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sabato 6 aprile 2013

Il cinema italiano cristologico

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 
Il cinema italiano cristologico
di Giammario di Riso

D’istinto allungai la mano al comodino, presi il libro dei vangeli che c’è in tutte le camere e cominciai a leggerlo dall’inizio, cioè dal primo dei quattro vangeli, quello secondo Matteo. E dalla prima pagina giunsi all’ultima – lo ricordo bene – quasi difendendomi, ma con gioia, dal clamore della città in festa. Alla fine, deponendo il libro, scoprii che, fra il primo brusio e le ultime campane che salutavano la partenza del papa pellegrino, avevo letto intero quel duro ma anche tenero, così ebraico e iracondo testo che è appunto quello di Matteo. L’idea di un film sui vangeli m’era venuta altre volte, ma quel film nacque lì, quel giorno, in quelle ore.

A parlare è Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale che, nonostante sia passato più di mezzo secolo, ha saputo più di altri registi far slittare il significato della parabola cristologica dalla letteratura alle immagini in movimento. Da questa “confessione”, anche senza aver visto il suo poetico e profondo Il vangelo secondo Matteo, si comprende la fascinazione che la storia di Yehoshua ben Yosef (denominazione ebraica di Gesù il Nazareno) abbia esercitato su di lui, in un meccanismo che parte dalla genesi letteraria per arrivare alla costruzione, messinscena di un racconto in immagini sincero e dalla grande forza spirituale.
Il cinema cristologico italiano ha in Pasolini un punto di riferimento per stile, autorialità, tecniche di narrazione e attorialità. In questo caso la genesi è il testo di Matteo, di fatto quello, tra i Canonici, più spostato verso la cultura ebraica, in cui emerge un Gesù ostinato e dall’afflato dittatoriale. Perfetta risulta la coniugazione tra immagini e forza della parola, con Gesù, interpretato dallo studente rivoluzionario Irazoqui che, con la sua iconografia sindonica, consente, mediante primi e primissimi piani, di sostenere al meglio la poetica dei contrasti tanto cara a Pasolini. Sul versante ideologico, sfruttando l’impianto ebraico/tradizionalista, ruvidamente Pasolini riesce a criticare la società dei consumi del boom economico senza svilire o strumentalizzare la storia dell’individuo più famoso degli ultimi duemila anni, colui in nome del quale è nato un sistema religioso che da sempre ha stabilito in Italia il suo quartier generale.
L’ultimo film, in ordine temporale, che nelle nostre sale fa lietamente rivivere la storia di Gesù è Su re del sardo Giovanni Columbu, che, come potrete riscontrare soprattutto dai preziosi e approfonditi contenuti dei colleghi Giovanna Maria Branca e Edoardo Zaccagnini, si inserisce nella poetica autoriale tracciata da Pasolini sia in termini di linguaggio della macchina da presa che per la messinscena.
Una poetica che, a torto o a ragione, non sempre è stata l’unica forma di espressione caratterizzante il nostro cinema cristologico. Sin dai suoi primi passi, il cinematografo infatti ha avuto la necessità di proporre storie già conosciute alle masse per creare affezione e iniziare lentamente un affrancamento dalla letteratura e dal teatro. In quest’ottica, la storia della Passione vivente tramandataci dai Canonici diventa genesi tematica della macchina da presa e, decodificata a mò di tableaux vivants, caratterizza i primi anni del muto italiano.
Dal 1897 al 1910 abbiamo in tutto il mondo ben diciotto pellicole che passano a setaccio episodi cristologici con il tema della Risurrezione che diventa, in questa prima fase, collante tra sperimentazione cinematografica e iconografia tradizionale cattolica. Gesù è dunque rappresentato mediante la classica iconografia da santino, e in Italia è il film Passione di Gesù, di Luigi Topi, del 1897, ad aprire le danze.
Nel decennio successivo, mentre Gabriele D’Annunzio fornisce credibilità al cinematografo firmando le didascalie vergate del film Cabiria, il regista Enrico Guazzoni gira la pellicola cristologica Quo Vadis? , in cui è forte lo stile da kolossal, con scenografie sontuose e centinaia di figuranti che opprimono il quadro. Riassumendo, in questa fase il cinema muto italiano cristologico presenta i tre nuclei tematici riscontrabili anche in pellicole straniere: sperimentazione delle potenzialità del cinematografo, narrazione a quadri con l’intento di mitizzare la figura di Gesù e materializzazione del contenitore cattolico come vettore di significazione.
Stiamo parlando di opere in cui il filo d’oro è Gesù. Sfociando poi nell’epoca del sonoro, abbiamo nel 1964 il film di Pasolini, nel 1973, il Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli, un’operazione da quadretto oleografico atta esclusivamente a solennizzare la figura del Messia sulla base dell’opera dei Canonici e l’ideologico Il Messia di Roberto Rossellini, in data 1975. Nel giro di pochi anni si apre una fase in cui è forte la differenza tra cinematografia americana (di stampo industriale) e europea (di stampo autoriale), e il nostro cinema cristologico entra in un quadro economico-produttivo incerto sviluppando pellicole elegantemente confezionate, come Cercasi Gesù di Luigi Comencini, del 1982, L’inchiesta di Damiano Damiani, del 1986 o Il bacio di Giuda di Paolo Benvenuti, del 1988, ma che tuttavia tendono, a differenza di Pasolini, a rappresentare più che evocare, interpretare la parabola cristologica.
Passano gli anni e, tralasciando pellicole caratterizzate esclusivamente dal tema del sacro, non si ritrovano nella nostra produzione film su Gesù. Il nostro cinema inizia a preferire altri contenitori e, vista la necessità di capitalizzare al massimo l’attenzione dello spettatore moderno, la figura del Messia perde di credito tra i cineasti. Ora però, e qui si conclude il breve focus, in sala abbiamo il film di Columbu, un prodotto di grande qualità che potrà raschiare la diffidenza dei nostri registi sull’argomento per aprire una nuova stagione di cinema cristologico. Il tutto in concomitanza con la nuova fase del mondo cattolico, che ha appena abbracciato il nuovo Papa e si appresta a riconfigurare la sua cultura e storia.

Fonte:
http://www.close-up.it/il-cinema-italiano-cristologia


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Curatore, Bruno Esposito

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Il saggio giallo di Roberto Longhi

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dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Pier Paolo Pasolini, Ritratto di Roberto Longhi, 1975

Il saggio giallo di Roberto Longhi


Pasolini, rievocando a circa trentacinque anni di distanza Roberto Longhi in cattedra, scrisse che “era un’apparizione”. Longhi aveva debuttato nel 1912, cent’anni fa, pubblicando il primo saggio su “La Voce” di Prezzolini. Era allora poco più che ventenne quello che per molti versi sarebbe diventato Il critico d’arte del Novecento. Allo sterminato data base d’immagini mentali, che gli permetteva raffronti fulminei e profonde filogenesi, lo studioso unì l’istrionismo del maestro (il “carisma” segnalato sempre da Pasolini), capace d’incidere su moltissime figure successive, anche assai irregolari come Testori e Bertolucci, e di scaravoltare le gerarchie consolidate della storia dell’arte nostrana. Tutto ciò con una prosa così ricca e risentita da destare l’attenzione ammirata di scrittori e critici letterari quali Contini. Qui c’interessa però raccogliere un’osservazione fatta en passant da Pasolini sul saggismo di Longhi come “strabiliante romanzo giallo”. Vorremmo insomma soffermarci su una forma di saggio che attiva anche la propria struttura rendendola parlante.

Longhi apre il suo scritto Di Gaspare Traversi con un ricordo: dieci anni prima non riusciva a convenire sulla paternità di alcuni quadri di genere osservati presso collezioni private e antiquari; passati cinque anni rivede gli stessi dipinti a una grande mostra fiorentina attribuiti al Bonito, pittore napoletano di primo Settecento. Fatta tale premessa, l’autore comincia ad esaminare l’intera opera di Bonito, per escludere alla fine ogni traccia di quella “naturalezza pittorica” ravvisata invece nelle tele sospette. Quelle, scrive Longhi, “lungi dall’apparire soggetti di un canovaccio consunto, si leggono come pezzi di cronaca spietata, scettica, moderna” cosicché “da osservazioni di tal genere si fortificava più e più il mio dubbio che nei quadri di tal sorta una mano diversa e assai più nobile fosse all’opera”. Ecco che il saggio si trasforma in quête e l’attribuzionista in detective che fa del suo occhio eccezionale a priori alle valutazioni. Come Sherlock Holmes nota particolari trascurati da tutti gli altri e procede alle congetture, via via rafforzate da ulteriori conferme sui dettagli, che permettono anche l’impennata del linguaggio (“queste son rughe più sincere, più fisiche di quelle del Bonito; una biografia, quella testa!”). Si assapora da un lato la scoperta dell’investigatore e insieme si è travolti dalla foga fredda del persuasore.

Stacco e interrogatorio del successivo indiziato. Il Contratto nuziale di Roma rivela la stessa mano ignota, pur figurando per opera di Pier Leone Ghezzi, che viene a sua volta radiografato e scartato. Il paradigma indiziario funziona per esclusione: l’autore misterioso è per Longhi già a prima vista di formazione napoletana; la mimica e l’espressività delle figure “denuncia, si direbbe, persin la parlata” partenopea. I tratti del fantasma vengono pian piano formandosi in ipotesi di fisionomia mentre si eliminano le false piste. Il saggio giallo trova la sua risoluzione dopo quindici pagine di suspense narrativa in cui il nome era stato accuratamente celato. Il passaggio definitivo per individuare “il tanto desiderato pittore” mette in scena direttamente il protagonista della lunga caccia amorosa, ovvero Roberto Longhi stesso, con un procedimento metasaggistico: “chi era dunque il fortissimo pittore […] andavo chiedendo a me stesso inutilmente […] Finché un giorno, nei primi mesi del 1923, in un corridoio interno del convento di San Paolo fuori le Mura trovai già risolto, materialmente, il problema: un gruppo di cinque dipinti, tutti ad evidenza della stessa mano, ormai domestica alla mia memoria visiva; ed uno dei cinque, per buona sorte, anche firmato”. La vicenda soggettiva dello studioso irrompe in scena, vero incunabolo del saggismo invadente e pedinante alla Garboli, e di tante mescolanze tra autobiografia, opera altrui, critica e scrittura contemporanee. Abbiamo il nome: Gaspare Traversi. Longhi passa quindi a scartabellare antichi regesti e guide napoletani, lasciandosi sfuggire: “Ma che vergognosa scarsità di notizie intorno a un tant’uomo!”. Trova citato “lo scurissimo Traversi” a proposito di dipinti di Santa Maria dell’Aiuto; ed ecco che per una conferma lo studioso si rimette in scena, ancora come uno Sherlock Holmes dalle ampie falcate: “La memoria mi fallava, dopo dieci anni, e dunque, sui primi dei ‘24, volli rifare la strada per la chiesetta dell’Aiuto.”

Dopo averci fornito una forma saggistica connotativa e il personaggio dell’attribuzionista come investigatore, Longhi completa l’opera plasmando definitivamente l’ombra che ha preso nome di Traversi. L’attribuzionista diventa il giustiziere postumo che interpreta una concezione sana di revisionismo storico; ma certo vi è anche qualcosa della demiurgia dello scrittore. Traversi viene infatti definito una volta per sempre. E tutta la sapienza scrittoria è messa al servizio della creazione di tale personaggio, in una gara tra la concretezza del “caravaggesco in ritardo” e delle parole che lo devono mostrare: “I due tipi di commedia istrionica, il vecchio Zanni adunco, inferocito, e il Lazzariello che s’è venduto da tempo al diavolo, con quel suo viso pelato come l’avanzo d’una recente epidemia fra galeotti, vengon fuori dai candidissimi panneggi, raccapriccianti e comici ad un tempo: come crostacei dalla schiuma di Mergellina, come bruchi dalla lattuga; le mani smaneggiano come polipi, le pulsazioni sono alla scoperta”.

Fonte:
http://www.doppiozero.com/materiali/ars/il-saggio-giallo-di-roberto-longhi


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