sussistono", avendo attribuito la caduta dell'aereo a un incidente. Nella Richiesta di archiviazione Calia accerta il sabotaggio dell'aereo e prospetta per l'omicidio una regia tutta italiana, di cui Eugenio Cefis (futuro presidente dell'Eni) teneva le fila. Pasolini aveva scritto la stessa cosa trent'anni prima in un appunto di Petrolio: "In questo preciso momento storico […] Troya [nome nella finzione dato a Eugenio Cefis] sta per essere fatto presidente dell'Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei)". E poco dopo scrive: "Inserire i discorsi di Cefis". Il giudice Calia ingloba questa pagina di Petrolio nella sua Richiesta di archiviazione e accumula molte testimonianze e indizi che portano a sospettare la stessa mano anche dietro l'omicidio di Mauro De Mauro, giornalista dell''"Ora" di Palermo, sparito nel 1970.
L'elenco delle cose che non quadrano con la versione della rissa omosessuale è più lunga (per saperne di più si vedano G. Borgna e C. Lucarelli, "Così morì Pasolini", in "Micromega" n. 6, 2005 ; G. D'Elia, Il petrolio delle stragi, Effigie, 2006; G. Lo Bianco e S. Rizza, Profondo nero, Chiarelettere, 2009; C. Benedetti e G. Giovannetti, "Come corsari sulla filibusta", introduzione a G. Steimez, Questo è Cefis. L'altra faccia dell'onorato presidente, Effigie, 2010). Ma bastano queste.
Come reagiscono gli assertori dell'omicidio sessuale a questi nuovi dati? Ne tengono conto quando ribadiscono la loro versione? No. Dicono invece che sarebbe ora di smettere di farsi tante domande. "Forse è venuto il tempo di seppellire il corpo insepolto di Pasolini" (Belpoliti). Se qualcuno in America sostenesse una cosa del genere riguardo all'omicidio di John Kennedy, sarebbe semplicemente ridicolo. In Italia lo si fa passare.
Pierluigi Battista, sul "Corriere della sera" dell'8 novembre si spinge persino a prendere in giro chi ha chiesto che si facessero nuove indagini ("vorrebbero che i Ris, distolti dai lavori su delitti come quello di Garlasco, lavorassero sul cadavere assassinato di Pasolini").
Altri, più diplomatici (visto che le indagini sono in corso), invece che ai magistrati inoltrano l'invito al mondo della cultura, agli studiosi, agli intellettuali, agli storici... Smettete di avere dubbi! Ecco un esempio. Bruno Pischedda sul "Sole 24 ore" del 31 ottobre 2010: "Ben venga la riapertura del procedimento giudiziario. Ma si metta fine alla farandola delle ipotesi, delle sovracostruzioni fantasiose su Cefis e Mattei, la Montedison, la strategia della tensione: ciò vale per Gianni D'Elia e Carla Benedetti, per Carlo Lucarelli e Gianni Borgna, non solo per Marcello Dell'Utri".
(Il riferimento a Dell'Utri si spiega perché il senatore imputato per concorso esterno in associazione mafiosa annunciò qualche mese fa in una conferenza stampa di avere per le mani un inedito di Pasolini intitolato "Lampi su Eni", che però poi non rese pubblico. Del fatto ho parlato qui).
Il dogma è debole nelle argomentazioni. Perciò si fa aggressivo verso chi lo mette in discussione. I dubbiosi per lo più vengono tacciati di complottismo: Battista ad esempio li definisce "dietrologi compulsivi".
Come se fosse stata la mania del complottismo e non il desiderio di verità - di una verità coperta per decenni - a spingere nel 2005 migliaia di persone in Italia e all'estero a firmare un appello per la riapertura del processo Pasolini, promosso dalla rivista " Il primo amore" (n. 1, 2006) e presentato al Presidente della Repubblica. Nel testo si leggeva:
"Noi non sappiamo se a far tacere [Pasolini] sia stata una decisione politica. Quello che però sappiamo - come lo sa chiunque abbia prestato attenzione alla vicenda - è che la versione blindata della rissa omosessuale tra due persone non sta in piedi".
Di recente è stato inventato un nuovo capo d'imputazione per i dubbiosi: hanno tutti un "complesso" nei confronti dell'omosessualità. La cultura italiana non accetta l'omosessualità di Pasolini e la rimuove convincendosi che l'omicidio abbia altri moventi -questa è la tesi del libro di Belpoliti.
Infine il dogma si aggrappa a altri due preudoargomenti. Eccoli:
1) Un letterato non potrà mai essere tanto pericoloso da dover essere eliminato.

Chi ragiona così evidentemente pensa la letteratura sia un insieme di fiction innocue. Abbiamo purtroppo esempi di scrittori e giornalisti minacciati (Roberto Saviano) o uccisi (basti ricordare Mauro De Mauro e Giuseppe Fava). E poi Pasolini non era solo un letterato. Era anche un regista internazionalmente noto, un critico della cultura che scriveva su diversi periodici e un collaboratore del maggiore quotidiano italiano, il "Corriere della sera".
2) Ciò che Pasolini sapeva era già pubblicato in giornali e libri. Quindi non c'era ragione di eliminarlo. Lo scrive Belpoliti, lo ripete Battista. Questa affermazione, che rasenta la disinformazione, si riferisce alle fonti usate da Pasolini per Petrolio. E cioè:
- i discorsi di Cefis che Pasolini intendeva inserire nel romanzo.
- due inchieste di Giuseppe Catalano, pubblicate da "L'espresso" nel 1974 che raccontano i "mattinali" che il capo dei Servizi segreti Vito Miceli (tessera P2 1605) quotidianamente inoltrava a Cefis, allora presidente di Montedison, quasi che il Sid fosse una sua polizia privata (ritagli conservati da Pasolini);
- Questo è Cefis. L'altra faccia dell'onorato presidente, pubblicato nel 1972 dall'Agenzia Milano Informazioni sotto lo pseudonimo di Giorgio Steimez. Questo libro, scritto probabilmente da qualche avversario di Cefis con intento di avvertimento o di minaccia, fu subito ritirato dalla circolazione e fatto sparire anche dalle due biblioteche nazionali. Da poco lo ha ripubblicato da Effigie. Pasolini ne ebbe le fotocopie da Elvio Fachinelli.

Quindi, conclude il sillogismo, cosa sapeva Pasolini più di altri, se le sue fonti erano note al mondo giornalistico dell'epoca e potevano essere fotocopiate e diffuse?

Evidentemente per chi sostiene questo non c'è alcuna differenza tra sapere e divulgare: tra avere un'informazione e la possibilità di farla esplodere nell'opinione pubblica. Le informazioni "pericolose" (come quelle possedute dall'anonimo o dagli anonimi estensori di Questo è Cefis) possono anche essere note senza danno, se chi le possiede non ha abbastanza forza per farle pesare nel discorso pubblico, o non ha l'autorità per renderle credibili o per trasformarle in un'accusa. Pasolini aveva l'una e l'altra. Collaborava al "Corriere" e la sua voce pubblica godeva in quegli anni di grande notorietà e autorità.

Quella "fonte", inoltre, fatta sparire dalla circolazione con un veloce lavoro capillare, non è vero che fosse nota e condivisa. Tanto che a scoprirla non è stato uno studioso di Pasolini ma un magistrato, nel corso di un'indagine sull'omicidio di Mattei. E' stato il sostituto Procuratore Calia ad aver indicato nella sua Richiesta di Archiviazione le somiglianze tra quel libro e alcune pagine di Petrolio. Dopo di che, la curatrice Silvia De Laude ne ha tenuto conto nel commento alla nuova edizione Oscar Mondadori di Petrolio uscita nel 2005 (in tutte le edizioni precedenti invece non se ne faceva cenno).

Ma la più grossa falsità del sillogismo sta in questo: nessuno può dire che Pasolini sapeva quello che tutti sapevano, per la semplice ragione che non si sa cosa sapesse, e cosa avesse ancora intenzione di scrivere se ne avesse avuto il tempo (per esempio cosa avrebbe scritto nel capitolo "Lampi sull'Eni", se è vero che l'ha lasciato in bianco, o cosa vi avesse già scritto, nel caso sia stato sottratto come sostiene Dell'Utri). E se non si sa, non si può dire che era già noto. Non si può ragionare solo su ciò che Pasolini ha scritto, perché qui entra in campo anche ciò che Pasolini non ha fatto in tempo a scrivere, essendo stato ucciso.

(17 novembre 2010)


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Pasolini, in quel mucchietto di stracci insanguinati

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In quel mucchietto di stracci insanguinati

Da L'Espresso del 09/11/1975

La storia e la personalità di Pier Paolo Pasolini raccontate da Cristina Mariotti

"Ma chi è quer fijo de mignotta che ha scaricato 'sta monnezza sotto casa mia?, me so' detta appena l'ho visto: pareva un sacco di stracci. E invece era n'omo. Morto". Sono le 6,30 di domenica 2 novembre quando Maria Teresa Lollobrigida in Principessa, in gita con la famiglia nella sua villetta abusiva al centro della baraccopoli più squallida di Ostia, denuncia ai carabinieri la sua scoperta. Ci vorranno altre due ore prima che "il sacco di stracci" venga identificato in "Pasolini Pier Paolo, di Carlo, anni 53, nato a Bologna, residente a Roma, di professione scrittore e cineasta (precedenti penali fascicolo modello 22 cfr. archivio della squadra mobile)". Il regista, lo scrittore, il poeta, il "diverso" geniale e famoso è fissato dal mattinale dei carabinieri nella sua ultima e più drammatica dimensione: quella di un omosessuale morto ammazzato. Scena del delitto: via dell'Idroscalo, a Ostia. È un tortuoso percorso di terra battuta che separa le baracche "per tutte le stagioni" dei senza tetto, dalle "baracche per l'estate" dei sottoproletari romani tirate su abusivamente "per far fare un po' di mare ai bambini". A pochi metri dalla spiaggia, una sottile fettina di sabbia nera e sporca, via dell'Idroscalo si apre a destra in uno sterrato che i ragazzi del posto hanno trasformato in un rudimentale campo di calcio: alle due estremità quattro tubi metallici simulano le "porte". È qui che Pasolini è stato aggredito, colpito, massacrato a colpi di trave dal suo giovanissimo partner nella notte tra il sabato e la domenica. Ha tentato di salvarsi fuggendo e ha tracciato sulla ghiaia con il sangue il disperato percorso. È stato finito poco oltre, schiacciato dall'assassino sotto le ruote della sua stessa macchina. "La vittima", si legge nel verbale degli inquirenti, "giace bocconi con le mani unite sotto il torace; presenta ferite da corpo contundente sulla nuca e sulla faccia, abbondanti emorragie e fuoruscita di sostanza cerebrale; sopra la schiena tracce di pneumatici... indossa una canottiera verde, blu jeans, calzini marrone, stivaletti marrone, biancheria ordinaria..,". "Strano", commenterà un brigadiere, "uno come lui era più logico pensarlo in mutandine dl seta". Ma chi ha ucciso Pier Paolo Pasolini? E perché? Via via le risposte si dipanano sul filo di due storie apparentemente parallele.
Sono le due di sabato notte, sul lungomare Duilio, a Ostia, una Giulia grigia sfreccia a 170 all'ora. Una "gazzella" dei carabinieri si butta all'inseguimento: eccesso di velocità. La corsa della Giulia "Gt" si arresta contro un muro. Il guidatore è un minorenne "inquieto": Giuseppe Pelosi, 17 anni, precedenti per furto. Quando si vede braccato resiste, tenta la fuga. Ma inutilmente. Viene acciuffato e incriminato per furto: l'auto, che risulta intestata a Pier Paolo Pasolini, è stata rubata. Di qui, parte un sorprendente giallo ad incastro. Primo pezzo: un appuntato telefona a casa del regista, a via Eufrate all'Eur, per segnalare il ritrovamento della Giulia. Risponde la governante. È sorpresa che Pasolini non sia ancora rientrato: "Di solito", dice, "se tarda avverte". Secondo pezzo. Il ragazzo si ricorda all'improvviso di aver perduto un anello: "forse è nella macchina", suggerisce ai carabinieri, poi lo descrive dettagliatamente: una pietra rossa incastonata tra due aquile dorate e sotto la scritta "United States Army", insomma, un oggetto più adatto a un "marine" che ad un romano di borgata. Terzo pezzo. L'anello in macchina non c'è. I carabinieri si fanno sospettosi: "Ma perché 'sto ragazzetto ci tiene tanto?", si chiedono. E ancora: "Come si fa a perdere un anello? Occorre prima sfilarlo dal dito. Tranne che qualcuno non ce lo tiri via. Magari durante una colluttazione". E il ladruncolo aveva, al momento dell'arresto, la camicia macchiata di sangue e una ferita sulla fronte. Si cerca di prendere tempo. Quando il brigadiere Cuzzupé batte a macchina l'ultima cartella del verbale, si è fatta l'alba. Poco dopo, la notizia che all'Idroscalo hanno trovato un morto. Nel sopralluogo, accanto al cadavere. della vittima, qualcuno vede brillare un anello. È esattamente quello descritto da Giuseppe Pelosi: il topo d'auto è anche l'assassino dell'Idroscalo? Poco dopo, Ninetto Davoli, arriverà per il riconoscimento. All'una di domenica Pelosi confessa. Ha ucciso Pasolini, dice, perché "non voleva stare al patti. Il maschio dovevo farlo solo io e non uno alla volta".
È questa la verità sulla fine di Pasolini? La sproporzione fra la statura del personaggio e la banalità della sua morte, per quanto prevedibile (tempo fa aveva confidato a Moravia: "sai ogni volta che esco per una 'battuta' sento di rischiare la vita"), ha fatto nascere in qualcuno dei dubbi. I due si conoscevano? È questa la prima domanda. Se la risposta fosse affermativa, anche l'ipotesi di un delitto diverso, una vendetta di gruppo o magari un delitto politico sarebbe meno irreale di quanto appaia a prima vista. Comunque, lo scenario della sua morte se l'è scelto lui: una squallida baraccopoli, all'aperto. "Conosceva la zona perché forse ci voleva girare un film", ha osservato il capitano dei carabinieri Tommasselli. "Sì, e come no?", ha rintuzzato un cronista con eschimo, "e sai il titolo? 'Ciak, si gira il mio assassinio'". 

Fonte:
http://archivio900.globalist.it/it/articoli/art.aspx?id=5718


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