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giovedì 4 aprile 2013

Pasolini: Il concetto della Ricotta

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini: Il concetto della Ricotta

 
La ricotta di Pier Paolo Pasolini è uno dei rarissimi capolavori del cinema mondiale perché oltre ad essere un film poetico è un corto parecchio provocante e filosofico perché si può assistere alle scelte ideologiche di Pasolini. Ora partiamo con la trama di questo straordinario cortometraggio pasoliniano. Stracci un uomo di periferia che fa come comparsa interpretando la parte del ladrone buono in un film sulla Passione di Cristo diretto da un pretenzioso regista (impersonato da uno strepitoso Orson Welles) che si autodefinisce marxista ortodosso. Egli sta girando su un enorme campo della zona periferica di Roma, Stracci è un sottoproletario perennemente affamato. La scena è piena di numerosi membri della troupe e di comparse, che in mezzo alla sacra scenografia, alcuni ancora in costume da santi, ballano un twist scatenato. Quando la sua povera famiglia di Stracci va a trovare sul set, Stracci dona a loro il cestino del pranzo che gli spetta in quanto attore per consentirgli di consumare un misero pasto in mezzo al prato, che assume il valore di una vera e propria eucaristia. Per non saltare il pasto, Stracci, approfittando della confusione del momento di pausa, si traveste da donna e riesce a procurarsi un nuovo cestino dalla produzione. Con infantile entusiasmo si accinge quindi a mangiarlo, al riparo da tutti, in una piccola grotta poco lontano dal set. Ma dal set Stracci sente l'ordine di presentarsi in scena, e Stracci a malincuore è costretto ad abbandonare il suo cestino dietro un sasso. Quando torna, trova che il cagnolino della prima attrice del film ha divorato tutto il contenuto del suo cestino. Stracci, sconfortato, piange a grandi lacrime come un bambino, e nella disperazione rimprovera il cane accusandolo di voler essere meglio di lui perché è il cane è padrone della prima attrice del film che una miliardaria. Nel frattempo sul set giunge la visita importuna e inattesa di un giornalista di "Teglie sera", che con fare deferente e complimentoso avvicina il regista per un'intervista. Il regista risponde alle sue domande piene di retorico buonsenso di "uomo medio" con una feroce e beffarda ironia intellettuale, che il cronista non è neppure in grado di cogliere. Dopodichè il regista recita una poesia davanti allo spaesato e confuso giornalista, e con fermo cinismo gli spiega perché, secondo la sua ottica "marxista", lui semplicemente "non esiste". Il giornalista, frastornato, se ne va dal set, e incontra Stracci che, nei pressi della grotta, accarezza il cane della prima attrice. Notato l'insistente interessamento del giornalista per il cane, Stracci glielo vende per mille lire, ripagandosi così del maltolto. Appena concluso l'affare Stracci si precipita a comprare un gigantesco pezzo di ricotta, con l'intenzione di ingurgitarlo al riparo da tutti. Ma proprio mentre sta per cominciare il pasto, il "ladrone buono" è richiamato sul set dal megafono. Così, Stracci, lasciata la ricotta nella sua grotta, viene legato sulla croce, e nell'attesa che sia pronto il set, assiste a un improvvisato strip-tease di una rubiconda attrice vestita da santa, mentre viene stuzzicato sulla sua fame dai membri della troupe. Quando tutto è pronto, la prima attrice pretende di girare subito la sua scena,e la scenografia viene di nuovo smontata, per lasciare spazio alle interminabili riprese di un tableau vivant che riproduce la “Deposizione del Pontormo”. Finalmente Stracci può tornare nella grotta a mangiare la sua ricotta. Mentre mangia con un maiale, altre comparse e alcuni tecnici si mettono a ridere per il suo grottesco pranzo primitivo, lo fanno cibare dei resti della scena dell'ultima cena, ormai già girata, quindi roba scaduta. Stracci, in mezzo alle risa dell'improvvisato pubblico, mangia ogni sorta di cibarie senza battere ciglio. Nel frattempo, sul set arriva il produttore seguito dal drappello della stampa specialistica: il gruppo assisterà alle riprese della scena della crocifissione della morte di Cristo, nella quale Stracci ha addirittura una battuta: "Quando sarai nel regno dei cieli, ricordati di me". Al grido di "azione!" del regista, però, la scena non parte: Stracci, infatti, è morto di indigestione sulla croce. Il regista, senza ombra di commozione e con molta crudeltà, commenta: "Povero Stracci. Crepare... non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo...". All’inizio del film c’è una importante prefazione scritta da Pier Paolo Pasolini "Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si sentiranno colpiti infatti cercheranno di far credere che l'oggetto della mia polemica sono la storia e quei testi di cui essi ipocritamente si ritengono i difensori. Niente affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e che i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti. Questo grande capolavoro di Pasolini voglio notare alcuni fatti che meritano di essere ricordate perchè sono frutti di una grande ricchezza culturale che Pasolini ha concepito: – le citazioni figurative (l'accostamento alla pala d'altare del Pontormo); – alcuni richiami comici che ha inserito nel film (ovvero le sequenze accelerate sia nelle immagini sia nella musica ricordano i film muti di Charlie Chaplin, un personaggio amatissimo da Pasolini che verrà nuovamente utilizzato nella trilogia comica: “Uccellacci e uccellini”, “Che cosa sono le nuvole” e “La terra vista dalla Luna” interpretati dalla coppia Totò e Ninetto Davoli); – l'utilizzo sempre sapiente della musica: un Dies Irae particolarmente arcaico, un "Sempre libera degg'io" dalla Traviata di Verdi. – titolo particolarmente significativo solo se si considera l'effetto grado di libertà dei figuranti e di Stracci, il protagonista che recita la parte del Ladrone buono. Intanto si sa benissimo che “La ricotta” è il terzo film di Pasolini che affronta una volta privilegiando una storia che tratta il tema degli emarginati della società, il mondo del sottoproletario. Tutte le comparse, i generici, i figuranti del "film nel film" la cui storia viene narrata (e che rappresenta la Passione di Cristo) sono degli uomini di borgata ovvero “uomini morti di fame” in senso letterale, come ci dirà lo stesso Pasolini attraverso “la grande abbuffata” di ricotta rappresentata alla fine del film e della vita stessa di Stracci. Ma bisogna evidenziare la presenza della classe borghese nella parte finale del film, nei panni rozzi e volgari del produttore e del suo mondo. E viene anche "messa in scena" l'"integrazione sociale" cui sembra essere pervenuto il regista "marxista" interpretato da uno strepitoso e sadicissimo Orson Welles. Come sempre il film fu sequestrato con l'imputazione di "vilipendio alla religione di Stato" e di conseguenza il film subì un processo costringendo a Pasolini di effettuare alcune modifiche ovvero fare alcuni tagli e cambiare alcune battute: 1. le tre ripetizioni de "la corona!", 2. lo spogliarello della generica che interpreta la Maddalena, 3. la risata dell'attore generico che interpreta Cristo; 4. si sostituisce la battuta dell’ordine “via i crocefissi!” con “fare l'altra scena!”,5. l'espressione “cornuti” con “che peccato”,6. la frase finale pronunciata da Orson Welles: “Povero Stracci! Crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” con "Povero Stracci! crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo!” Per fortuna nel maggio del 1964 la Corte d'appello di Roma, accogliendo il ricorso di Pasolini, assolverà il regista perché il fatto non costituisce reato. Il motivo di questo processo è che Pasolini aveva diretto questo film facendo un vero attacco frontale nei confronti della borghesia e questo era il motivo vero che scatenò ancora una ennesimo atto polemico e controverso nei suoi confronti. Il senso di questo attacco è contenuto essenzialmente nelle parole qui sotto riportate, pronunciate dal regista interpretato da Orson Welles e dirette al giornalista che gli chiede una intervista: GIORNALISTA: “Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?” REGISTA: “Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”
GIORNALISTA: “Che cosa ne pensa della società italiana?” REGISTA: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d'Europa.” GIORNALISTA: “Che cosa ne pensa della morte?” REGISTA: “Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione.” Finita l’intervista il giornalista se ne va dopo aver salutato elegantemente ma il regista lo chiama con un tono pacifico: “Ehi…(con uno sguardo penetrante)…“Io sono una forza del Passato”. Il giornalista, con la faccia perplessa, ascolta le parole di questo marxista. Il regista, sospirando, spiega che è una poesia di un poeta…e a questo punto si capisce che si parla di Pasolini. Il regista si mette finalmente a leggere la poesia scritta da Pasolini: Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno a cercare fratelli che non sono più. Il regista dopo aver letto la poesia, tenendo tra le mani il libro “Mamma Roma”, dice infine al giornalista di ‘Teglie sera’ che sta ridendo: “Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: ma lei non sa che cos’è un uomo medio! Un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista!...Tanto lei non esiste... Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione... e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale... Addio”. Questi sono i versi più belli e riflessivi di tutta la filmografia pasoliniana, della storia del cinema e della cultura sociale. Grazie Pier Paolo.

Fonte:
http://www.filmtv.it/playlist/24871/pasolini-il-concetto-della-ricotta/




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Biblico scandalo, Pasolini e il Vangelo, il diavolo e l’acqua santa

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Biblico scandalo, Pasolini e il Vangelo, il diavolo e l’acqua santa.

Quando il suo film apparve alla Mostra di Venezia e poi nelle sale, nel 1964, molti censori e nemici erano pronti a impallinare lo scrittore di sinistra dei ragazzi di vita, ma la persuasiva bellezza del film e il suo silenzioso respiro mistico vinsero su facili polemiche. Il Vangelo secondo Matteo, dedicato dall’autore "Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII", rispecchia, nell’iconografia barbarica dei costumi e nelle immagini da pittura rinascimentale, la violenza del messaggio, la Parola non sempre pacificatrice di Gesù, nel rispetto della più grande Storia mai raccontata. Per Pasolini anche un Accattone o Mamma Roma potevano soffrire come Cristo e ribellarsi come lui alle ingiustizie del mondo, in una extra-temporalità.
In una scarna semplicità narrativa il film, con la macchina da presa a mano che salta, si anima e s’arrabbia come fosse viva, si avvale della presenza maternamente dolorosa di Susanna Pasolini, Madonna anziana, comunicazione di un dolore universale. E poi molti letterati, dalla Ginzburg a Siciliano e a Gatto. Ma il film è persuasivo per il suo taglio poetico, per la voglia di giustizia, per il vento che risuona tra le parole e le espressioni del volto dell’inedito attore Enrique Irazoqui, con la voce prepotente di Enrico Maria Salerno. Ci commuove per lo sguardo innocente e contagioso dei bambini, per la violenza espressiva del montaggio, per la povertà primitiva dei paesaggi inerpicati su picchi e rocce (di Matera e di altre zone del Sud). E per la rabbia, effetto ultimo dell’operazione, preceduta non a caso nel ‘63 dalla magnifica crocefissione laica dell’episodio pasoliniano La ricotta in Ro.Go.Pa.G, cronaca di una morte sacra con una comparsa al posto di un Dio, come dire una nota di Mozart o Bach ma insieme anche un canto popolare.


Scheda critica:

La storia di Pasolini poeta, scrittore, regista, intellettuale, uomo del suo tempo ha sempre suscitato, oltre che varie interpretazioni e non poche critiche verso le opere nate dal suo genio, un fascino irresistibile. Il fascino eterno del ribelle senza una vera bandiera alla quale piegare il capo, l’attrazione fatale per la vita e per l’uomo, dipinto proprio nelle spoglie e magnifiche metafore costruite e distrutte rapidamente dalla società. Il Vangelo (1964) non è altro che uno dei tanti tasselli che compongono e tengono ancora in vita il ricordo di questo poeta per molti aspetti schivo, dal viso provato, dallo sguardo profondo e tormentato come i suoi maledetti eroi di periferia; uno sguardo, però, che sapeva andare molte volte oltre l’orizzonte, lontano.
Questo fascino, che egli aveva riversato puntualmente nel Vangelo, è contenuto nel tentativo di fare del cinema strumento di poesia e, dunque, di " salvezza ". Un tentativo, questo, che aveva coinvolto inevitabilmente il mondo della letteratura italiana negli anni del boom economico. Non menzionare, infatti, il clima socio-economico in cui era girato il film ci potrebbe far cadere in facili incomprensioni ed errori. Era il decennio dell’industrializzazione, l’Italia da paese rurale si avviava, dopo la ricostruzione dalle macerie e dallo sconforto della guerra, a diventare una potenza industriale dell’Occidente: in quegli anni volgendo lo sguardo al paesaggio si potevano vedere le strade che sostituivano i campi, le automobili i vecchi trattori, i grattacieli i casali di campagna. Sì, l’Italia stava cambiando pelle e nel giro di pochi anni questa trasformazione investiva l’intera società: dal ricco industriale al giovane contadino, tutto il popolo italiano si sentiva protagonista di questa " rivoluzione ", con tutte le speranze, ma anche con tutte le probabili disillusioni che essa poteva portare con s?. Disillusioni che però non scalfivano per niente la nascita di un nuovo modello di comunicazione, un nuovo modo di fare cultura. Smessi i panni tradizionalmente ?litari che n’avevano contraddistinto il ruolo, ora la cultura si avviava ad assumere quella forte caratterizzazione " di massa " che non avrebbe più lasciato; ormai era il popolo ad esserne diventato il vero referente. Ma a questo punto quale doveva essere il ruolo dell’intellettuale, del poeta di fronte ad uno scenario che stava diventando più grande (ed importante) di lui? Si metteva in discussione il rapporto intellettuale-messaggio-destinatario, perch? in questa triade vi stava entrando di prepotenza un quarto termine: l’immagine. Proprio in quella società costruita sul denaro e sul suo uso sfrenato, l’immagine andava ad esserne l’epicentro e ad essa era delegata ogni possibile rappresentazione dell’esistenza umana. E se ciò stava avvenendo nell’arte (si ricordi la pop-art di Rauschemberg e Warhol), che diventava una sorta di descrizione o riproduzione in serie dell’era dei simulacri, il ruolo che assumevano strumenti visivi come televisione e cinema era totalizzante: attraverso queste macchine la realtà poteva essere riprodotta, deformata, amplificata, sfruttando al massimo l’istintualità umana della visione. Questo mondo che andava assumendo per il Pasolini marxista e "sottoproletario" la forma di un enorme supermercato, con le sue imponenti macchine da spettacolo, diventava, oltre che espressione del potere della " società neocapitalistica ", una sfida altissima con la sua capacità di ricercare nuove forme espressive per la propria poesia. Egli aveva capito che la letteratura per sopravvivere doveva entrare nel sistema e combatterlo dall’interno, sfruttando proprio quei mezzi che n’esprimevano la potenza. A questo punto maturava la decisione e la convinzione da parte del regista di esprimersi attraverso "la lingua scritta della realtà", e cioè il cinema, autentico interprete di un rapporto mitico-simbolico con il reale. Se le pagine di un libro potevano evocare la realtà, le scene di un film la potevano tradurre, conferendole materialità e fisicità. Era qui che nasceva la sua scelta cinematografica e il suo intento di farne poesia, ed è stata questa la scelta che più di ogni altra ha conferito al Vangelo un fascino particolare.
Non era certo la prima volta che Pasolini affrontava un tema religioso. Nella contraddittoria raccolta di poesie La religione del mio tempo (1961) egli descriveva la cultura neocapitalistica come la vera ed unica religione del suo tempo, schiavizzante, volgare simbolo di sottocultura con l’obiettivo dell’omologazione. Ma proprio le amare parole che si ritrovano in quelle pagine (il mondo mi sfugge / ancora non so dominarlo / più) esprimevano il desiderio di proseguire oltre: quale religione poteva cercare un non-credente e quale mezzo poteva sfruttare per trovarla? Non casuale appare la scelta del Vangelo secondo Matteo, opera che S. Petraglia definisce " lirica, epica, narrativa " e " ripresa attuale del mito ". Ed è per questo motivo che molte ed importanti per la sua comprensione venivano ad essere le scelte che portavano alla sua rappresentazione. Mentre Hollywood andava costruendo per sempre i suoi " miti ", questo piccolo regista optava per una scelta dolorosa ma avvincente: non circondarsi di attori famosi o idolatrati sul set, ma chiamare alla recitazione la " sua " gente, quell’inesperta, ma proprio per questo semplice e spontanea, delle borgate, la sola, forse, adatta all’interpretazione di personaggi santi e blasfemi. Questa era la novità più importante, dalla scelta di includere nel cast propria madre nel ruolo della Vergine (si chiarirò più avanti i miei pensieri sulle ragioni di questa scelta) alla nuova immagine del Cristo che voleva elaborare. Egli stesso dichiarava sulla scelta del Cristo: " Non volevo un Cristo dai lineamenti morbidi o dallo sguardo dolce (…). Appena vidi entrare nel mio studio Enrique Irazoqui fui certo di aver trovato il mio Cristo. Aveva lo stesso volto bello e fiero, umano e distaccato, dei Cristi dipinti da El Greco. Severo, perfino duro in certe espressioni ". Quest’esasperata ricerca di particolari modelli figurativi lo portava all’amore per le rappresentazioni iconografiche della pittura toscana medioevale, dalla quale traspariva poca idealità, ma gran passionalità, unita e trasferita anche negli elementi del quotidiano. Era straordinario il modo in cui riusciva a contaminare questi elementi semplicemente negli sguardi dei propri attori. Infatti, scorrendo tutta la pellicola, si è quasi catturati dalla tecnica del primo piano; il film stesso si apre con tre di questi: Maria, Giuseppe, Angelo dell’Annunciazione e si snoda per tutta la vicenda concentrandosi su due figure, il primo piano di Giovanni Battista nelle carceri, costantemente giocato su effetti di luce ed ombra, simbolo dell’incertezza e delle speranze umane di fronte all’ipotesi di una venuta messianica, e quello del Cristo durante le prime predicazioni: assente qualsiasi tipo di referente, lo schermo è totalmente occupato dal suo volto, come a sottolineare che il suo volto è già predicazione stessa, mentre alle sue spalle il mondo si presenta mutevole (anche qui effetto luce-ombra) , incerto, insicuro. Ed infine innumerevoli primi piani degli altri personaggi, molto spesso con gli sguardi rivolti al cielo, sospesi anch’essi in una fissità atemporale magica ed inquietante.

Ma torniamo alla figura centrale del film, cioè quella del Cristo. Uno dei fattori essenziali che conducono alla sua prorompente vitalità e superiorità di profeta senza spada è il linguaggio. La genialità di Pasolini sta nell’aver fatto ciò che molti registi non fanno: non cambiare nulla, n? una parola, n? un verso di quanto è scritto nel testo da cui trae spunto la storia messa in scena. Era questa un’idea semplice, ma geniale, perch? non solo toglieva ogni sospetto di demistificazione o blasfemia sul film che una sceneggiatura ritoccata e ripensata avrebbe potuto provocare, ma permetteva anche di conferire al linguaggio del Cristo un’universalità ed una forza mai viste prima. Il fatto che Pasolini non facesse dire al Cristo nulla di più di quanto non si trovasse nelle Sacre Scritture, rendeva questa figura ancora più vera e dona forza soprattutto al messaggio, spoglio, scarno, non più convenzionale, un messaggio che deve essere ricercato e di fronte al quale non si può far altro che meditare in silenzio. Ecco che allora parole ed immagini si fondono per magia in un Cristo radicale, convincente, a tratti violentemente veritiero, in una lotta nel e contro il mondo. Significativa, a questo proposito, la resa magistrale della tentazione nel deserto, con un Satana dal volto umano, un tentatore che viene da lontano come un comune, anonimo uomo che percorre le strade del mondo, a simboleggiare che il male è forte e non preserva nessuno dalla condanna morale; e sarà il Figlio dell’Uomo , nel deserto delle coscienze stesse, a dover sapere rifiutare e a scacciarlo via. Un isolamento, quello nel deserto, che scompare nell’atto del miracolo, compiuto di fronte a questi goffi contadini del Sud, che costituisce una forza irrazionale perch? espressione d’incontrastabile libertà, riversata proprio sugli oppressi più tristi: gli storpi, i lebbrosi, i ciechi, i figli del mondo che vivono alle periferie delle moderne città e delle loro luci. Ecco perch? la videocamera di Pasolini si ferma e "si arrende" di fronte al Cristo che dice: "Chi avrà perduto la sua vita per causa mia la ritroverà" o "Quanto è stretta la porta ed angusta la strada che conduce alla vita e pochi quelli che la trovano". A questo punto Pasolini termina, con il sermone della montagna e il Padre Nostro, la descrizione della lotta di Cristo nel mondo, per soffermarsi su quella che gli sta più a cuore: la lotta contro il mondo.

Il mondo contro il quale lotta il Cristo pasoliniano è quello filisteo-borghese che si scontra con il suo messaggio che, in quanto Verità, non può essere accettato. Egli stesso dichiarava che "il Vangelo doveva essere un violento richiamo alla borghesia stupidamente lanciata verso un futuro che è la distruzione dell’uomo, degli elementi antropologicamente umani, classici e religiosi dell’uomo". E’ probabile che Pasolini avesse riconosciuto nel Cristo-personaggio come nel Cristo-profeta molti tratti del suo biografismo: un uomo in lotta contro la degenerazione del mondo, un uomo crocefisso dagli avversari, un uomo che risorge. Tesi avvalorata dal fatto che il Cristo ha i toni più duri ed accesi proprio nelle dispute verbale contro il "potere", impegnato nel calpestare l’umanità e dunque a non credere nella missione dell’eroe dalla predicazione folle ed eremitica che hanno di fronte. "Moltissimi saranno coloro che saranno chiamati, ma pochissimi saranno gli eletti", questo il monito dell’uomo che crede in s?, nel proprio Verbo, nella propria ribellione che aprirà la strada alla salvezza. Strada che però, proprio perch? angusta, sarà quella che egli solo saprà compiere; emblematico, a questo proposito, il pianto di Pietro, uomo fermatosi proprio di fronte all’ultimo ostacolo, il più arduo, quello dell’affermazione del proprio io anche a rischio della morte; uomo perciò tragico nella sua solitudine e nel suo silenzio, ricurvo ai bordi della strada che non ha più continuato a percorrere. Strada e cammino abbandonati già da tempo dal Giuda, che si vende al potere per trenta denari, figura emblematica dell’uomo moderno che china il capo e chiude il proprio cuore di fronte al profumo dell’oro e della sicurezza: il suo è "atto di una terra di nessuno". Sono proprio queste esitazioni, questi errori tutti umani, queste consapevoli deviazioni che porteranno al martirio e alla morte questo "eretico sociale", ed esse si manifestano nei momenti più inaspettati del film: il personaggio, ad esempio, di Salomè è ritratto inizialmente con una dolcezza ed un candore estremo; poi, terminata la graziosa danza, il suo viso, rimanendo sereno, pronuncia la fatidica frase: "Voglio la testa di Giovanni Battista". E si può vedere come dietro quella dolce maschera, molto simile a quella che ogni uomo indossa nella società, si nascondano odio, sete di vendetta, follia. Salomè è contrapposta proprio in questo al personaggio femminile di primo piano dell’opera: Maria. Il film, come già detto, ha il suo principio con il volto sorridente e dolce della giovane fanciulla e la sua fine con la " stessa " immagine, dipinta stavolta sul volto provato e sfiancato dalla vita e da tutte le difficoltà di aver ricevuto per la propria esistenza una missione al limite dell’umanità stessa. Ed è qui il significato della scelta fatta da Pasolini con l’assegnazione della parte di Maria a sua madre: la donna che per prima accoglie in fasce il bambino e che lo porta per mano nel mondo da cambiare, è la stessa che piange sotto la croce, la " sua " croce. Impossibile non scorgere qui, ancora una volta, il sentimento di profondo affetto che il regista nutre verso la propria madre, ancora considerata l’unica figura per molti aspetti incorruttibile dall’età e dal mondo, ancora la guida, la luce da cui non ci si sentirà mai abbandonati, anche di fronte alle più dure e dolorose sconfitte. Infatti, nel film, ciò che rimane immutato è il suo sguardo: ancora innocente, ancora profondo nella compostezza e nella semplicità ed è, per questo, uno sguardo unico. Gli occhi della Madre, dunque, principio e fine dell’opera, gli unici, forse, capaci di donare magia e forza alla solenne promessa di un ritorno: " Ed io sarò con voi per sempre, fino alla fine del mondo ", e con esso tutta la sfida di riuscire ad andare oltre la propria dimensione, non rincorrendo l’irrazionale, ma scoprendo pian piano la propria anima ed il proprio essere uomini.

Dedicato a Giovanni XXIII, negli anni in cui il comunismo meno utopistico e il cattolicesimo più avanzato e progressista tentavano di " deporre le armi " e di instaurare un serio e costruttivo dialogo, questo film non è per nulla quella " piccola angusta cosa, frode in commercio " che definì M. Cournot. E’, per le ragioni sopra elencate, un autentico capolavoro, è unione di messaggio cristiano ed utopia marxista, è il difficile equilibrio tra narrazione del credente e del non credente, è creazione di cinema come poesia, ed è forse il sogno l’autentica strada per arrivare alla salvezza.
A cura di
Marco Luceri
Fonte:
http://www.stensen.org/?p=2373

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Il Vangelo secondo Matteo - Valori estetici (di Pier Paolo Pasolini)

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Eretico e Corsaro


Il Vangelo secondo Matteo

(regia di Pier Paolo Pasolini)
Scheda informativa curata dal Centro Studi Sampaolofilm, allegato alla videocassetta "Il Vangelo secondo Matteo", Cineteca Mastervideo)
Valori estetici

Pasolini, volendo narrare con immagini quel che Matteo narra con parole, si avvicinato al testo evangelico come se fosse una sceneggiatura già pronta per la realizzazione. Questo determina la struttura del film che consta grosso modo di tre parti principali: dall’attesa della nascita di Gesù alla chiamata degli apostoli; la vita adulta e la predicazione di Gesù; la morte, risurrezione e congedo.
Nella prima e nella terza parte il film si sviluppa attraverso una serie di scene che costituiscono momenti distinti ma progressivi di fatti umanamente toccanti e immersi in una atmosfera di misterioso raccoglimento e di straziante concitazione drammatica; il dialogo vi ha una presenza minima. Nella seconda parte invece c’è l’irrompere della "parola" che raggiunge l’acme nel lungo discorso di Gesù che è il vero centro del film:
Gesù - il suo volto si staglia sull’ambiente e sul paesaggio - "urla" al mondo e al tempo il suo messaggio di giustizia.
C’è una progressione anche visiva della compresenza di Gesù al mondo: prima Gesù solo, poi Gesù con gli apostoli, poi sempre di più Gesù con la folla. Particolare risalto viene dato alla figura di Giovanni Battista: periodicamente spunta il suo viso interrogativo "sei tu o dobbiamo aspettare un altro?".
E’ il regista stesso che si interroga e che suggerisce l’interrogativo allo spettatore, secondo la teoria pasoliniana del "discorso libero indiretto", in forza del quale l’autore opera una immersione nell’animo del suo personaggio e quindi adotta non solo la psicologia del personaggio ma anche la sua lingua. Nella proiezione l’autore si duplica nello spettatore.
Il film è antispettacolare: pochi paesaggi, la folla più avvertita che presente, la scenografia scarna. Riguardo ai paesaggi, Pasolini, intendendo ambientare il film nei luoghi originari, s’era recato in Israele; ma si rese conto che il tempo aveva modificato luoghi e persone. Preferì quindi ambientarlo nell’Italia meridionale: a Matera (Gerusalemme), a Barile, nel Crotonese (Betlemme), a Tivoli (Getsemani). E la scelta risulta oculata e coerente con le altre scelte stilistiche del regista.
Un altro elemento di antispettacolarità è dato nel film dalla "discrezione" dell’immagine. Dal momento in cui Gesù inizia a parlare, l’immagine diventa il supporto della parola. Le "angolazioni", soprattutto dal basso, servono a sottolineare la superiorità di Gesù; attraverso la "figurazione" (la disposizione delle parti nel quadro) si colloca Gesù nel paesaggio fotografico e nel paesaggio umano. Molti i primi piani, che servono a porre l’accento sull’ importanza dei personaggi rispetto all’ambiente: in particolare Gesù, gli apostoli, i farisei.
La recitazione è eloquente in Gesù, ieratica negli altri; è naturale, cioè non artificiosa, ma non naturalistica, cioè piattamente riproduttiva del rozzo parlare quotidiano. A volte la musica supplisce alla indicibilità delle parole, ma, nonostante tutto, resta l’impressione che il film sia un insieme di scene distinte e separate, e quasi intercambiabili, senza una vera intima unità strutturale. E ciò perché Pasolini più che commentatore del testo ne è stato illustratore; non lo ha vissuto in proprio, ma è rimasto a esso estraneo, più stupito che commosso.
Da qui quella "preminenza della visualità" sulla tematicità che alcuni hanno rilevato, per cui gli interpreti non raggiungono una coincidenza psicologica coi personaggi rappresentati, e del contenuto evangelico viene fatta una lettura che resta in superficie senza arrivare alla profondità della sostanza e alla giustificazione dei fatti.
Ed è anche per questo che, nonostante le contrarie intenzioni di Pasolini, che voleva fare un poema epico-lirico, nel film il lirismo ha il sopravvento sull’epica, dando una serie di stupende rappresentazioni legate più dal sentimento che i fatti e le parole suscitano nell’autore, e di riflesso nello spettatore, che dalla "ragione" che dovrebbe interpretare questi fatti e queste parole.
In tale contesto l’uso della musica risulta leggermente arbitrario e sfasato. Pasolini ricorre alla musica "nobile" - Bach, Mozart, Webern, Prokoviev - e alla musica "popolare" in particolare la "Missa Luba", con l’intento di raggiungere degli effetti di "straniamento" (far partecipare alle vicende con distacco razionale) e di «contrappunto» (per somiglianza o opposizione alla natura della materia rappresentata): qui la musica «nobile» dovrebbe servire per un adeguamento alla nobiltà del soggetto, la «Missa Luba» e gli spirituals per sottolineare l’ispirazione popolare. Ma mentre la «Missa Luba» suggerisce queste intenzioni, la musica "nobile" resta una esercitazione colta e raffinata.
Da questo emerge una costante dell’attività cinematografica di Pasolini, esplosa poi in maniera evidente dal Decameron in poi: l’estetismo, cioè il sopravvento delle emozioni personali dell’autore sui temi da lui trattati, la sopravvalutazione dei valori formali rispetto ai contenuti ideologici, il piacere di raccontare, posto al di sopra della validità di quel che si racconta. L’artista creatore diventa artista illustratore, supplendo alla genuinità dell’ispirazione con l’abilità dell’artigiano, il quale non sentendo più la sua materia dal di dentro la completa estasiato dal di fuori.
Momenti in cui Pasolini si compiace nel film ce ne sono molti, come si è già in gran parte visto: il ricorso ai maestri della musica, della pittura (da Giotto ai manieristi del 600), del cinema (significative le parentele con certi registi epico-lirici, da Rossellini a Eisenstein e Mizoguchi), la scelta dei personaggi noti per dare il volto ai personaggi evangelici, lo scorrere carezzevole della macchina da presa sui visi e sui paesaggi. Ma, almeno in questo film, Pasolini si compiace con tanta sobrietà da esercitare un fascino stregato sugli spettatori non prevenuti.

Fonte:
http://digilander.libero.it/paroleepensieri/p&p/pasolini.htm


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Il Vangelo secondo Matteo - Valori etici e sociali (di Pier Paolo Pasolini)

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Eretico e Corsaro


Il Vangelo secondo Matteo

(regia di Pier Paolo Pasolini)
Scheda informativa curata dal Centro Studi Sampaolofilm, allegato alla videocassetta "Il Vangelo secondo Matteo", Cineteca Mastervideo)
Valori etici e sociali

Anticipando in sintesi l’analisi che segue, si può dire che il Cristo de Il Vangelo secondo Matteo è un Cristo alla Giovanni Battista (quasi da Vecchio Testamento) immerso in un’atmosfera socio-culturale "pasoliniana", cioè verosimile ma ripensata e filtrata attraverso l’incandescente intelligenza di Pier Paolo Pasolini.
Così il regista stesso spiega le proprie angolazioni di lettura del Vangelo di Matteo: «Ho ricostruito quel mondo di duemila anni fa sotto il segno dell’analogia: al popolo di quel tempo ho sostituito un popolo analogo (il sottoproletariato meridionale); al paesaggio ho sostituito un paesaggio analogo (l’Italia meridionale); alle sedi dei potenti delle sedi analoghe (i castelli feudali dei normanni), ecc. ecc. (...) Soltanto attraverso lo storicismo io potevo concepire e poi attuare una simile ricostruzione analogica” (...). Protagonisti del mio film mi sembrano sia il sottoproletariato (fondamentalmente astorico, e storico solo attraverso sussulti improvvisi) che Cristo (astorico in quanto la sua prospettiva andava al di là della storia). Ma l’affacciarsi alla storia di quel sottoproletariato avviene proprio attraverso la predicazione di Cristo.
Le masse che lo ascoltano e lo seguono hanno un peso politico, e determinano una svolta storica nella loro società e nell’intera società. Ecco qual è lo storicismo non scolastico non strumentale del film» (P. P. Pasolini in "Vie nuove", 19-11-64, p. 32).
In tal modo Pasolini rinuncia alla ricostruzione storica, fondata sulla fedeltà "archeologica", per mettere in risalto i significati ideologici del messaggio evangelico e del personaggio Cristo.
Però, nonostante le lodevoli intenzioni di Pasolini, la figura di Cristo ne esce ridotta alle proporzioni di un eroe mitico del quale si illustrano discorsi e azioni, senza tuttavia che questa illustrazione riesca a farne intendere le motivazioni profonde.
Uguale "stravolgimento" si ha nei confronti di personaggi importanti e di avvenimenti significativi del testo evangelico. Gli attori - o meglio i non-attori - spesso si muovono e parlano come se recitassero una lezione ben imparata: gli effetti che se ne ottengono sono non di rado esteticamente apprezzabili, ma sterili risultando atti e parole svuotati del loro significato originario ed essendo solo esterno il legame tra immagini e parole. Lo stesso mirabile discorso di Gesù, oltre alla concitazione emotiva ed este­tica del volto, sempre più in primo piano e della voce sempre più aggressiva, non concede altro alla fede o all’interrogativo di chi vuol sapere chi è veramente Gesù al di là della sua dimensione umana così icasticamente messa in risalto da Pasolini.
Certi elementi soprannaturali che Pasolini recepisce dal racconto evangelico, come le apparizioni dell’angelo, sono resi con fedeltà letterale, ma non sembrano più che favolistici elementi narrativi: il significato di intervento di Dio attraverso la loro mediazione non è evidenziato e neanche suggerito. Si spiegano così anche le "omissioni". Come è stato giustamente osservato: «Tutte le parole incise sulla colonna sonora sono, è vero, di Matteo, ma tutti i silenzi, tutte le omissioni sono (né potrebbe essere altrimenti) di Pasolini» (Dario Zanelli in «Il resto del carlino», 5-9-64).
Alcune omissioni non inficiano sostanzialmente la figura di Cristo, per esempio quelle che riguardano certi miracoli (la risurrezione della figlia di Giairo, la guarigione del servo del centurione, gli indemoniati di Gadara, i due ciechi, i ciechi di Gerico, il fanciullo epilettico, la cananea); invece le omissioni riguardanti i discorsi alterano, per lo meno, il significato di certe scelte operate da Gesù. Per fare qualche esempio: non si fa cenno del discorso escatologico, non sono sufficientemente marcati la missione degli apostoli e il primato di Pietro che invece sono tra i temi più propri del Vangelo di Matteo.
Il messaggio di Gesù ne viene fuori impoverito, ridotto com’è alle proporzioni di un messaggio di giustizia e di riscatto rivolto soprattutto ai poveri. Interpretazione legittima ma incompleta, perché trascura il contenuto più largamente spirituale, l’essenza divina del Vangelo.
Il centrare poi tutta l’attenzione su Gesù, facendo degli apostoli quasi esclusivamente dei testimoni delle sue «gesta», rischia di fare apparire la predicazione di Gesù una realtà magica che, per il fatto di essere esistita una volta, dovrebbe per virtù propria risuonare nel mondo di secolo in secolo e, sempre per virtù propria, suscitare nuovi credenti. E la Chiesa di cui parla Matteo che significato avrebbe nelle intenzioni di Gesù?
La parzialità e l’incompletezza della visione di Pasolini si spiegano col fatto che in realtà, come si è più volte sottolineato, lui non racconta la storia di Gesù-Dio, ma la storia di un mito religioso, quale fu vissuto da un popolo in miseria, oppresso da soldati stranieri e da una prepotente classe dirigente. Trascura l’altra angolazione che un autore, rispettoso della verità, ma che voglia affermare il proprio (più conclamato che reale) ateismo anche di fronte alla figura di Cristo, avrebbe dovuto e potuto adottare: mostrare il Cristo come lo "vedono" l’autore del Vangelo e la tradizione cristiana.
La sua fedeltà-infedeltà al testo di Matteo - fedeltà (non integrale tuttavia) alla linea narrativa, infedeltà alla linea tematica - ha depotenziato un’opera esteticamente significativa, facendo di quella che doveva essere un’interpretazione oggettiva del testo di Matteo una visione personalistica, anche se ortodossa nell’intelaiatura generale e nel rispetto materiale della lettera. Per questo motivo non si può riconoscere ne Il Vangelo secondo Matteo un’opera cattolica o almeno cristiana.
C’è presente, però, un soffio di autentica spiritualità che il credente potrà integrare attraverso la propria fede e il proprio affiato religioso. Ed è certamente un’opera meno mistificante, più riverente e più valida di tante grossolane commercializzazioni della Bibbia in generale e del Vangelo in particolare. Come tale è degna del massimo rispetto e della massima attenzione.

Fonte:
http://digilander.libero.it/paroleepensieri/p&p/pasolini.htm


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Il Vangelo secondo Matteo - I critici hanno scritto (di Pier Paolo Pasolini)

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Il Vangelo secondo Matteo

(regia di Pier Paolo Pasolini)
Scheda informativa curata dal Centro Studi Sampaolofilm, allegato alla videocassetta "Il Vangelo secondo Matteo", Cineteca Mastervideo)
I critici hanno scritto

"Il Vangelo secondo Matteo che Pasolini ha ideato e diretto si inserisce in una linea che ha, quale unico significativo antecedente, Francesco, giullare di Dio di Rossellini. Mentre, però, il “Francesco” è un film “religioso”, in senso generico, perché legato nell’ispirazione, nel tema, nell’ambiente a dei limiti più ristretti e limitati nel tempo e nell’assunto, “Il Vangelo” è un’opera che si rifà all’essenza stessa del cristianesimo, ne rappresenta i cardini, al punto che la sua tematica diviene generale e si ramifica nelle coscienze partendo appunto dal nocciolo fondamentale. Ecco il valore "religioso" più ampio e più universale del film di oggi, il quale ha, sul piano estetico, un limite obiettivo nelle strutture che Pasolini ha scelto - la fedeltà assoluta all’impianto narrativo e drammatico di Matteo, alle parole stesse di Matteo - ma all’interno di tale struttura si muove con la massima libertà di ispirazione e di stile. E un suo pregio grande, infatti, è il legare con precisi rapporti di cultura letteraria e figurativa il mondo religioso e storico del Vangelo e della Palestina di duemila anni or sono alla perenne validità del messaggio di Cristo e della riaffermazione di una situazione storica ancor oggi durevole, nelle linee fondamentali (...). Il film è ora descrittivo, ora introspettivo, ora tragico. Pasolini ha sentito soprattutto un Cristo carico della più profonda e sofferente natura umana - quella che così in evidenza traspare da Matteo - per parlare agli uomini e essere da loro inteso, e per risvegliare la loro sensibilità religiosa".

(Giacomo Gambetti in "Cineforum", 1964, n. 38-39, pp. 827-828)

"Pasolini realizza il suo film secondo un modulo accessibile a tutti, spoglio di richiami culturali, critici ed esegetici, vivacemente inserito, invece, nelle più succose tradizioni dello spettacolo popolare e delle sacre
rappresentazioni cui la partecipazione del popolo conferisce un’ingenuità ed una stilizzazione al di là di ogni limite strettamente tecnico, e garantisce un’intima autenticità, che sembra persino prescindere dalla veridicità dei connotati espressivi.
Pasolini ha intuito, aderendo al testo di Matteo, la sconvolgente rivendicazione di tutto il destino dell’uomo operato da Gesù ed è abbagliato da questo radicale capovolgimento di valori, che ha tutte le caratteristiche di una rivoluzione (...). Ma (...) Pasolini ha affermato la terribile serietà del Vangelo. Egli fissa l’austera vitalità del Messia, che è venuto sulla terra per farsi uomo tra gli uomini, povero tra i poveri, perseguitato tra i perseguitati. In questo racconto c’è poco spazio per i sorrisi. Questo Gesù si muove con un atteggiamento profetico consono ai suoi tempi ed alla sua gente e, nonostante talune doverose riserve, apre un discorso squisitamente interiore, che forse una più tenera enunciazione avrebbe diluito o frenato. Ma il film ha un altro grosso merito:
manda in frantumi una secolare tradizione figurativa ed introduce un’impostazione estremamente impegnativa, che, se potrà essere discussa, non potrà certo essere onestamente ridicolizzata Questo modo di fare il cinema implicava il rischio di affievolire la ricchezza del racconto di Matteo. In verità, nel film non mancano i fatti e le parole che provano la divinità di Gesù. Può invece essere messa in discussione la presenza di un senso del soprannaturale, che conferisca un peso specifico a certi fatti ed a certe parole".

(Renato Buzzonetti in «Studi Cattolici», 1965, n. 46, pp. 55-56)

«Col Vangelo secondo Matteo Pier Paolo Pasolini si è presentato a Venezia con la sua più matura opera cinematografica. Intuizioni in termini di puro linguaggio cinematografico, Pasolini le aveva già palesate in Accattone, Mamma Roma e La ricotta. Ma col Vangelo lo scrittore-cineasta ha mostrato di saper risolvere problemi che finora il film in costume aveva fatto ritenere quasi sempre insolubili. Ad esempio riuscire a dare spirito dì autenticità alle storie narrate ed ai personaggi storici o pseudostorici presentati. Nel Vangelo la intuizione più geniale, ed al tempo stesso più semplice, è stata quella di dare carattere di sacra rappresentazione popolaresca (come quella di Isnello, ad esempio) alla tragedia di Cristo.
(...) Come è data dai costumi e dalle scene idealizzate (dove si vede anche una trifora senza tempo) l’unità stilistica del film è data anche dai paesaggi in campo lungo, crepati, visti accanto ai letti dei torrenti e alle rocce: e si ricordi il campo lungo che precede la sequenza del Battesimo. Le case di Matera hanno una impronta di reale decomposizione quale è propria del paesaggio biblico. Si sente il vento e la sabbia che tutto rode. L’omogeneità è creata anche dai tipi impiegati, attori e comparse, attraverso facce vissute, ora drammatiche, ora ilari, di una sofferenza e letizia autenticamente cristiane. E gli interpreti, qualunque fosse il loro molo, hanno trovato, a partire dal catalano Enrique Irazoqui che impersona Cristo, e sulla indicazione della regia, il giusto tono ai loro atteggiamenti e alle loro azioni».

(Mario Verdone in «Bianco e Nero, 1964, n. 8-9, pp. 17-19)

«Il Vangelo di Pasolini segue in molte cose la traduzione narrativa del quadro vivente: è concepito come un seguito di scene senza articolazione interna, giustapposte l’una all’altra secondo il filo indicato dal Vangelo, al di fuori di qualsiasi necessitazione storica (...). E’ ovvio che la “sacra rappresentazione” di Pasolini sia prettamente cinematografica: Cristo vive e agisce in una terra primitiva e misera, popolata da gente che ha i volti di sempre, le mani ed i lineamenti dei poveri, i segni della fatica e degli stenti sul volto.
(...) Il Vangelo di Pasolini è soprattutto un Vangelo di uomini, di volti. L’uso insistito degli obiettivi a fuoco lungo contribuisce a sottolineare costantemente la prevalenza del volto sul paesaggio e dell’individuo sulla folla»

(Leandro Castellani in «Rivista del Cinematografo», 1964, n. 9-10, pp. 430-431)

«Pasolini è un idealista, un irrazionale, un decadente; la sua sincerità arriva allo scandalo e alla contraddizione. E’ anche un narcisista; non si libera da sé stesso, dal proprio destino, si vede “crocifisso” dalla classe che odia e la figura del “povero Cristo” diventa per lui il modello della sua propria prova esistenziale (...). Il Vangelo, a veder nostro, è opera di alta illustrazione. Diciamo illustrazione, non interpretazione, anche se siamo davanti a un film intenso e nuovo. Illustrazione non soltanto per la bellezza figurativa, ma per questa impossibilità di cercare una risposta alle contraddizioni di Pasolini (...). Dicevamo: le contraddizioni di Pasolini. Non parliamo da borghesi, da piccoli borghesi. Cioè non diciamo parla bene e razzola male, ci vuol altro. Pensiamo alle contraddizioni del vero cristiano, alla sua quotidiana battaglia, alla durissima battaglia contro sé stesso, per perfezionarsi, per santificarsi. Pasolini, col suo Cristo, battaglia solo contro gli altri e gli altri sono per lui una determinata classe, molto vasta, molto labile, ma per lui facilmente e schematicamente circoscritta nel ceto borghese. Se Pasolini, secondo la mistica di Pascal, di Bernanos, si liberasse da sé stesso, trovasse la vera Grazia e non un semplice, ambiguo accomodamento, sarebbe probabilmente un grandissimo artista. Ha ancora molti paraventi da abbattere. Ha comodi paraocchi da gettare nella polvere. Deve "disimpegnarsi" rivoluzionariamente d’idealismi troppo schematici. Deve vedere sè stesso meno crocifisso e più crocifissi, per contro, gli altri, magari i suoi nemici o forse i suoi amici».

(Giuseppe Torroni in «Primi Piani», 1964, n. 11-12, pp. 26-27)


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Pasolini ritratto da Dino Pedriali

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Pasolini ritratto da Dino Pedriali
Elio Grazioli e Marco Bazzocchi presentano il volume che raccoglie gli scatti di Dino Pedriali dedicati a Pier Paolo Pasolini

Durante la seconda e terza settimana di ottobre del 1975 un giovanissimo ma già acutissimo Dino Pedriali ingaggia un corpo a corpo fotografico con il grande Pier Paolo Pasolini, all’apice del suo successo, che verrà assassinato di lì a pochi giorni.
Una prima sessione fotografica ha luogo a Sabaudia, nello studio del Poeta, intento al lavoro, per le strade della città, in automobile – la “mitica” Alfa 2000 – e a piedi.
Una seconda sessione si tiene pochi giorni dopo nella casa immersa nella vegetazione che il poeta ha fatto costruire ai piedi della Torre di Chia, vicino a Viterbo, cui Pedriali dedica alcuni scatti.
Qui Pasolini di nuovo scrive, disegna anche, poi dialoga silenziosamente con il fotografo, guarda in macchina, lo fissa, infine si spoglia e si muove per casa nudo, mentre Pedriali lo fotografa dall’esterno, attraverso le finestre, quasi a volersi nascondere in un gioco di presenza-assenza tra lui e Pasolini. A un tratto Pasolini si accorge di lui (o forse non lo vede più?) e sembra cercare qualcosa oltre i vetri, alzando le mani agli occhi per ripararsi dai riflessi.
Per Pasolini mettersi nudo può significare, come nei suoi film, esibizione di quello che si è, naturali e diretti, e insieme provocazione, esposizione a ogni rischio e scandalo (in quel momento sta scrivendo Petrolio, quasi sicuramente proprio su quei fogli che vediamo nelle fotografie di Chia). Per Pedriali questo incontro si trasformerà soprattutto in una sfida: diventare un grande fotografo di nudo maschile sarà per lui un obbligo per “salvare il Corpo Nudo di Pasolini”, proteggerlo e consegnarlo intatto alla Storia.

Dunque: il nudo del Poeta, il Poeta messo a nudo dal fotografo, anche... anzi in tutti i sensi. Ecco il Poeta alla scrivania con i suoi strumenti, la macchina da scrivere, la penna, i fogli. È concentratissimo, che è già un modo di essere “nudi”, esposti allo sguardo indagatore dell’altro. Oppure è in giro per le strade della città, in posa, guidato dalle indicazioni del fotografo, un poco imbarazzato, che è un’altra forma di nudità.
Qualche giorno dopo, nella casa nascosta, il Poeta si spoglia. Ora è fisicamente nudo, al riparo della sua stanza ma volontariamente in mostra – perché è stato lui a voler essere fotografato così –, disinvolto ma al tempo stesso in posa, mentre lo sguardo del fotografo scruta anche il fuori, la casa, il bosco, la strada, il cancello chiuso.
Prima, ancora vestito, il Poeta lavora, scrive, legge, disegna, poi, una volta nudo, è il fotografo a lavorare, a “scrivere” nel suo linguaggio di luci e ombre, di riflessi e tagli, di messe a fuoco e sfocature.
È una narrazione a doppio binario, in cui due scritture si intrecciano, il fotografo si nasconde e il Poeta guarda fuori dalle finestre, lo cerca attraverso la stratificazione dei riflessi e delle ombre, delle luci e delle sfocature, attraverso la scrittura dell’altro. La posizione si è capovolta. Ora il Poeta è davvero nudo in senso totale.

Situazione davvero singolare questa messa in scena voluta dal Poeta, ma poi gestita dal fotografo. Non si sa più chi è dentro e chi è fuori, non tanto dalla casa quanto dalla fotografia: il Poeta guarda verso di noi, sembra cercare dentro la fotografia, mentre siamo noi in realtà a guardare l’immagine, ma a questo punto non sappiamo più dove stiamo guardando. La superficie dell’immagine è una soglia trasparente attraverso cui le parti si scambiano, i mondi si versano l’uno nell’altro.
Ora, anche guardando le prime foto del Poeta vestito, vediamo come Pedriali lavori lo spazio, i primi piani, le sfocature, per farci entrare dentro l’immagine, dentro il mondo abitato da Pasolini.
Destino vuole che queste immagini siano così vicine alla morte del Poeta da esserne segnate, cosicché il gioco delle trasparenze e delle soglie diventa metafora anche della morte, passaggio anch’essa tra due momenti, spazi e tempi, separati ma collegati. D’altro canto, per la fotografia questo è per così dire consustanziale: l’attimo della fissazione dell’immagine è sempre passato; noi guardiamo sempre dentro una stratificazione temporale, gioco di momenti, loro echi, riverberi, ritardi, anticipazioni.
L’efficacia straniante di queste immagini di Pedriali sta forse oggi proprio in questo raddoppiamento: anche noi, vicinissimi eppure così distanti, guardiamo attraverso il tempo un corpo conservato ad arte.
Elio Grazioli




Quando gli Anni Sessanta
saranno perduti come il Mille,
e, il mio, sarà uno scheletro
senza più neanche nostalgia del mondo,
cosa conterà la mia “vita privata”,
miseri scheletri senza vita
né privata né pubblica, ricattatori,
cosa conterà!
(Poesie mondane)





Si potrebbe applicare un vero e proprio sistema di catalogazione alla serie dei 77 scatti che Dino Pedriali fece a Pasolini nella seconda e terza settimana di ottobre 1975, in due sedute distanti cinque giorni e collocate in due luoghi diversi: Sabaudia, città amata per le architetture fasciste che mantenevano una “forma” in mezzo al magma dilagante, e Torre di Chia, località scelta come rifugio negli ultimi anni (lì voleva ritirarsi a scrivere musica, in una valle che gli ricordava l’Ariosto e la selva delle Ardenne). Sabaudia: città percorsa da un Pasolini solitario che passeggia, che posa accanto alla Giulietta GT (l’auto dell’ultima corsa, dell’ultima notte: la macchina della morte), e che sembra guardare nel vuoto, come se l’umanità fosse scomparsa e lui ne restasse l’unica testimonianza: “Forse è scoppiata, / la Bomba, fuori dalla mia coscienza. / Anzi, è così certamente. E la fine / del Mondo è già accaduta: una cosa muta, calata nel controluce del crepuscolo. / Ombra, chi opera in questa èra” (Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa). Torre di Chia: una costruzione medievale, un rudere riadattato a rifugio, grandi vetrate che si aprono sui boschi, arredamento essenziale. Potremmo catalogare le pose (in piedi, in cammino, fermo, seduto alla macchina da scrivere, piegato al suolo sui fogli per disegnare a china, appoggiato a un divano, nudo in piedi, nudo sul letto), potremmo catalogare i tagli dell’immagine (campo lungo, primo piano, primissimo piano, sguardo in macchina, ma molto spesso colto da dietro, dalle spalle), gli abiti (i jeans, la camicia jeans, il pullover a rombi, la camicia bianca di tessuto operato), e infine gli spazi, i set (le strade, l’esterno della torre, il vialetto d’accesso, l’interno della torre, il salotto, lo studio, la camera da letto). Ognuna di queste inquadrature racconta qualcosa, ma ancora di più rimanda a luoghi delle opere, a testi poetici lontani dove Pasolini invoca l’acquisto di una casa e ne descrive l’arredamento, alle dichiarazioni su come si modifica la città e il paesaggio italiano, alla presenza dell’automobile come mezzo di rapporto con il mondo, alla figura di Roberto Longhi (è lui il soggetto dei disegni a china) e quindi alla formazione bolognese, all’amore per l’arte, al cinema.
Sono tutte catene di testi che portano qui, a quest’ultimo pezzo di vita, a questi ultimi giorni, a una macchina fotografica in mano a un ragazzo che aveva già conosciuto e fotografato un grande artista, Man Ray, e che conoscerà poi Andy Wharol.
Ma il fatto più interessante che si collega a queste fotografie (al di là della loro indubbia bellezza) resta però capire la loro funzione, perché Pasolini le ha commissionate a Dino Pedriali, perché soprattutto Pasolini ha voluto che restasse traccia di sé nel privato, nell’assolutamente privato della stanza da letto e del corpo nudo (la moda dell’intellettuale che si fa ritrarre nudo è forse anticipata da d’Annunzio sulla spiaggia di Pescara, ma dopo Pasolini si avrà una lunga sequenza, da Yves Saint Laurent a Achille Bonito Oliva).

Già un’altra opera non finita e uscita postuma, La divina mimesis, reca in appendice una Iconografia ingiallita dove con una serie di foto (un montaggio) Pasolini riprende alcuni dei nuclei del testo e li rende leggibili attraverso l’impatto visivo dell’immagine. Tra queste foto c’è anche lui in compagnia di Gadda, cioè con il “maestro” di una scuola espressionista e dantesca (pluringuismo: non manca una foto di Gianfranco Contini) a cui Pasolini genealogicamente si ascrive. Gadda rappresenta, in un certo senso, un Virgilio mite con cui Pasolini vuol rifare il viaggio: il suo corpo “comico”, imponente, pesante (femmineo?), è il contrario del corpo di Pasolini, rapido, agile, muscoloso. Gadda è un padre, ma il suo ingombro fisico non corrisponde a un reale ingombro intellettuale, dal momento che in lui la paura prevale su tutto (Contini pesa di più, ma con lui non c’è da lottare, perlomeno fino agli ultimi giorni, mentre con Longhi il rispetto è assoluto, Edipo viene abbondantemente tenuto sotto controllo da Narciso, figura manieristica e quindi longhiana).
Ma con le foto di Pedriali le cose cambiano. Pedriali è stato scelto, e il suo lavoro deve entrare in un progetto. Secondo il diretto interessato (che lo ribadisce anche ora, in occasione dell’uscita del nuovo volume) le foto dovevano diventare il corredo iconografico di Petrolio, romanzo contenitore, “satura lanx”, oggetto non identificabile (espressione che non ha niente a che fare col NIE dei Wu Ming), racconto allegorico e politico, collettore di tutte le ultime esperienze intellettuali, e forse (perché no?) anche contenitore del “corpo” dell’autore, che in questo modo entra a contatto col corpo del suo personaggio “doppio”, Carlo di Polis e Carlo di Tetis, che a sua volta viene modellato su alcuni tratti paterni (la nascita ravennate, la collusione col fascismo, la dissociazione ecc.). Così, corpo dell’autore e corpo del personaggio avrebbero trovato convivenza nello spazio simbolico del testo, e il figlio si sarebbe rispecchiato nel padre, esattamente come l’esterno della torre (alberi, cielo) si rispecchia attraverso le grandi vetrate nell’interno e crea quell’effetto di riflesso e di trasparenza che Belpoliti ha analizzato nel suo Pasolini in salsa piccante. Infine l’autore, da figlio diventato a sua volta padre, cioè maestro, si dà in pasto ai lettori, diventa corpo consumabile dalla rapacità di un occhio che da fuori lo spia mentre sta operando il triplice rituale di un artista completo: scrivere, dipingere, leggere. L’occhio di Pedriali, cioè l’occhio del “fuori”, non a caso è spesso dietro l’autore, un po’ più in alto della nuca, e lo coglie mentre scrive (c’è uno scatto, intenso, dove l’arco del braccio e della mano cui si appoggia la testa formano una specie di cornice circolare scura, dentro la quale, al centro, si apre lo spazio della pagina dattiloscritta sfocata, così come ce ne sono altri dove vediamo le mani che pigiano i tasti, o impugnano la biro per le correzioni).



Stefano Agosti, a uscita calda di Petrolio, ha ipotizzato che il romanzo fosse una grande macchina per mettere in scena la morte e la reinfetazione, cioè due movimenti oltre la vita, il primo oltre il limite, il secondo prima del limite. In questo caso l’inserzione delle foto può convalidare l’idea che Pasolini volesse seppellire dentro il romanzo-cripta anche l’immagine di sé, in un certo senso esporsi lì non per un atto narcisistico (estetizzante) ma esattamente per il suo contrario, cioè per far entrare un’immagine di sé nella circolazione di sensi dell’opera e quindi annullarsi esattamente come racconta uno dei personaggi all’interno di un appunto (il 99), dove si parla di un uomo che crea un mondo di altri uomini (come in una creazione post diluvio universale) e poi decide di distruggerli annullando infine se stesso dentro il mare (Thalassa di Ferenczi è uno dei libri che nutrono Petrolio, e l’idea di un annullamento nel liquido amniotico viene formulata da Pasolini anche in altre sedi). Credo che Petrolio sia un grande libro “comico”, nel senso bachtiniano (tutto viene messo in contatto con tutto, alto e basso si scambiano i ruoli), e che il principio di un romanzo che cresce all’infinito per superfetazione di parti fino a annullarsi in quanto puro contenitore corrisponda al progetto dell’ultimo Pasolini, cioè all’idea di rompere i confini tra generi e mescolare le carte per poter arrivare a un nuovo “ludo” (termine dantesco usato nel romanzo). È il gioco che mette in crisi tutti i giochi e rilancia l’ipotesi di un’apertura verso l’esterno, in modo tale che i confini non esistano se non quanto barriere da attraversare di continuo. L’opera porta all’estremo quella “fissazione cannibalica” (così Siti) che nasce alla metà degli anni ’60 e si riversa subito nel teatro e nel cinema (Porcile: essere mangiati dagli animali nel fango per dare scandalo, Uccellacci e uccellini: mangiare per sopravvivere e assorbire le idee di un animale dell’aria).
Se le cose stanno così, allora possiamo dire che Pedriali ha conservato un corpo che adesso riacquista il ruolo di frammento ulteriore (scritto non con l’inchiostro ma con la luce) all’interno di un’opera per la quale non è concepibile la parola “fine”: Pasolini scriveva Petrolio, preparava Scritti corsari (sono le pagine dattiloscritte che intravediamo), raccoglieva Descirizioni di descrizioni, girava Salò, pensava al nuovo film di cui rimane lo script, Porno-Teo-Kolossal, ripubblicava invertendone i valori le poesie friulane delle origini (La nuova gioventù). La morte ha messo la parola fine a tutto questo e ha rimontato l’insieme dei pezzi in un tutto che va preso in considerazione in quanto tale. Il senso del film (come teorizzava Pasolini) nasce nel momento in cui la morte compie l’ultimo montaggio, chiude nel finito l’infinito della vita, conferisce sensi a ciò che, essendo aperto, restava ambiguo e infinito.

Assumo ora tre modelli interpretativi per arrivare a un’esatta collocazione delle fotografie nel contesto dell’ultimo Pasolini. Il primo è un modello mitico. Viene dalla lettura che dà Vidal-Naquet dell’Edipo a Colono, in particolare dello spazio simbolico che Edipo morente occupa, “fuori” da Atene ma in un certo senso dentro Atene, cioè collegato alla vita politica della città senza farne parte. Colono è un sobborgo, e Edipo non può entrare nella città vera perché porta con sé una maledizione: è “apolis” (“senza patria”, in quanto cacciato da Tebe) ma anche “apòptolis”, cioè “fuori patria”. Edipo dunque va a Atene portando le stigmate del capro espiatorio, ma il suo corpo, se seppellito in città, può portare beneficio alla città, per questo il grande sovrano senza regno (tragicamente) cerca un domicilio per la sua morte. Atene gli può offrire, in segno di rispetto per le regole morali, un luogo dove morire e lasciare il suo corpo, ma non gli può conferire la cittadinanza. Edipo diventerà un residente, un “meteco” privilegiato, ma rimarrà comunque ai margini, marcato fino alla fine dall’impurità (nessuno, nemmeno le sue figlie, potranno conoscere il luogo della sepoltura). Così Edipo si ferma a Colono, su una pietra all’entrata del bosco sacro, sotto la protezione delle Eumenidi, e si pone nel “sacro” ma fuori dal “politico”. Qui pronuncerà tutti gli ultimi discorsi, su una frontiera che gli consente di tornare uomo ma anche di essere fuori dall’umano.
Forse qualcosa di simile avviene nel passaggio tra Sabaudia e Torre di Chia. A Sabaudia Pasolini si sente ai margini della città (Roma), in una zona ancora non omologata, o perlomeno con tracce del passato che resistono alla distruzione fisica dei luoghi e alla alienazione della città. Qui, a Sabaudia, Pasolini può iniziare il percorso sulla frontiera da cui nascono le ultime opere, un percorso dove il sacro è in lotta irrisolvibile col politico, il dentro col fuori. Si fa riprendere per le vie di una città deserta, accanto a un’automobile che è un prodotto del neocapitalismo con cui lui corre nel mezzo del neocapitalismo, quasi per lasciarselo alle spalle cercando strenuamente vie di fuga. In una città nata secondo il modello della arcaica modernità fascista Pasolini cerca quello che non esiste più nelle città del nuovo capitalismo. A Chia siamo in uno spazio privato, altrettanto sacro, ma potenziato dagli atti che l’artista vi compie, atti che richiedono l’occhio del fotografo per restare fissati, per essere riprodotti, per entrare nel sistema di segni che fa di un’opera un oggetto inconsumabile e intoccabile (così sono Petrolio e Salò, simili, paralleli, intrisi uno nell’altro, ma opposti all’apparenza, ironico e lirico il primo, grottesco e tragico il secondo, ambedue funerei).



Qui Pasolini (è il secondo modello interpretativo) può procedere con il dispositivo dell’expositio sui che caratterizza gli anni settanta della sua produzione. È la pratica di cui parla Foucault e che corrisponde a quel gesto performativo compiuto più volte da Pasolini con il nome di “abiura” (si inizia in Poesia in forma di rosa, “Abiuro dal ridicolo decennio” e si finisce con l’abiura della Trilogia della vita). L’expositio (in questo caso in senso letterale: esposizione di sé alla luce per impressionare la pellicola) implica il rifiuto e la drammatizzazione pubblica della propria vita precedente al fine di assumere una nuova immagine di sé che corrisponde alla verità. “Ego non sum ego: questa formula … rappresenta una cesura con la propria identità passata. … L’autosvelamento è al tempo stesso un’autodistruzione” (Foucault, Tecnologie del sé). Così credo che funzioni il dispositivo di esibizione dell’ultimo Pasolini: niente che abbia a che fare con un progetto di suicidio (sia chiaro) ma solo con l’intenzione di allontanare da sé l’opera passata per poter rivendicare uno statuto di verità alla propria parola politica presente, a partire dal luogo “sacro” in cui nasce quella parola. Ogni opera di Pasolini è in realtà fondata su un’ipotesi di auto svelamento, non si tratta di una novità degli anni settanta, ma il fatto è che negli anni settanta Pasolini ne prende coscienza maggiore e ci lavora sopra sotto prospettive diverse.
Dunque bisogna mettersi sotto gli occhi degli “altri”, bisogna esporsi. E Pasolini chiede a Dino Pedriali di assumere il ruolo dell’occhio indiscreto. Il suo obiettivo diventa l’esterno del mondo che si rovescia nell’intimità della casa del poeta (Palazzeschi, a inizio secolo, aveva parlato di una “casina di cristallo”, e alcune performance dell’arte contemporanea hanno reinterpretato questo procedimento).

Occorre però fermarsi su alcune delle caratteristiche più evidenti di queste foto (in parte Belpoliti lo ha già evidenziato). Innanzitutto gli scatti che riguardano Pasolini chino al suolo a disegnare con la china il profilo di Roberto Longhi, ripreso dalla custodia del Meridiano Mondadori curato da Gianfranco Contini (dunque non uno ma due maestri, l’uno esplicito, l’altro implicito). Pasolini disegna il profilo di Longhi in decine di varianti, ne abbiamo un’idea guardando il pavimento ricoperto di fogli già pronti. Il profilo viene dalla foto del volume, ma è specularmente rovesciato: nel disegno Longhi guarda da destra verso sinistra, nella custodia del libro è il contrario. Una duplicità, un riflesso allo specchio (Carlo di Polis e Carlo di Tetis, nascono così, uno riflesso dell’altro). Si tratta di un motivo manieristico, quello dell’immagine rispecchiata, che Pasolini ama e conosce bene, fin dai suoi esordi quando rifà, in chiave espressionista, il Narciso chinato sulla fonte di Caravaggio (oggi attribuito allo Spadarino). Narciso chinato che si guarda, Pasolini chinato che rifà Longhi, si specchia in Longhi, a sua volta specchiato: un effetto di illusione in cui lo specchio apre una realtà virtuale, e in questa realtà Pasolini disegna Longhi (o se stesso “in forma” di Longhi?). L’effetto di realtà virtuale, sospesa, protetta in una specie di involucro trasparente percorre tutte queste foto. Pedriali dice in una nota finale che ha protetto il corpo di Pasolini. In effetti è così, ma non credo che lo abbia protetto in questi decenni: lo ha protetto iscrivendolo in un mondo “altro” nel momento in cui lo stava fotografando.

Per il terzo modello di interpretazione (che in un certo senso riassume i due precedenti) prendo il concetto di “eterotopia” elaborato sempre da Foucault nel 1967. L’eterotopia è uno spazio anomalo che apre un’altra dimensione nello spazio comune (Foucault si rivolgeva a studiosi di architettura, ma quel breve discorso radiofonico contiene molte idee interessanti). Le eterotopie implicano i luoghi e i tempi dove avvengono i cambiamenti (la pubertà, l’iniziazione) ma anche dove si entra per subire una trasformazione imposta (gli ospedali, le carceri, i manicomi, i cimiteri). Caratteristica delle eterotopie è di essere spazi in cui vengono sospese le regole degli spazi normali: hanno statuti diversi, costituiscono un vuoto nelle società moderne, ma in un certo senso al loro interno avvengono fatti di cui quelle società hanno bisogno (i bordelli sono eterotopie, ad esempio). Le stanze di Torre di Chia aprono uno spazio eterotopico, cioè ci danno l’illusione di entrare dentro un luogo in cui si sta consumando una trasformazione di cui siamo spettatori. Siamo lì e nello stesso tempo siamo fuori, soprattutto quando guardiamo Pasolini nudo.
Belpoliti ha letto benissimo negli effetti specchiati delle foto di Pedriali quell’elemento che rende il corpo nudo di Pasolini una realtà da cui emana stupore. Come se lo sguardo del fotografo si fosse completamente rovesciato sul suo oggetto, “guardandolo attraverso l’obiettivo della macchina si è come ricordato di sé in quello che vedeva”. Vediamo Pasolini nella stanza da letto, nudo, mentre compie varie azioni: si avvicina a un comò di fattura semplice, si siede, si stende sul letto ricoperto da una coperta candida dalla lavorazione artigianale, prende in mano un libro (è un Millennio Einaudi) e legge. Le cosce sono spesso divaricate, il sesso ben visibile anche quando la foto sembra sfocata. Il tutto è visto da fuori: Pasolini ha voluto un frame, una finestra tra lui e il mondo ( a un certo momento indaga verso il buio esterno, con le mani a binocolo sugli occhi – è il gesto finale dei Signori di Salò - come se avesse sentito dei passi che si muovono all’esterno). Aveva detto, proprio a proposito di Longhi e di Caravaggio, che Longhi aveva insegnato come il mondo di Caravaggio raggiungesse il massimo di realtà proprio perché era sospeso all’eternità grazie al dispositivo visivo dello specchio, che il pittore utilizzava per isolare i particolari del mondo. Li fermava e li rendeva eterni, perfetti nella morte. Così possiamo spiegarci anche la sequenza degli scatti: prima vestito (camicia, pullover, jeans) al tavolo di lavoro, con la Lettera 22, poi in camicia bianca mentre è curvo sui ritratti di Longhi, poi nudo nella stanza: una sequenza perfetta, tenuta insieme da un corpo che lentamente si espone allo sguardo di qualcuno che, da fuori, lo coglie nell’intimità.



Essere posseduti è più divino di possedere, scrive in Petrolio, perché possedere significa entrare in rapporto con un altro corpo, essere posseduti invece entrare in rapporto con la vastità del cosmo, perdere il senso di sé. Pedriali è riuscito a iscrivere in queste foto qualcosa di simile. Potremmo pensare che proprio la sua gioventù, l’entusiasmo di collaborare con un grande artista e l’emozione di coglierlo realizzando un progetto così deciso abbiano dato al suo lavoro le caratteristiche di quell’incanto visivo che oggi (proprio per la distanza) sentiamo negli scatti. Un incanto dove si intrecciano seduzione (il corpo nudo, il sesso esposto) e coloritura funerea, attrazione e distanza. Esattamente come nelle scene erotiche di Petrolio si sente la perfezione della descrizione degli organi sessuali insieme alla freddezza stilistica. E come in Salò il grottesco e l’erotico si uniscono impedendo una vera empatia con quanto vediamo.
Credo che tutto questo abbia a che fare con quell’atmosfera anomala ricondotta da Foucault alle eterotopie, luoghi che sembrano aperti ma che in realtà funzionano come illusioni e a loro volta svelano le illusioni del mondo cosiddetto reale. Oppure tutto è riconducibile a quella pietra sacra dove Edipo sosta ragionando sulla propria fine e cercando di ottenere una tomba dagli ateniesi.

In un testo poetico rarefatto e oscuro dove la lingua greca si alterna al friulano, Lengas dai frus di sera (Linguaggio dei fanciulli di sera) sentiamo nel primo verso proprio la voce di Edipo, tratta dal testo di Sofocle: “ … a quale aperta campagna siamo giunti o alla città di quali uomini?”. Un’altra voce gli risponde, in dialetto: “No, taci, non siamo qua. Qua io sono il padrone / di una torre e di un bosco”. Il padrone di una torre e di un bosco: qui è Pasolini che parla, e si rivolge a un se stesso Edipo in cerca di pace. Alla fine, dopo aver scambiato alcune battute di un dialogo paradossale, la voce friulana dichiara di avere poco tempo da vivere e di non essere più padrone: questo è un piacere sconosciuto ai giovani. Per riuscire a diventare “lizèir” (leggero) il vecchio deve lasciare ai giovani tutto, e andarsene felice. In un luogo preciso (la torre e il bosco) ma anche indefinito (“non siamo qua”) è avvenuta la presa di coscienza che consente il passaggio da un mondo all’altro. Edipo conclude, rivolto alla figlia Antigone, “… su, figlia, fammi fermare / o presso luoghi profani o presso sacri recinti di dèi …”. Cerca un aiuto per oltrepassare una frontiera, un modo di iscrivere il proprio corpo maledetto in uno spazio di nuovo sacro (sacro perché separato dal mondo reale, protetto da un dispositivo di visione che lo conserva eterno e uguale). Questo Pasolini chiedeva a Pedriali, e questo Pedriali gli ha concesso grazie all’azione di un occhio esterno che penetrava nella scena preparata per un’esibizione definitiva. L’occhio di Pedriali ha realizzato in quelle due settimane una parte dell’opera di Pasolini (la parte estrema, anche se non poteva saperlo nessuno dei due). Oggi quest’occhio ci dà l’illusione di entrare nella camera da letto di un poeta ma in realtà ci lascia fuori da un luogo definitivamente chiuso. Ponendosi fuori dal mondo, è il disagio del mondo che Pasolini ci ha trasmesso in eredità, fissato sul suo corpo forte di uomo combattente e sul suo volto ossuto di uomo disperato.
Marco A. Bazzocchi

Fonte:
http://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/pasolini-ritratto-da-dino-pedriali

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