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martedì 31 dicembre 2013

Pasolini fra cinema e pittura - Pier Marco De Santi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 


Pasolini fra cinema e pittura
di Pier Marco De Santi
 

Dal vastissimo panorama bibliografico sulla personalità e sull'opera di Pier Paolo Pasolini si ricava netta l'impressione che tutto sia stato ormai detto e scritto. In realtà il "fenomeno Pasolini" — uno tra i più compositi, complessi, inquietanti dell'arte e della società contemporanee — è stato analizzato e posto al vaglio dei più sofisticati metodi di indagine. Per questo, un ulteriore approccio alla creatività pasoliniana (sia in ambito socio-politico, sia in campo storico-letterario, fino al frastagliato humus della storia delle arti) rischia di inabissarsi nelle acque melmose dell'ovvietà. 
Anche per uno studio relativamente meno sondato, quale è quello della grafica e della pittura di Pasolini, si tratta perciò di non incorrere in un pericolo: quello di dover riporre necessariamente le armi dell'analisi critica nelle casse polverose di una archiviazione generale. Archiviazione che, nel caso dei disegni di Pasolini, è stata fin troppo frettolosa. Di qui il desiderio di "riaprire il caso" e di individuare nuovi stimoli per uno studio più approfondito, nel tentativo di riproporre questo specifico aspetto dell'operatività di Pasolini come essenziale cornice di un complessivo quadro creativo, e non semplicemente come "curiosa" attività a margine, e neanche come elemento isolato a cui attribuire, ipso facto, patente di "opera d'arte". 
L'iniziativa lodevole di una esposizione e pubblicazione postume dei disegni e degli oli di Pasolini si deve a Giuseppe Zigaina, pittore e intimo amico dello scrittore-regista, a lui legato fino dagli anni del dopoguerra. La prima mostra dell'intero corpus grafico e pittorico di Pasolini è avvenuta nel giugno 1978 a Roma, a Palazzo Braschi: circa duecento tra schizzi, disegni, bozzetti, quadri, pubblicati nel bei catalogo delle edizioni Scheiwiller e accompagnati da scritti di Argan, De Micheli e dello stesso Zigaina. 
Un’altra occasione per una rilettura di questo intimo e viscerale diario figurativo pasoliniano è venuta da una ulteriore iniziativa, sempre a cura di Zigaina: la pubblicazione dello splendido volume Pier Paolo Pasolini: Drawings and Painting, realizzato in occasione di una recente mostra statunitense (febbraio/marzo 1984) organizzata dall'University Art Museum, University of California, Berkeley, e dall'Istituto italiano di cultura di San Francisco. La lussuosa veste grafica del volume e l'ottima qualità delle 104 riproduzioni a colori (una quindicina delle quali non presenti nel volume/catalogo di Palazzo Braschi), uno specifico scritto di Pasolini del 1970, pubblicato postumo, una nuova introduzione di Achille Bonito Oliva e una interessante puntualizzazione di Zigaina sono i fondamenti principali sui quali poggia la proposta al pubblico americano della produzione figurativa di Pasolini. 
Sulla base di una analisi comparata del contenuto dei due volumi sopracitati e degli scritti in essi riportati, a distanza di tanti anni, è ora giunto il momento di tentare un bilancio complessivo sulla qualità artistica delle pagine del singolare diario visivo pasoliniano, ma anche e soprattutto di iniziarne una lettura sostanzialmente rapportabile ai principali capitoli della vita e dell'attività creativa del loro autore. Così, i disegni e gli schizzi di Pasolini assumeranno anche il ruolo di tessere di mosaico che si innestano a riempire alcuni "punti neri" e a far luce su alcuni aspetti solo apparentemente marginali dell'eterogeneo universo dell'artista. 
Il giudizio degli storici dell'arte sulle "qualità artistiche" delle opere figurative di Pasolini è stato, fin dalla mostra romana, alquanto cauto. In effetti, l'intento dell'esposizione di Palazzo Braschi non era tanto quello della scoperta di un Pasolini pittore quanto quello — come si sottolinea nelle presentazioni al catalogo — di offrire un contributo in più «alla conoscenza della complessa personalità del poeta e del regista, dalla cui attività traspare in ogni momento l'appassionato interesse per l'immagine». Ha scritto Giulio Carlo Argan: «II vecchio pregiudizio della diversità, quasi di rango sociale, tra il lavoro intellettuale del letterato e quello del pittore, legato ancora alla manualità o all'artigianato del fare, benché rigettato per principio, sussiste nel fatto; e lo prova proprio la frequenza con cui gli scrittori sentono il bisogno di disegnare e dipingere, non si sa se per svago, per esercizio o per castigo. (...) Non ha senso chiedersi se Montale o Zavattini o Pasolini siano veramente dei pittori, è chiaro che non lo sono. È invece interessan-te vedere quali siano il posto e la funzione della figurazione nel qua-dro delle loro attività preminenti. Quant'acqua porta al mulino della loro poesia o narrativa o, magari, cinematografo? E quanta even-tualmente ne scarica, torbida di scorie inservibili?».
È sostanzialmente sulla base di queste premesse che si è inteso far conoscere la pittura di Pasolini anche negli Stati Uniti, pur se la presentazione di Bonito Oliva tendeva all'individuazione di un preciso atteggiamento stilistico nel processo figurativo pasoliniano. Scoprendo, nel vorticoso work in progress dell'artista, singolari affinità con i principali "luoghi deputati" del Manierismo italiano, il critico fa di Pasolini un tardo pronipote di quelle poetiche e di quel fenomeno artistico». 
La "forzatura" pare evidente; anche se è assolutamente incontestabile, al di là e al di sopra del Manierismo, il fatto che — come scrive Bonito Oliva — l'attività figurativa di Pasolini, come il suo continuo attraversare i confini delle sfere della letteratura e del cinema, non ha niente di casuale né di pateticamente dilettantesco. E questo ri-sulta chiaro fin dai primissimi disegni giovanili.
In un pressante e viscerale bisogno di misurarsi, di confrontarsi con la realtà, di prendere posizioni e distanze su tutto e su tutti, Pasolini non ha mai seguito alcuna scuola accademica, alcuna tendenza ufficiale, non ha mai ubbidito a nessuno stimolo che non premesse dall'interno della sua magmatica personalità. È’ stato, in tutti i campi espressivi nei quali si è misurato, un "autodidatta". Lo dimostra anche la pratica del disegno che, almeno agli inizi, Pasolini doveva considerare come un aspetto importante e assolutamente non marginale dei suoi primi passi creativi. 
Il più consistente nucleo di disegni finora conosciuti (circa un'ottantina di pezzi; oltre un terzo dell'intera produzione) appartiene, infatti, agli anni 1941-1943: gli anni di Casarsa. Pasolini aveva 19-21 anni e la sua personalità stava appena fornendo i primi germogli di poesia. Gli interessi creativi di Pasolini, in questi anni, erano orientati prevalentemente proprio in ambito figurativo e nella pratica della raffigurazione grafica. Dall'analisi degli schizzi del 1941, soprattutto se se ne compie un assemblaggio per tematiche (operazione necessaria, dato che l'impaginato, specialmente del volume italiano, possiede una distribuzione non cronologica ed eterogenea dei disegni giovanili), salta immediatamente agli occhi il fatto che Pasolini organizzava le proprie vi-sioni grafiche, appunto, per cicli tematici. Per ciascuna "serie", schizzata su fogli di piccolo formato uniforme, Pasolini adoperava la stessa tecnica: inchiostro o penna o pennello su carta. Cercando di afferrare "l'attimo fuggente", di cogliere la realtà nel suo divenire, Pasolini in realtà affidava alla sensibilità poetica del suo occhio giovanile il compito di realizzare squarci di poesia figurativa. Sensibilità poetica e sensibilità figurativa, gusto delle inquadrature e del bozzetto di ambiente, concorrono a far assumere a queste prime serie di disegni dignità e consistenza a un tempo poetiche e visive. Ecco perché pare giustificato definire questi primi disegni come "diario poetico". L'immagine figurata vela un bozzetto poetico. 
Anche i fogli delle serie pasoliniane degli anni 1943-1944 indicano chiaramente come ancora nel giovane talento non si fosse verificata alcuna scelta tra la pratica della poesia e quella del disegno. In qualche caso, addirittura, coesistevano in simbiosi come un tutt'uno. Il giovane Pasolini era, per il momento, ancora sollecitato dal bisogno interiore di un confronto "crepuscolare" con il mondo degli affetti familiari, con gli aspetti del vivere quotidiano, teneri e idillici, propri di quella civiltà contadina "dai piccoli, ma grandi va-lori", che tanto affascinava la sua esuberante sensibilità. 
Non sembra di intravedere, negli schizzi di questi anni — come, invece, sostiene Bonito Oliva — «la necessità di uno stile sgraziato, opposto alla grazia retorica dell'arte ufficiale del fascismo». Lo stile di questi disegni è, in effetti, forbito fino alla rarefazione, raffinatissimo, "in punta di mano" e, per quanto imiti quello di grandi artisti contemporanei, pare profumato — se l'immagine è consentita — da una goccia di femmineo narcisismo. L'occhio del poeta e del pittore continuavano a coesistere. La scelta tra poesia e pittura non era ancora avvenuta. Così come non era ancora avvenuta la maturazione di uno specifico stile poetico e pittorico. 
Da autodidatta di talento, Pasolini in quegli anni si nutriva delle esperienze altrui: le sue continue letture, così come l'incessante pratica del confronto e della documentazione sui maggiori artisti contemporanei, non potevano che dare un iniziale risultato, quello della pratica della imitazione. In questo senso è doveroso affermare che, dal punto di vista dello stile, nei disegni di Pasolini degli anni 1941-1943 non è riscontrabile alcuna sostanziale originalità. Pasolini ritraeva e schizzava “à la manière de...”, come l'allievo che tende a emulare il maestro. Disegnava come De Pisis (si confrontino, ad esempio, gli schizzi Giovane che scrive, Uomo che legge, Ritratto d'uomo, Ritratto di Susanna Pasolini, Bersagliere, Ritratto di bersagliere, Ragazzo, Ritratto di ragazzo, Figura a letto); rendeva omaggio a Scipione (Donna col lampione,Donna al fiume, la serie Donna col ranocchio, Donna nel canneto, Uomo nel canneto, Davanti al mio corpo); si rifaceva a Fabio Mauri (Giovani bersaglieri); si manteneva in bilico tra Pirandello e Mazzacurati (Giovane che si lava, Donna con fiore azzurro); dipingeva "alla Tomea" (Paesaggio, Paesaggio del Tagliamento). In conclusione, Pasolini era completamente immerso nel tentativo di individuare un proprio stile, attraverso un intenso lavoro di apprendistato teso all'appropriazione dei maggiori modelli figurativi del momento, al fine di "decollare come pittore", ma anche di prendere progressivamente le distanze da uno stile "provincialmente naturalistico". 
Posti eventualmente in relazione con la futura attività cinematografica, gli schizzi di Pasolini di questi primi anni Quaranta, le sue "poesie a colori" (come qualcuno li ha definiti) confermano, se pure ce ne fosse bisogno, che il regista possedeva fin da allora un non comune occhio esercitato alla visione, all'osservazione, all'inquadratura. Niente di più, niente di meno. Relativamente alla prima metà degli anni Quaranta, in fondo, più che a questa iniziale pratica disegnativa, la Stimmung storico-artistica del cinema di Pasolini, il suo gusto pittorico, affondano le radici nelle lezioni di Roberto Longhi, appassionatamente seguite negli anni universitari. È qui appena il caso di ricordare che la sceneggiatura di Mamma Roma è dedicata proprio a Longhi, a cui Pasolini si dichiara esplicitamente debitore della sua folgorazione figurativa. 
Nella Nota postuma pubblicata nel volume statunitense dei suoi disegni, Pasolini parla di Longhi come Ejzenstejn di Mejerchold, in termini, cioè, di incondizionata venerazione. Lo definisce il suo Nous (Essenza divinizzata del pensiero) e ricorda che, in quegli anni di università, la sua adulazione per Longhi era tale da non poterlo neanche "supplicare". Solo nel 1975 Pasolini avrà l'opportunità di liberarsi di questa venerazione per il maestro, schizzando una venti-na di caricature: le uniche fatte ad amici e intellettuali. In esse, l'omaggio di Pasolini non è ne icastico ne iconico, è più semplice-mente e affettuosamente ironico.
Gli autoritratti
La ventilata carriera di Pasolini/pittore diminuisce progressivamente, fino a interrompersi, negli anni più disperati della guerra, come se la tragedia non lasciasse più spazio al bozzetto campestre o familiare; e si conclude definitivamente con i due Autoritratti degli anni 1946/1947: i primi di una lunga serie che Pasolini completerà (ma come totale sfogo diaristico, al di là di qualunque velleità artistica) nell'arco degli ultimi dieci anni di vita. In realtà, se i due autoritratti "col fiore in bocca" a tempera su faesite (Autoritratto con la vecchia sciarpa, 1946; Autoritratto, 1947) sono opere di elevata di-gnità artistica, nelle quali Pasolini intensifica al massimo il suo sforzo pittorico, costituiscono anche e soprattutto una testimonianza narcisistica e autolesionistica dell'inconscio proposito del pittore di dare l'addio alle proprie aspirazioni figurative. Non è questa la sede per addentrarci in analisi stilistiche ne in distraenti forzature di letture interpretative. II compito spetta di diritto agli storici dell'arte. Qui si tratta più semplicemente di rilevare che i due Autoritratti pasoliniani sono una sorta di testamento impietoso, malinconico e ossessivo, tra l'ascetico e il macabro, di un particolare stato emozionale. Lo stesso che, un anno prima, aveva generato questa spassionata confessione, in una lettera scritta a un caro amico bolognese: «(...) Vorrei sputare sul monte Rest, lontanissimo, in fondo al Friuli, sul mare Adriatico invisibile dietro le Basse; e anche sulle facce di questi Casarsesi, di questi italiani, di questi cristiani. Tutto puzza di fucilate e di piedi. Che cosa mi lega a questa terra? Non avere paura, Luciano, che sono abbastanza puzzolente anch'io per essere capace di non sentirmi legato a tutta questa merda. Domani (fra sessanta anni; ci tengo) avremo una buca; non sarebbe una novità se non avessi visto con QUESTI occhi calarci dentro una morta, di cui sapevo che era stata viva; e allora in quel corpo che calava giù, ho misurato tutta questa umanità merdosa; viene qualcuno (la morte) a turarti il naso, e tu non senti più niente. Nel mio paese nasce primavera».
Pur avendo incominciato a partecipare alla vita politica, Pasolini stava vivendo, in questi anni dell'immediato dopoguerra, l'esperienza sessuale di una narcisistica, quanto tragica, percezione della propria differenza dagli altri. La sua condizione di "diverso", la pratica omosessuale, creeranno di lì a poco lo "scandalo di Casarsa", con la traumatica espulsione dal Partito comunista, l'allontanamento dall'insegnamento, la rottura con il padre, la fuga con la madre a Roma, non senza provocare un iniziale raptus suicida. «Un altro al mio posto si ammazzerebbe; disgraziatamente devo vivere per mia madre», scriveva Pasolini a Ferdinando Mautino della federazione comunista di Udine. 
La guerra, l'uccisione del fratello da parte dei partigiani, il suo dichiarato odio per i borghesi, la sua condizione di "diverso", la progressiva presa di distanza nei confronti di quel mondo rurale e schietto di Casarsa, che tanto ave-va amato, fanno sì che in questi Autoritratti si respiri la più profonda delle disillusioni e che Pasolini si rispecchi in un ieratico, quanto sprezzante, atteggiamento di distacco dalla realtà: crea di sé un'impassibile, impenetrabile maschera espressionista, al cui volto accentua i lividi tratti fisiognomici della morte. Il richiamo è sì a Van Gogh, ma anche a Ensor. Di qui il senso di emarginazione, di esclusione, di inquietante mutismo che trasuda da questi Autoritratti (in particolare, in quello del 1947): ma da quel silenzio, tuttavia, come in una sorta di contrappasso, si grida di disperazione come nei quadri di Munch. 
Come non notare, a questo punto, che — nei momenti di massimo isolamento, nei molteplici eventi traumatici della propria esistenza, nelle fasi cruciali delle sue battaglie più difficili contro un mondo che ostinatamente si vantava di non parlargli, di non sentirlo, di non vederlo — Pasolini si è sfogato e annullato nell'ossessivo soliloquio di una serie di autoritratti, assai vicini a quei primi della seconda metà degli anni Quaranta? Come non avvertire nella serie degli autoritratti degli ultimissimi anni, la sensazione che Pasolini vi innestasse la propria disperazione, la paura del precipizio, la sensazione dell'abisso? 
I due Autoritratti del 1946/1947 sono legati, in effetti, da un doppio filo rosso in soluzione di continuità (sia pure con un salto di venti-trenta anni) alle febbrili introspezioni degli ultimi Autoritratti a pastello colorato. E questi ultimi, oltre a riflettere la struggente percezione pasoliniana della propria totale differenza dagli altri, si dis-solvono nell'ultimo disegno di Pasolini: molte bocche chiuse, stilizzate con mano incerta e sottese da una massima, scritta a caratteri microscopici, “Il mondo non mi vuole / più e non Io sa”. 
Dopo la fuga da Casarsa per Roma, Pasolini - distruggendo ogni affetto e spegnendo per sempre l'epos friulano — non disegnerà più crepuscolari squarci di vita quotidiana, propri di un mondo e di una civiltà inesorabilmente cancellati dal proprio sguardo figurativo Soltanto venti anni più tardi, dopo essersi "selvaggiamente" (l'avverbio è dello stesso Pasolini) dedicato al proprio lavoro poetico-letterario, dopo avere affrontato l'intenso banco di prova della pratica di sceneggiatore, nel momento in cui affronta la pratica della regia con Accattone ricupera e introduce nel suo film quella autenticità, propria di un poeticocinéma-verité, così trasparente fin nella sua giovanile attività figurativa. Lo schema delle scene, delle inquadrature, dei "tagli visivi" che compongono i film di Pasolini è come riempito di sostanza "veramente viva", di elementi poetici, di poesia: di quegli ingredienti, insomma, che stanno alla base anche dei suoi primi schizzi. 
Identica è, in sostanza, la visione del mondo: nel suo fondo, di tipo epico-religioso. Il mondo contadino dei disegni cede il passo a quello — per Pasolini altrettanto "ieratico" — del sottoproletariato urbano. LaStimmung dei disegni e delle inquadrature è la stessa.
Gli elementi epico-religiosi (già alla base dell'attività grafica), nella raffigurazione di personaggi al di fuori di una coscienza storica come di una coscienza borghese (quale traspare in tutti i film di Pasolini), giocano un ruolo determinante. Il tratto essenziale del disegno, quell'intima caratteristica epica di guardare propria dei bozzetti giovanili, si tradurranno in stile nei film di Pasolini: nel suo modo di girare, di vedere il mondo dei poveri, di "sentire" il sottoproletariato nel corso dei secoli; nella fissità iconica delle sue inquadrature; nella frontalità delle immagini e dei piani; nell'austerità solenne delle sue panoramiche.

Disegna con la macchina da presa

Pasolini riprende a disegnare con la mediazione dell'occhio della macchina da presa, in specifiche visioni luministiche di grande for-bitezza ed eleganza; l'inquadratura origina il quadro, l'affresco, il bozzetto, il disegno o crea, come nell'immagine di Argan, «un'evocazione magica nella sfera di cristallo di un indovino». 
«Il cinema», scrive Argan, «ha affascinato Pasolini per la sua straordinaria capacità di produrre fiumi di immagini estremamente nitide e particolareggiate pur nel tempo minimo della percezione (...). Gli piaceva cesellare l'immagine per introdurre nella visione un ralenti immaginario pure nel brevissimo tempo reale della percezione: e per questo aveva bisogno dell'esperienza figurativa che i suoi disegni, pure nella loro qualità non eccelsa, documentano(...). Certamente i disegni di Pasolini rimangono un momento artigianale, ma non più rispetto a un opposto lavoro intellettuale, bensì rispetto a un immane lavoro industriale di progettazione, elaborazione e produzione di immagini(...). La relativa convenzionalità dei disegni si spiega col doveroso rispetto a un'arte altrui, con le sue regole che il dilettante, per quanto geniale, non si sente autorizzato a cambiare. Più che attraverso un paragone relativamente facile con la narrativa, i suoi disegni si spiegano in rapporto alle contraddizioni interne della regia. Sapeva che il cinema è una forma di consumismo tanto più demoniaca in quanto riempie lo spazio del mondo d'immagini piene di attrattiva, ma senza durata. Di ciò consapevole, ha voluto immagini splendenti ma cave, come le donne delle tentazioni di Sant'Antonio, che sono soltanto parvenze, abiti regali sul vuoto totale del corpo e dell'anima. Ha quindi sentito il bisogno di dar loro un senso emblematico, che contrastava moralisticamente con lo splendore illusorio. Lo straordinario viaggio di Pasolini au bout dell'immaginario cinematografico era moralmente lecito solo ancorandosi segretamente alla radice sana dell'arte ed ecco la ragione di una nostalgia dell'artigianato: la grafica e la pittura erano un po' come un vaso di gerani sul davanzale di un grattacielo, avevano un senso di talismano.». 
Un aspetto importante — ed al quale non si è dato alcun peso, tanto meno nella prospettiva della creatività cinematografica di Pasolini — una caratteristica propria specialmente della pratica pittorica pasoliniana degli anni 1946-1947, ma assolutamente specifica dei "cicli grafico-pittorici" degli ultimi dieci anni, è quello della tecnica compositiva: non più a china o a penna o a matita, secondo le regole della tradizione, ma (è proprio il caso di dire) a pasticci di invenzioni materiche e di strani interventi manuali. 
Intanto, quando dipingeva, Pasolini lo faceva su grezza tela da sacco, esibendosi (anche quando realizzerà alla maniera di Chagall i ritratti di Laura Betti o alla maniera di Manzù i numerosi profili della Callas) in vere e proprie performances. Pur non creando alcunché di informale, spesso Pasolini era solito disegnare e dipingere in contemporanea, versando la vernice liquida di un barattolo direttamente sulla carta a realizzare i contorni e i pieni del soggetto raffigurato. Altre volte intingeva la punta del dito nel colore e lo premeva direttamente sulla carta: un'evidente citazione di questo modo di procedere si vede in una sequenza del film Teorema. Altre, ancora, spremeva direttamente il colore sulla tela grezza piena di buchi, dopo averla prima ricoperta con colla di poco valore e poi di gesso, stesovi sbrigativamente. 
Pasolini stesso giustifica questo suo modo di comporre, scrivendo: «Riesco a creare le forme che voglio, con i contorni che voglio soltanto se il materiale è difficile, impossibile e, soprattutto, in qualche modo, "prezioso"». Nel suo modo di dipingere la religione del-le cose e dei personaggi, nella sua maniera di fare pittura "dialettale" trasformandola in "linguaggio per la poesia" (le definizioni sono di Pasolini), specialmente nelle sue ultime fatiche figurative, Pasolini ha sempre ed esclusivamente avuto bisogno di un materiale "espressionistico". 
Ce ne dà una conferma anche Zigaina, quando scrive: «Pasolini ha sempre dipinto da poeta. Esemplare è, in questo senso, la sua tecnica espressiva. Ad esempio: raramente l'ho visto adoperare i colori tradizionali a olio o le tempere. Fin da quando l'ho conosciuto, nell'immediato dopoguerra, ha sempre sperimentato le più strane tecniche pittoriche, adoperando e mescolando tra loro i più strani materiali. Negli ultimi tempi, durante i suoi soggiorni a Cervignano o a Grado, adoperava come colori i mezzi più impensabili, scelti solo apparentemente in modo casuale. Per i verdi adoperava un certo tipo di erba grassa o i chicchi dell'uva bianca. Per i rosa quelli che in laguna chiamano i "fiuri de tapo". E per ottenere certi rossi usava l'aceto di vino mescolato alla calce. Durante la fase di essiccazione di queste materie miste affioravano le trasparenze più strane». 
Le intuizioni mistico-naturalistiche di quei rituali poetici, di quelle metafore espressive proprie del modo di disegnare e di dipingere di Pasolini — una «sorta di gioco manuale, magico, fantasioso», come scrive De Micheli —, sono entrate tutte a far parte di diritto dello specificissimo modo di Pasolini di affrontare il problema dei costumi dei propri film. Costumi tutti di invenzione, che non appartengono a nessuna epoca, le cui fantasie materiche concorrono a creare, a fare — dei personaggi che le indossano — veri e propri miti: ad un tempo archetipi, metafore e significazioni antropologiche. 
Pasolini, in tutti i suoi film, in perfetta sintonia con la vulcanica creatività di due tra i maggiori scenografi e costumisti del cinema contemporaneo (Danilo Donati e Piero Tosi), ha preteso eccezionali doti di manifattore e artigiano, nella costruzione e ideazione dei costumi. Tutto doveva essere diverso dalla tradizione: diversi i materiali, diverse le tecniche costruttive. E tanto Donati quanto Tosi hanno risposto con risultati eccezionali alle aspettative del regista. Danilo Donati, adoperando materiali poveri se non addirittura "naturali", con una straordinaria abilità di intervento manuale immediato, è riuscito a inglobare e restituire l'attore in una macchina visiva estremamente funzionale all'immagine cinematografica pasoliniana. Ha caratterizzato fino all'enfatizzazione il comportamento dei protagonisti/archetipi del mondo interiore del regista. 
La perfetta compenetrazione, l'assoluta simbiosi tra Pasolini e Donati per una rivisitazione e deformazione del costume di fantasia in sintesi di estrema povertà, a partire da La ricotta e ancor più da Il Vangelo secondo Matteo, hanno fatto scuola, determinando poi lo stile non solo di tutti i successivi film di Pasolini, ma anche quello di innumerevoli filmacci di altri registi che hanno copiato assai male e a man bassa proprio dal binomio Pasolini-Donati. 
Piero Tosi, come Donati, ha creato per Pasolini autentici capolavori di costumistica manuale, materica. Per Medea, ad esempio, ha dovuto innanzitutto inventare le "materie" dei costumi,» delle stoffe, trattandosi di un film ambientato in un mondo perduto e senza tempo. Allo stesso modo di come Pasolini si inventava le materie per i colori della sua pittura, creandoli dai più strani procedimenti ma-nuali, Tosi ha realizzato i costumi di Medea con l'uso di materie poverissime, come il cencio della nonna, o i riscaldi, o la garza più o meno pesante, lavorata alla maniera degli indiani. Queste stoffe po-vere, secondo quanto ci ha raccontato lo stesso Tosi, venivano infilzate a piegoline e poi cucite a intervalli irregolari. Si creavano così delle strisce, degli stretti budelli di stoffa, che venivano immersi in una soluzione di amido e fissatori. Il tutto, in seguito, veniva tinto e messo in forni a essiccare. Quindi, da questi materiali fissati e colorati con le tinte delle "terre" si toglievano le cuciture, ottenendo così un risultato di coloritura non uniforme. Su questi materiali "diversi" si agiva poi manualmente, cucendovi sopra pezzi di riscaldo di identico o di altro colore, lamine dorate o argentate o bronzee, in modo da ottenere un tessuto strano, magico, misterioso, non rapportabile a niente di conosciuto. 
In altri casi, su quelle strisce di stoffa infilzata si gettava del colore; oppure le si dipingeva in maniera informe. Una volta sfilzate, da queste stoffe venivano fuori effetti grafici, come quelli prodotti dai bambini quando ritagliano con le forbici la carta ammazzettata. 
Sui costumi, infine, secondo una tecnica in uso presso i bizantini, si ricamava - in totale invenzione - non con il filo, ma con strisce metalliche. Anche le pietre cucite sui costumi erano grezze, non lavorate, a pezzi: soprattutto pezzi di lapislazzuli. 
Tutto insomma era creato di sana pianta. Le corazze, ad esempio, erano fatte tutte con il cuoio tagliato e intrecciato al rame. Altre stoffe erano disegnate con le forme di ferri roventi, in modo da trarne effetti xilografici. Venivano decorati e arricchiti ulteriormente anche quei mantelli dei pastori turchi, fatti arrivare in gran quantità, che già possedevano disegni tanto belli, alla Campigli. Persino i costumi dei cavalli erano realizzati manualmente. E i guerrieri, adorni di ori e di celate in una contaminazione stilistica tra il Medioevo e l'Africa, erano vestiti come i cavalli, a formare un corpo unico. 
È di questi materiali di artigianato puro, in conclusione, che si veste Medea: un film senza tempo ispirato unicamente alle suggestioni e ai suggerimenti del paesaggio nel quale è stato ambientato. «È stata un'esperienza esaltante, irripetibile», così ha commentato Piero Tosi, «nella quale Pasolini ed io ci siamo buttati come due artigiani provetti, capaci di creare tutto ex-novo(...). L'unico mio cruccio era il fatto che Pier Paolo non voleva assolutamente che curassi il volto dei suoi personaggi. Il trucco per Pasolini non doveva esistere. Sceglieva delle facce e dovevano rimanere com'erano, senza neanche un minimo di modifica» 
Oltre ai personaggi presi dalla strada, amici intimi e intellettuali ritratti nei propri film nelle loro caratteristiche fisiognomiche nude e crude senza alcuna alterazione del trucco, Pasolini ha voluto protagoniste di alcuni suoi capolavori anche attrici e personalità del mondo dello spettacolo, notoriamente circondate dalla mitica aureola del divismo, sia pure "all'italiana". Ma né la Magnani, né la Mangano, né la Callas — per fare qualche nome — sono state "graziate" dallo specifico impegno registico di Pasolini, dal cui copione non solo erano escluse fondamentali cognizioni tecniche, ma erano addirittura bandite le parole "attore" e "attrice". Gli aneddoti in proposito sono numerosi e non è dunque il caso di insistervi.

Il caso di Medea

Nel caso di Medea, che in questi appunti è assolutamente pertinente, Pasolini si è, in sostanza, "servito" di Maria Callas, fidando nella sua totale disponibilità e usando la sua personalità, il suo volto, i suoi gesti come "materiali"; inseguendo principalmente la forza delle immagini della sua tipologia e dei suoi tratti fisiognomici e trascurando volutamente le sue grandi doti drammaturgiche. «Mi ricordo che, fin dall'inizio del film», ci ha confermato Piero Tosi, «Maria traumatizzata dal fatto di essere già avanti nel tempo e di non possedere nessuna pratica cinematografica, si raccomandava a Pier Paolo perché non le facesse primi piani. Ma con molta gentilezza, perché era disposta a tutto. Sostenendo di essere abituata a fare il suo lavoro di teatro a una certa distanza dal pubblico, pregava Pier Paolo di inquadrarla a distanza. Maria aveva il complesso del proprio naso, ma Pier Paolo le diceva che aveva un naso stupendo, come quello dei più bei vasi greci. E così la inquadrava in maniera tale che il naso le venisse ancora più lungo». 
II volto, la presenza magnetica dello sguardo della Callas, il suo strepitoso istinto scenico, la tragicità della sua liturgia gestuale: questi erano i veri poli dell'interesse, dell'attrazione di Pasolini per il grande soprano. Il fatto stesso che la Callas avesse interpretato il personaggio di Medea alla Scala quindici anni prima era, tutto sommato, poco influente. Per i motivi sopracitati, Pasolini studiò freneticamente il volto della Callas (alterandone proprio i dati somatici, come nel film) in una serie di disegni, di profili, violentemente schizzati e contornati di fondi di caffè, macchie d'olio, aceto, umori di uva, petali di fiori. 
L'atteggiamento pasoliniano nei confronti di questa copiosa serie di ritratti, a loro volta in serie di sei-otto per ciascun disegno (alla maniera di certi studi rinascimentali), pare improntato a una totale libertà espressiva, nella quale l'occhio del ritrattista gioca con una fantasiosa manualità. In questo caso, la spontaneità dei disegni è legata all'immissione di elementi rituali che sembrano dolcemente deturparli di una vena a un tempo mitica e funerea, quale è appunto quella che si coglie in tanti profili di vasi greci. Certamente, i profili della Callas fissati da Pasolini sono veri e propri studi di inquadrature – per primi o primissimi piani – della futura protagonista del film Medea. I ritratti della Callas sono funzionali al film, sono materiali di approccio al personaggio protagonista. Manca, tuttavia, in questi disegni, quello scarto emotivo che contraddistingue, ad esempio, la forzatura caricaturale dei disegni preparatori di Fellini rispetto alla realizzazione filmica del personaggio-tipo. 
È appena il caso di ricordare che, negli schizzi di Fellini, i personaggi respirano sempre dal mondo dei fumetti, sono clowns, marionette in caricatura; mentre nei film, passati al vaglio della lunga mediazione del set, diventano tipi perfettamente caratterizzati nei loro umori comici, grotteschi, tragici. Nelle silhouettes pasoliniane della Callas, il personaggio – pur nella diversa sostanza grafica rispetto alla carnalità dell'immagine cinematografica – possiede già quella identica presenza, quell'incombente peso ieratico che assumerà nel film. Al punto che (se volessimo tentare un sia pure forzato paragone), saremmo più portati a ritenere che il procedimento di avvicinamento, mediante disegno, alla protagonista di Medea è per molti versi identico a quello che conduce Ejzenstejn all'individuazione, attraverso la pratica del disegno di preparazione, del personaggio protagonista di Ivan il Terribile. In Pasolini, l'occhio del disegnatore coincide con l'occhio del regista e, in un certo senso, sembra ignorare eventuali sollecitazioni intermedie, come quelle della fase del set. 
Ancora diverse sono le considerazioni che si possono fare a proposito delle strisce colorate del fumetto pasoliniano per la preparazione dell'episodio "La terra vista dalla luna", inserito nel film Le Streghe: l'unico tentativo del regista di scrivere graficamente le inquadrature, le situazioni, le battute di un brano cinematografico; l'unico esempio, in Pasolini, di una intera sceneggiatura pensata in termini figurativi. In questo caso l'approccio è assolutamente – in modo inequivocabile – caricaturale, come si addice a un fumetto. E in effetti il grottesco episodio filmico è realizzato alla maniera di un fumetto. Per quanto apparentemente così distanti, dunque, il diaframma tra le esasperazioni grottesche delle immagini disegnate e la inevitabile plasticità delle grottesche inquadrature filmiche non è poi così spesso come si potrebbe desumere da una prima, approssimativa comparazione. Ancora una volta c'è perfetta coincidenza tra l'occhio del fumettista e quello dell'autore cinematografico. 
Già nel fumetto, conferma De Micheli, «Pasolini vede i suoi personaggi, li segue nei gesti, nei dialoghi, nelle scene. Il suo segno è rapido, vivace e rappresentativo. Patetica e grottesca vi emerge la maschera di Totò (...). Questo gruppo di fogli illumina come meglio non sarebbe possibile il suo meccanismo creativo, che sa tradurre in una successione mobilissima di immagini l'essenza poetica di un racconto, la sostanza di una parabola letteraria dove i nodi dell'esistenza hanno un riscontro così tragico e dolce». La stessa dolce tragicità dell' "Autoritratto cinematografico" di Pasolini che, nei panni di Giotto, nelle ultime inquadrature del suo Decameron, di fronte all'affresco di una sua Apocalisse, commenta scuotendo il capo: «Perché realizzare un'opera, quando è così bello sognarla soltanto?».
Fonte:
http://www.cmdc.it/cmdc/il-centro/staff/libri/pasolini.asp

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lunedì 30 dicembre 2013

Una pista unisce i delitti di Mattei, De Mauro e Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Petrolio, pagina 555

Una pista unisce i delitti di Mattei, De Mauro e Pasolini


L'annuncio dei ministro Bondi, che accoglie una richiesta di Veltroni sul testo attribuito a Pasolini e che Dell'Utri dice di aver visto

Sul capitolo scomparso di "Petrolio
adesso indagano i carabinieri
di FRANCESCO ERBANI

Sul capitolo scomparso di "Petrolio adesso indagano i carabinieriSUL capitolo scomparso di Petrolio, vero o fasullo che sia, ora indagheranno i carabinieri. Lo ha annunciato alla Camera il ministro Sandro Bondi, venendo incontro a una richiesta di Walter Veltroni. L'ex sindaco di Roma voleva sapere che cosa risultasse al ministero di quel testo attribuito a Pier Paolo Pasolini che il senatore Pdl Marcello Dell'Utri dice d'aver visto (ma ieri correggeva: "L'ho solo sfogliato") e che voleva portare alla sua mostra del libro antico (chiusa a Milano domenica scorsa). Ma invano.

Bondi ha riferito di aver chiesto lumi allo stesso Dell'Utri. Il quale gli ha confermato d'aver avuto in mano una settantina di fogli di carta velina (una copia, dunque: ma manoscritta o dattiloscritta?). Titolo, "Lampi su Eni", lo stesso che compare su una pagina bianca del dattiloscritto trovato nello studio del poeta dopo la sua morte. "Me lo ha portato una persona che non conosco", racconta ora Dell'Utri, aggiungendo l'inedito dettaglio sull'identità a lui ignota del personaggio. Il quale, scosso dal clamore seguito all'annuncio, sarebbe poi svanito.

Veltroni aveva chiesto di fare chiarezza sulla vicenda, aggiungendo che la famiglia di Pasolini non crede all'esistenza di un capitolo scomparso - e con lei anche Walter Siti, curatore delMeridiano Mondadori con i romanzi dello scrittore. "Se questo capitolo esiste, come è arrivato nelle mani di Dell'Utri?", si domanda Veltroni, "chi lo ha portato via da casa Pasolini, chi lo ha consegnato in mani diverse da quelle della famiglia o dei curatori dell'opera di Pasolini? Ma se questo capitolo non esistesse, di cosa stiamo parlando?".

I carabinieri del nucleo di tutela dei beni culturali avvieranno dunque le indagini. Come primo atto si presume che interrogheranno Dell'Utri (che lamenta "speculazioni più che altro politiche" di Veltroni), al quale chiederanno dettagli per risalire al misterioso possessore del testo. Questi non potrà sottrarsi e dovrà raccontare come ha avuto il documento, di cui in ogni caso occorrerà accertare l'autenticità. E gli unici a poterlo fare sono i filologi che hanno dimestichezza con le carte pasoliniane.

Se il testo dovesse venir fuori e si dovesse appurare che fu rubato (ma anche questo particolare è smentito dall'erede di Pasolini, Graziella Chiarcossi, e dal cugino Nico Naldini), potrebbe scattare un procedimento per ricettazione. Sempre che quel testo esista e non sia una bufala. 


Fonte:
http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/03/19/news/petrolio_indagine_carabinieri-2762798/index.html?ref=search



Gli inquirenti ascolteranno il senatore dopo le sue dichiarazioni su un manoscritto

destinato a far parte del romanzo-inchiesta e del quale sarebbe venuto in possesso

Delitto Pasolini e il capitolo di "Petrolio"
la Procura di Roma sentirà Dell'Utri

Una settimana fa la lettera di Veltroni ad Alfano: "Continuiamo a cercare la verità" e la risposta positiva del Guardasigilli che ha annunciato nuove indagini

Delitto Pasolini e il capitolo di "Petrolio" la Procura di Roma sentirà Dell'UtriROMA - Un'inchiesta già riaperta da oltre un anno. Alla quale stanno per aggiungersi nuovi elementi. Gli inquirenti della Procura di Roma hanno intenzione di sentire, come testimone, il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri nell'ambito dell'inchiesta sul delitto di Pierpaolo Pasolini, ucciso nella notte fra l'1 e i 2 novembre del 1975 all'idroscalo di Ostia, sul litorale romano. Un passaggio istruttorio che sarà compiuto anche in seguito ad un'istanza presentata dalla famiglia dello scrittore formalizzata dall'avvocato Guido Calvi, che fa riferimento sia a quanto dichiarato dallo stesso Dell'Utri a proposito di un manoscritto scomparso dello scrittore, che ad un'interpellanza parlamentare fatta da Walter Veltroni alla quale ha risposto positivamente il ministro della Giustizia, Angelino Alfano.

Obiettivo degli inquirenti è chiarire la questione sollevata qualche settimana fa dal senatore del Pdl, che aveva detto - l'occasione era stata l'inaugurazione della XXI Mostra del libro antico di Milano - di avere (o di aver letto) un manoscritto scomparso di Pasolini, destinato a costituire un capitolo del romanzo incompiuto Petrolio: 78 pagine in cui si farebbe riferimento ad alcune vicende che riguardano l'Eni, a cominciare dalla morte di Enrico Mattei. Un fascicolo su Pasolini da più di un anno è all'attenzione del pm Francesco Minisci, che lo ha ereditato dalla collega Diana De Martino passata alla Dna: un procedimento nato da un'istanza presentata, come privati cittadini, dall'avvocato Stefano Maccioni e dalla criminologa Simona Ruffini che hanno lavorato sulle carte dell'inchiesta di Pavia sulla morte di Mattei. Maccioni, pochi giorni fa, è tornato dal magistrato per sollecitare ulteriori indagini partendo proprio dall'audizione di Dell'Utri.

Quanto al capitolo mancante di Petrolio, "l'ho letto ma non posso ancora dire nulla - aveva detto qualche settimana fa il senatore - è uno scritto inquietante per l'Eni, parla di temi e problemi dell'azienda, parla di Cefis, di Mattei e si lega alla storia del nostro paese". E nella richiesta di Maccioni e Ruffini si faceva riferimento proprio alla tesi secondo la quale lo scrittore sarebbe venuto a conoscenza dei mandanti dell'omicidio Mattei indicandoli nel proprio romanzo.

Una settimana fa era stato Walter Veltroni a inviare una lettera al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, chiedendo la riapertura del caso. Oggi "la scienza può dirci la verità su quel delitto" ha scritto l'ex sindaco di Roma, anche perché - ricorda - dalla condanna di Pino Pelosi per l'uccisione dello scrittore emergeva con forza "la prova che quella notte, all'Idroscalo, Pelosi non era solo". Secondo Veltroni, l'inchiesta "faceva acqua da tutte le parti": per questo ha chiesto al Guardasigilli di "continuare a cercare la verità". Di lì a breve era arrivata la risposta positiva di Alfano che aveva annunciato nuove indagini sul caso sottolineando che "accertare la verità è sempre non soltanto utile ma necessario ed ancor più lo è quando la verità vale non soltanto ad accertare le responsabilità penali, ma a far chiarezza sul piano storico-politico oltreché su quello giudiziario".  
         

Fonte:
http://milano.repubblica.it/cronaca/2010/03/29/news/pasolini_procura_dell_utri-2984644/



ANCHE IL GIORNALISTA SICILIANO DECEDUTO NEL '70 AVEVA INFORMAZIONI SULLA MORTE DI MATTEI


Il senatore del Pdl sentito come persona informata dei fatti: avrebbe letto un sunto di un capitolo scomparso di «Petrolio», romanzo-inchiesta sulla morte del fondatore dell'Eni


MILANO - Un'indagine che ha il sapore del thriller o della fiction. Non certo per la mancanza di consistenza, ma per l'ideale collegamento tra epoche e vicende finora considerate, ufficialmente, distanti e diverse. Il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri è stato infatti sentito come persona informata sui fatti nell'ambito di una nuova indagine aperta dalla Procura di Palermo sulla morte del giornalista Mauro De Mauro. Gli investigatori stanno cercando di capire se c'è un filo tra il delitto De Mauro e gli omicidi di Enrico Mattei e Pier Paolo Pasolini.
LE PAGINE SCOMPARSE - Dell'Utri, noto bibliofilo e amante di ricerche letterarie, nel marzo dell'anno scorso aveva raccontato infatti in alcune interviste di avere trovato tracce dell'ultimo capitolo, circa 79 pagine, di «Petrolio» romanzo-inchiesta di Pasolini che trattava anche della morte di Mattei. Sostenne però - cosa che ha ribadito anche oggi - di non avere letto tutto il capitolo ma solo una parte, una sorta di appunto riassuntivo di una quindicina di pagine. Alla luce di questo, oggi, il procuratore aggiunto Ingroia e il sostituto Demontis, che avevano rappresentato l'accusa al processo De Mauro (concluso con l'assoluzione dell'unico imputato, il boss Totò Riina) hanno sentito il teste per saperne di più. La tesi dell'accusa, sempre sostenuta, è che ci fosse un collegamento tra i delitti De Mauro e Mattei e che Pasolini avesse intuito questo collegamento già nell'immediatezza dei fatti, quando scrisse «Petrolio», vale a dire prima di essere ucciso, nella notte tra il 1 e il 2 novembre 1975.
LA STORIA - Enrico Mattei, fondatore dell'Eni, morì il 27 ottobre 1962 a Bascapè in provincia di Pavia quando il suo aereo privato si schiantò al suolo. Inizialmente si parlo di un incidente, le cui cause non furono però chiarite, fino a qualche anno fa, quando, grazie alla riapertura delle indagini vennero ritrovati segni di esposizione a esplosione su parti del relitto, sull'anello e sull'orologio di Mattei. Il fondatore dell'Eni sarebbe quindi stato ucciso.
Alcune delle persone che indagarono in maniera non ufficiale sulla morte di Mattei e sulla successiva inchiesta sull'incidente morirono a loro volta in circostanze misteriose. E' il caso appunto del giornalista Mauro De Mauro il quale si era mostrato disponibile a fornire a Francesco Rosi, autore del noto film su Mattei, materiale (probabilmente alcuni nastri magnetici audio) ritenuto di estremo interesse per la ricostruzione dei fatti, e dello scrittore e regista Pier Paolo Pasolini, che occupandosi del suo romanzo-inchiesta Petrolio, indagò a sua volta sulla morte di Mattei. 

Mauro De Mauro, deceduto nel settembre del 1970, fu rapito secondo le rivelazioni di alcuni pentiti, dalla mafia e poi ucciso. Il cadavere del giornalista non fu mai più ritrovato: secondo il pentito Francesco Marino Mannoia il corpo di De Mauro sarebbe stato sciolto nell'acido. Per l'omicidio di De Mauro era imputato il boss dei corleonesi Totò Riina (poi assolto), in quanto i presunti autori materiali del delitto sarebbero ormai morti. Il legame tra De Mauro e Mattei sarebbe nel materiale in possesso del giornalista prima della morte relativo al fondatore dell'Eni. Un nastro magnetico in possesso di De Mauro e mai più ritrovato (ma sono rimasti gli appunti presi dal giornalista) poteva costituire infatti la prova che l'aereo di Mattei poteva essere stato sabotato quando lo stesso Mattei partecipò ad una manifestazione in Sicilia in cui aveva incontrato l'allora ministro Roberto Tremelloni. 

Pier Paolo Pasolini fu ucciso invece nella notte tra l'1 e il 2 novembre 1975 nella zona dell'Idroscalo a Ostia, prima picchiato brutalmente e poi travolto dalla sua stessa auto. L'omicidio fu attribuito a un 17enne, Pino Pelosi che si dichiarò colpevole e fu poi condannato. Tuttavia nel 2008 Pelosi confessò di non essere stato da solo con Pasolini al momento della morte, ma di aver avuto accanto altre due persone e che il suo ruolo in quanto «ragazzo di vita», era stato sostanzialmente quello di esca per lo scrittore omosessuale. Pasolini avrebbe infatti raccolto informazioni sulla morte di Mattei e sul ruolo avuto dal vicepresidente dell'Eni dell'epoca Eugenio Cefis nella morte, informazioni che stava raccogliendo per pubblicarle nel romanzo-inchiesta Petrolio a cui stava lavorando prima della morte. Per impedire la pubblicazione di queste informazioni sarebbe stato ucciso. Una tesi questa, come quella relativa alla morte di De Mauro, a cui ora i pm di Palermo sembrano dare credito.

Fonte:
Corriere.it

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sabato 21 dicembre 2013

Pasolini nella memoria - Di Roberto Roversi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

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Pasolini nella memoria
di Roberto Roversi
 

Il Liceo “Galvani” in Via Castiglione e il preside Chiorboli, specialista del Petrarca, con due baffi di segno particolare, molto caratteristici. La libreria Cappelli in Via Farini, dove si andava a parlare e a cercare i libri di poesia che si pubblicavano in giro. Da Cappelli capitava Antonio Meluschi; dopo abbiamo conosciuto anche sua moglie, Renata Viganò. Vivevano in una violenta ma sobria povertà per conseguenza delle idee di cui non avevano paura, eppure erano sempre così liberi, nuovi, giusti (e umani) a incontrarli, anche nella loro casa di Via Mascarella. Dunque Otello Masetti (capo commesso alla libreria Cappelli) con la sollecitazione di Meluschi che ci consigliava, mise in contatto il nostro gruppetto con un uomo che vendeva e vende ancora libri vecchi in una bottega di Piazza S.Domenco al numero 5. Fu in quel posto e per queste vie che Francesco Leonetti, Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi, Luciano Serra pubblicarono a loro spese i quattro libretti per i “tipi della libreria antiquaria Mario Landi”. Copertina semplice e bianca, tranne quella di Leonetti che la scelse giallina e bordata. “Poesie a Casarsa” di Pasolini hanno la data di pubblicazione del 14 luglio 1942 e si stamparono presso l’Anonima Arti Grafiche di Piazza Calderini in 300 copie numerate, oltre a 75 fuori commercio destinate ai critici. Il libretto, di 48 pagine, era dedicato “A mio padre” e si apriva con il verso: “Fontane d’aghe dal me’ pais” (Fontana d’acqua dal mio paese). Nella ristampa del 1954, in “La meglio gioventu’ “, anche questo verso è cambiato cosi’: “Fontana di aga dal me pais”.
Da allora non ho più rivisto Pasolini fino al ’55 quando abbiamo avviato Officina; dopo la fine della rivista, nel ’60, l’ho rivisto ancora quattro o cinque volte, ma negli ultimi dieci anni non l’ho più incontrato. Con questo voglio dire che ho avuto una sincera amicizia di giovinezza con Pasolini, anche insieme ad altri, ma che fin da allora era piuttosto un incontro culturale che un rapporto di sentimenti; infatti entrambe le volte, quando la tensione nel fare si allentò o fu conclusa, ciascuno riprese la sua strada.
Non ero suo compagno di classe; Pasolini stava con Telmon, Bignardi e altri; al Galvani, o intorno al Galvani, non me lo ricordo; ci si trovava più spesso a casa sua.
Abitava con la madre e il fratello in un appartamento in Via Nosadella davanti ai Sordomuti (una tipografia); e lì, insieme ad un suo compagno di classe, Manzoni, recitavamo. Gli irlandesi, soprattutto Synge: “Cavalcata a mare” e “Il furfantello dell’ovest”; si leggeva, imparando, nella buona tradizione di Linati.
Posso dire che Pasolini era, nel fare le cose che ci interessavano, subito bravissimo; aveva una straordinaria tranquillità e rapidità nello scrivere che non finivano di stupirmi; e cominciò a prevalere su di noi con la straordinaria invenzione del dialetto colorato (come mi sembrava) cioè di una lingua esasperata sentimentalmente ma con tanto trattenuto pudore (una lingua abbastanza celestiale nel senso giusto) dal renderla nuova e diversa, cioè vera e originale. Contini, che allora era in Svizzera e ricevette il libretto, ne fu conquistato. Io la ascoltavo come una lingua “in costume” molto aristocratica; trattenuta al massimo grado di tensione da una sofisticazione culturale raffinata, da renderla alla fine morbida in un ricordo allucinante.
E arrivo a un ricordo che ho sempre tenuto vivo.
Siamo ai giardini Margherita, seduti su un prato appena tagliato; fra lo splendore giallo s’alza un profumo compatto, molto padano, del fieno falciato, a cumuli, che si sta asciugando. Poca gente, solo presenze colorate di donne e ragazze che camminano qua e là. Noi tre seduti (Leonetti, Pasolini, io) parliamo di una rivista che vogliamo fare, che “dobbiamo fare”. Il nome già proposto è “Eredi”. Parliamo con una leggerezza che è felicità, per una cosa finalmente importante; per una decisione nostra che dovremo realizzare impegnandoci. Ci sentiamo infervorati. Passa un uomo in bicicletta, è in borghese; adagio cerca con la testa; ha bisogno di parlare? Ci vede, si avvicina, non si ferma; dice a voce bassa: “Hitler ha invaso la Russia”.
È il 22 Giugno del ’41 e noi eravamo, in quel momento della nostra giovinezza, fuori dal mondo.

Rievocazione di P.P.Pasolini scritta a pochi giorni dalla sua morte da Roberto Roversi e pubblicata dal periodico friulano Macchie.

Fonte:
http://www.fucinemute.it/1999/07/pasolini-nella-memoria/


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Il corpo di Cristo tra presenza e assenza - Pasolini e Gibson: un confronto possibile? - Di Guido Nicolosi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

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Il corpo di Cristo tra presenza e assenza - Pasolini e Gibson: un confronto possibile?
Di Guido Nicolosi
Che non sia il tuo corpo la prima
sepoltura del tuo scheletro
[Jean Giraudoux]*

1. Il Cristo di Mel Gibson: tra cristianesimo classico e tarda modernità

Immagine articolo Fucine MuteLa recente uscita, nelle sale cinematografiche italiane, del film di Mel Gibson La passione di Cristo ha contribuito a riaprire il dibattito sull’opportunità di una rappresentazione cinematografica iperbolica e violenta della corporeità. In effetti, questo tipo di rappresentazione, quando finalizzata all’espressione del cosiddetto “senso del sacro”, è considerata da molti contraddittoria rispetto ad un’interpretazione diffusa e assai consolatoria della sacralità intesa generalmente come “luogo” immateriale e pacificato della purezza. Nel film di Gibson, la cruenta iper-rappresentazione del sangue e della violenza ha spinto diversi commentatori a criticare un certo compiacimento voyeuristico del regista mostrato nell’indugiare in maniera parossistica nella figura di un Cristo lacerato nelle carni, sofferente e straziante. Per la stessa ragione, il film è stato criticato, non senza un certo snobismo etnocentrico, in quanto frutto di una visione rozza e incivile (australiana?) e hollywoodiana (strumentalmente spettacolare) di Cristo. Un Cristo che avrebbe la fisionomia gladiatoria, è stato detto, di una sorta di “Braveheart” in salsa mistica, creata ad arte per una bieca speculazione commerciale. Aggiungo soltanto che, in tal senso, si è omesso di riferire alcunché sull’afflato fondamentalista che il cattolico integralista Gibson ha profuso nella realizzazione del film; tanto da essersi attirato negli USA, in modo non del tutto peregrino, l’accusa di essere viziato da una evidente pregiudiziale antisemita. D’altra parte, gli stessi detrattori non hanno, a mio avviso, seriamente preso in considerazione il fatto che buona parte dell’iconografia cristiana tradizionale, spesso di natura pedagogica e moralistica, è fondata su una cruenta e sanguinolenta raffigurazione del corpo di un Cristo che si immola per salvare l’umanità. Sangue, lacrime, chiodi, spine, pus, pustole, ferite, ecc. sono, indubitabilmente, una parte importante dell’armamentario metaforico e metonimico che la retorica cristiana classica ha utilizzato per ribadire la centralità del sacrificio nell’ortodossia. L’ascesi, la sofferenza e, dunque, il differimento del piacere (la conquista del Paradiso) sono i grandi topics con cui bisogna inevitabilmente confrontarsi per poter comprendere appieno il senso ultimo del cristianesimo così come si è realizzato in occidente. Dunque, in tal senso, l’opera di Gibson mi sembra in linea, fatte salve le opportune differenziazioni legate al medium e all’epoca, con questa tradizione classica.
Ciò su cui, però, vorrei maggiormente soffermarmi è il rimando costante che, nel commentare o analizzare il lavoro di Gibson, giornalisti, critici, e media hanno effettuato all’opera di Pier Paolo Pasolini (solo poche volte per marcarne la differenza). È senza dubbio vero che esistono delle “co-occorrenze” che possono spingere la mente del cinefilo a cercare delle possibili relazioni e contiguità. Per esempio, l’utilizzo forte della corporeità nella filmografia pasoliniana; oppure, il fatto che la tensione, allo stesso tempo mistica e laica, di Pasolini verso l’Assoluto lo portò alla realizzazione, nello stesso set naturale (Matera), di un film sulla figura del Cristo (Il vangelo secondo Matteo). Ma, a parte queste correlazioni, tra le due produzioni artistiche corre un abisso profondo. Naturalmente, tale abisso è, in buona parte, ascrivibile al diverso spessore culturale, poetico e politico dei due registi. La lettura di Gibson “denuncia” una reazionaria (certamente bigotta) interpretazione del calvario di Cristo. Al contrario, il Cristo di Pasolini è una figura poetica, sacra e rivoluzionaria allo stesso tempo. Non è, credo, casuale che l’Italia sia uno dei pochi paesi al mondo in cui la proiezione del film di Gibson non subisce (giustamente, d’altronde), nonostante la crudezza delle immagini, il divieto ai minori; laddove il Cristo pasoliniano subì le “scomuniche” e la persecuzione delle alte gerarchie cattoliche (recentemente anche il Cristo di Ciprì e Maresco ha dovuto subire un forte ostracismo di stampo moralistico e clericale). I due autori, evidentemente, hanno di-mostrato un approccio radicalmente diverso. Questa differenza trova la sua principale espressione proprio nel diverso modo in cui essi hanno messo in scena la corporeità. Nel caso di Pasolini, inoltre, il corpo di Cristo non è presente solo nel “Vangelo”, ma è evidentemente “diffuso” e, dunque, presente in tutti i corpi dei personaggi della sua produzione (non solo filmica); ivi compreso il corpo estremo e collettivo di “Salò”.
Il vangelo secondo MatteoIn realtà, mi sembra di poter dire che il Cristo di Gibson s’inserisce perfettamente nell’alveo di quelle forme (sociali ed espressive), tipicamente legate alla tarda modernità, secondo le quali il corpo della nostra esperienza è sempre più una presenza forte che si risolve, paradossalmente, in una sua assenza. È questo, mi sembra, un dato da cui partire e che caratterizza la nostra epoca dell’utopia [2] della comunicazione totale. Con questo espediente linguistico e concettuale, un vero e proprio ossimoro, ci si prefigge di superare il dilemma creato dal gioco metaforico di una parte della letteratura sociologica contemporanea. Un gioco tutto incentrato sulla contrapposizione ideale tra teorie che prefigurano la rivalutazione del corpo e teorie che profetizzano il suo annullamento. La presenza-assenza (considero Chris Shilling [1993] l’autrice che per prima, ma con finalità diverse, ha utilizzato questa espressione), infatti, intende spiegare che non è a rischio la presenza materiale, fisica del corpo dei singoli soggetti. Anzi, all’opposto, la nostra è un’epoca in cui la “voglia” di corpo e la volontà di agire tecnicamente su di esso è molto forte (è l’epoca degli ingegneri del sé: sport, farmacologia, chirurgia estetica, ecc.). Ciò, invece, di cui si parla è: l’incapacità di pensare o anche usare inconsapevolmente il proprio corpo in modo diverso dai seguenti cliché (solo analiticamente separati, ma in realtà interrelati):
a) mero oggetto-macchina;
b) supporto temporaneo[2] a disposizione dell’individuo per realizzare una sorta di bricolage del (tatuaggi, piercing, body-art, body-building, ecc.);
c) oggetto-spettacolare, vero e proprio feticcio (immagine pura, piana e “pubblicitaria”);
d) strumento biologico di sussistenza di un soggetto cartesiano che vive solo per il lato “spirituale” del proprio sé e quindi trascorre la propria vita guardando il mondo senza viverlo;
In tal senso, mi sento di poter affermare che il soggetto della tarda-modernità assume, con sempre maggiore forza, la posizione e la condizione del voyeur (anche questo, forse, spiega il successo dei reality show). Il voyeur, infatti, è un soggetto che, pur essendo fisicamente presente, si percepisce come assente e non soffre di tale condizione, anzi, vi trova la principale fonte di soddisfazione libìdica. Ebbene, a mio avviso, il corpo del Cristo di Gibson è anch’esso tanto presente, quanto assente. E ciò nella misura in cui esso è tanto spettacolare, quanto privo di qualsiasi carica eversiva; tanto eclatante, quanto conservativo; tanto appariscente, quanto scontato.

2. Pier Paolo Pasolini poeta multimediale

Pier Paolo Pasolini, è noto, ha intrattenuto con i media un rapporto che, pur nella contraddittorietà, è stato assai fecondo e dirompente. Ho già avuto modo, in tal senso, di definire Pasolini un vero e proprio poeta multimediale. Ho inteso evidenziare, con questa formula, la capacità, ma anche la volontà di Pasolini di affrontare una pluralità di questioni di natura molto diversa utilizzando una pluralità di media[3], senza mai tradire la sua istintiva, profonda e costante matrice poetica. Intendo dire, cioè, che la poesia è stata la sua più grande risorsa e ciò non nel senso dato dal fatto, quasi banale, che Pasolini ha scritto delle bellissime poesie, ma in un senso molto più profondo, fondamentalmente “metafisico” [4]. La definisco la sua più grande risorsa perché è stato il suo esser poeta a spingerlo oltre gli “angusti” limiti delle discipline che ha di volta in volta tematizzato; ad affrontare con una lucidità che oserei definire profetica i grandi temi politici, sociologici, antropologici della società e della cultura contemporanea. Le sue analisi, proprio perché poetiche, gli hanno permesso di vedere “verità” nascoste da ingombranti orpelli superficiali. Proprio perché poetiche, gli hanno permesso di scoprire le tendenze “in fieri”, appena accennate, non quantificabili, ma che un poeta può permettersi di additare. È qui che si annida anche quello che da più parti è stato indicato come il limite della sua opera: l’affrontare questioni sociologiche, antropologiche, semiotiche, con un occhio poetico, privo di quella rigorosità metodologica che ogni scienza empirica deve necessariamente fare propria. Pasolini, in quanto poeta, ha potuto osare alzarsi sopra le teste degli uomini e delle donne del tempo, toccando il cielo, giocando con l’inferno. Da quelle altezze egli ha potuto vedere cose che nessun altro era in grado di vedere, ma proprio per questo egli ha perso la possibilità di essere preciso, rigoroso. Una rigorosità che, sicuramente, egli stesso non ricercava e che nessuno può chiedere ad un grande poeta, anche quando questi si trasforma in sociologo, antropologo, semiologo.
Immagine articolo Fucine MuteLa multimedialità fa di Pasolini un autore che ha saputo e voluto fare la sua arte con una pluralità di arti e della sua espressione una pluralità espressiva: poesia, cinema, letteratura, pittura, tutti campi meravigliosamente esplorati, sia separatamente, sia in un raffinatissimo melting-pot. È in questa dimensione che il cinema è diventato il mezzo privilegiato per la sua espressione e Pasolini è diventato, a mio avviso, un simbolo dell’arte cinematografica. Se, infatti, Pasolini ha scelto le arti e non l’arte per potersi esprimere, anche il cinema è un’arte che si caratterizza proprio per essere meravigliosa e misteriosa miscela di impulsi artistici differenti. Inevitabile, seppur tardo, l’incontro tra Pasolini e il cinema proprio perché attraverso il cinema egli è stato in grado di riassumere tutta la sua esperienza artistica in una feconda sintesi comunicativa. Con il cinema Pasolini dipingeva, suonava, scriveva prosa e lirica. Le affinità elettive tra Pasolini ed il cinema sono state, dunque, una necessaria conseguenza per un artista che non ha voluto privilegiare un unico campo espressivo, ma che ha fatto della pluralità comunicativa la sua principale condizione[5].

3. Il corpo di Pasolini e la complessità della sua poetica

Mi capita spesso di ascoltare, nella riflessione politico-esistenziale diffusa, la seguente domanda: “Esiste o potrebbe esistere un personaggio come Pasolini, oggi?”. Ovvero, parafrasando il titolo di un programma radiofonico di Oliviero Be’a su Pasolini: Esistono tracce di Pier Paolo Pasolini nella società contemporanea?. La risposta ad una simile domanda deve superare una difficoltà insormontabile: l’immagine, la rappresentazione attuale della figura di Pasolini (quella che appartiene alla mia generazione, perlomeno) è, ne sono sempre più convinto, assolutamente distorta; e lo è nel senso specifico di parziale. Una parzialità che può, forse, essere spiegata facendo riferimento ad una “strana” particolarità che ha determinato la parabola ascendente del successo di Pasolini come autore e come “icona”. Lo scrittore friulano, infatti, è stato un autore particolarmente odiato e contrastato in vita e diffusamente amato dopo la morte. Sono in molti a riconoscere questo fatto, anche dal punto di vista della “presenza commerciale” delle sue opere. Oggi, fra l’altro, ed è stata questa una piacevole “scoperta”[6], possiamo parlare di un vero e proprio culto di Pasolini anche su Internet.
L’accanita persecuzione che Pasolini dovette subire durante la sua vita è nota ed è inutile qui ripercorrerla. La cosa che mi preme sottolineare è che tale persecuzione (non vedo altri termini che possano esprimere l’atteggiamento della società italiana di quegli anni nei suoi confronti) fu realizzata con metodica pedanteria da tutte le varie anime politico-ideologiche che animavano la vita sociale italiana di quell’epoca. Anche la sinistra, che rappresenta senza dubbio l’alveo naturale dove è necessario collocare la figura di Pasolini, ebbe con lui un rapporto quantomeno conflittuale. Sappiamo, infatti, che la sinistra istituzionale (i comunisti) lo espulse dal PCI e che la dialettica con la sinistra extraparlamentare fu, in taluni frangenti, molto aspra[7]. Dopo la sua morte, invece, il clima attorno a Pasolini cominciò lentamente a mutare. Iniziò un progressivo recupero di un Pasolini profeta; un lento, ma inesorabile, viatico verso la santificazione del Poeta. Oggi, anche una parte della destra ha recuperato Pasolini, per non parlare del mondo cattolico che (non tutto, certo, ma in buona parte) in vita lo aveva duramente contrastato politicamente, ideologicamente, artisticamente e in via giudiziaria. È necessario, dunque, ricercare un elemento che, presente in vita e assente “in morte”, ha determinato le alterne sorti dell’odio e dell’amore (quasi viscerale, un vero e proprio culto profano) che di volta in volta hanno investito la figura, l’opera, la politica pasoliniane. In Pasolini, cioè, molto più che in altri autori, c’è un prima e un dopo. A mio avviso, ciò è spiegabile solo se consideriamo Pasolini una figura la cui complessità è legata ad una contraddittorietà sostanzialmente scandalosa. Anzi, Pasolini ha avuto nella scandalosa contraddittorietà poetica che lo ha contraddistinto proprio la maggiore forza eversiva a sua disposizione. Sarebbe lecito probabilmente parlare di una lucida coerenza contraddittoria (mi si perdoni l’ossimoro)[8]. Probabilmente, ad esempio, molti di coloro che oggi, dagli scranni della sinistra “illuminata” cantano le lodi di Pasolini, non sarebbero disposti a sposare le posizioni “conservatrici” di Pasolini (sull’aborto, lo stupro, il concetto di sviluppo e quello di povertà, la critica al razionalismo[9], ecc.). Ebbene, questa contraddittorietà e “ambivalenza” hanno fatto di Pasolini, durante la sua vita, un personaggio scomodo perché globale. Intendo dire, molto semplicemente, che Pasolini andava preso in toto. Non si poteva decidere di prenderne un “pezzo” e farne una chiave di lettura. Pasolini era lì, in tutta la spigolosità che un personaggio globale implica. Dopo la morte, al contrario, la dissezione pasolinana (uso questo termine, come vedremo, in maniera non casuale) è stata resa possibile. La morte di Pasolini, come spartiacque dirimente, ha provocato una deflagrazione e conseguentemente una frammentazione della complessità della sua figura. Dopo la morte di Pasolini possiamo tutti (comunisti, fascisti, cattolici, ecc.) prendere pezzi della sua storia, delle sue idee e farne paradigmi di lettura complessiva. Lo abbiamo dissezionato e ora ci apprestiamo a fagocitarlo. Mi sono chiesto quale fosse questo elemento presente in vita e assente dopo la morte.
Il vangelo secondo MatteoQual è l’elemento che univa e teneva insieme le varie parti della scandalosa complessità pasoliniana e che la morte ha fatto venir meno, provocandone lo scollamento e la relativa “detonazione”? La mia personale risposta a tale domanda è: il corpo. Parlo del suo corpo, innanzi tutto, ma anche del corpo come categoria concettuale centrale nel suo pensiero e nel suo agire. Naturalmente, non esiste una scissione tra le due cose; al contrario, siamo di fronte ad un’innegabile continuità. D’altronde, non credo debba stupirci tale considerazione. Il corpo è, anche se può sembrare contro-intuitivo, un’entità polisemica e ambivalente [Galimberti, 1989; Le Breton, 1990 e 1999; Mauss, 1950] e Pasolini ha saputo interpretare magistralmente tali caratteri divenendo, di fatto, l’ultimo grande cantore della corporeità. Anzi, artista ed intellettuale del sottoproletariato, egli è stato il cantore del valore esistenziale del rapporto col reale. Un reale che ha assunto il volto scavato, netto, spigoloso, espressivo della marginalità e della vitalità “popolare”. Un reale che ha assunto le sembianze sensuali, a volte lascive, del corpo; con i suoi “odori endocrini”, le ormonali secrezioni, che richiamano il fascino e la profonda qualità sessuale della natura. Non solo, il reale ha assunto anche le forme dei luoghi; i luoghi tipici dell’esistenza “naturale” di un pullulare di vita carico di spontaneità. Questo è il reale pasoliniano che (emblematicamente espresso nella sua semiologia) abbiamo sentito negli “odori” e nei “sapori” delle sue più significative sequenze cinematografiche.
In conclusione, credo che tutto ciò spieghi perché è decisamente fuorviante un paragone tra il cinema di Gibson e quello di Pasolini. Non è sufficiente, infatti, citare la forza della corporeità-per-immagini per legittimare paralleli tanto arditi quanto errati. Al contrario, quando si parla del corpo bisogna sempre verificare, di volta in volta, di che corpo e con quale corpo si “parla”[10]. Ma la mia non vuole essere una difesa conservativa, “nostalgica” e statica di un’esperienza artistica irraggiungibile. Ciò significherebbe immergere nella formalina un corpus culturale che si contraddistingue proprio per la sua storica potenza innovativa. Mi piace, in tal senso, ricordare che un esperimento cinematografico recente ricorda, per molti versi, la corporeità-per-immagini di Pasolini. È quello realizzato da P. Chéreau con il film “Son Frère” (2002). Riconosco decisamente una forte differenza tra gli universi poetici e politici dei due autori. Tuttavia, mi sembra di scorgere delle innegabili analogie. Anche Chéreau, infatti, in questo film, ha saputo trasformarsi in un vero e proprio “antropologo della carne”. E ha realizzato un affresco terribile e magnifico allo stesso tempo in cui ha dimostrato di saper delineare, con precisa forza e sapiente perizia, una mai banale e poetica anatomia del dolore. Anche in questo caso, in fondo, ci troviamo di fronte agli stessi tasselli espressivi, iconografici e simbolici di sempre: il sangue, la carne, il pus, il sudore. Ma qui, le lenzuola che raccolgono la sofferente fisicità di un Cristo assolutamente mondano, rinviano, metaforicamente, ad una Sacra Sindone del tutto materiale che, come la tela del Mantegna (espressamente citato da Pasolini in Mamma Roma) e la stessa pellicola di pochi altri cineasti (Bresson, ieri; i Dardenne, forse, oggi), ci risvegliano da un torpore culturale, raffigurandoci un corpo insolito, inatteso e dimenticato; un corpo tanto assente nell’immaginario, quanto presente nella realtà

Riferimenti Bibliografici

Ansart, P.
2002 Les utopies de la communication, in “Cahiers internationaux de sociologie, Vol. CXII [17-43]
Breton, P.
1995 L’Utopie de la communication. Le mythe du “village planetarie”, Paris, La Découverte

Cela, C. J.
1963 Once cuentos de futbol; trad. it.: Undici racconti sul calcio, Firenze, Passigli Editori, 2000

Eco, U.
1973 Il segno, Milano, ISEDI

Galimberti, U.
1989 Il corpo, Feltrinelli, Milano, 1983

Greimas, A. & Courtés, J.
1986 Semiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris

Le Breton, D.
1990 Anthropologie du corps et modernité, Puf, Paris
1999 Adieu au corps, Editions Métailié, Paris

Mauss, M.
1950 Sociologie et anthropologie, PUF, Paris; trad. it.: Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1965

Metz, C.
1968 Essais sur la signification au cinema, Ed. Klincksieck; tr.it. Semiologia del cinema, Milano, Garzanti, 1972 (I edizione: strumenti studio 1989)

Pasolini, P. P.
1968 Il PCI ai giovani!!!, in “Nuovi Argomenti”, aprile-giugno

Shilling, C.
1993 The body and social theory, Sage, London

Uhl, M.
2002 Intimité panoptique. Internet ou la communication absente, in “Cahiers internationaux de sociologie, Vol. CXII [151-168]

Note

* Citazione tratta da: [ Cela, 1963]

[1] Sul rapporto tra le “promesse di una comunicazione generalizzata al livello planetario, le immagini di una comunità indefinita di dialoghi pacificati” diffuse ampiamente nel discorso sulla comunicazione e il concetto di utopia così come si è caratterizzato dall’avvento delle grandi utopie sociali (a partire dalla Repubblica di Platone e le analisi di Fourier) in poi, vedi: Les utopies de la communication [Ansart, 2002] o L’Utopie de la communication. Le mythe du “village planetarie” [Breton, 1995]
[2] “Le corps est devenu puor nombre de contemporaines une représentations provisoire, un gadget, un lieu idéal de mise en scène pour “effets spéciaux” [Le Breton, 1999]
[3] Dal punto di vista semiotico, possiamo considerare i testi multimediali come testi sincretici. Essi, infatti, rinviano a sistemi semiotici eterogenei (Greimas e Courtés, 1986). Affinché si possa parlare di multimedialità in senso stretto sono necessarie, però, alcune condizioni: a) una strategia comunicativa coerente ed unitaria; b) una plusvalenza di significato; c) fruizione multisensoriale; d) combinazione nuova di media differenti.
[4] Non è casuale che Umberto Eco ha definito metafisica pansemiotica la semiologia pasoliniana [Eco, 1973]. Parimenti non possiamo dimenticare le parole pronunciate da Moravia proprio sulla sacralità del poeta in occasione dei funerali di Pasolini
[5] E’ stato lo stesso Metz, d’altronde, che ha tentato di definire la “specificità cinematografica” su due livelli: discorso filmico e discorso in immagini [Metz, 1968]. Il primo dei due livelli si caratterizza per la sua qualità compositiva. Il cinema, su questo livello, si specifica nel suo comporre linguaggi tra di loro differenti, ognuno dei quali mantiene le proprie “leggi”. Conglobando espressività anteriori, esso le proietta amalgamate in un linguaggio di linguaggi.
[6] G. Nicolosi, Tra reale e virtuale: Pasolini nell’era di Internet, in “Fucine Mute”, ottobre 2000-marzo 2001
[7] Basti pensare alla poesia “Il PCI ai giovani!!!” [Pasolini, 1968] e ai noti fatti legati a quella poesia
[8] Uso questa formula per dire che Pasolini aveva capito, a mio avviso, che per essere coerenti con se stessi (morali e non moralisti, come amava affermare) bisogna avere spesso il coraggio di sfidare la complessità e l’ambiguità del mondo
[9] Un razionalismo inteso come vena vitale che ha alimentato tutto il pensiero occidentale, compreso quello marxista e rivoluzionario. Pasolini, cioè, ha inteso affrontare una questione a lui assai cara, che riprenderà spesso nei suoi saggi e nei suoi film: la crisi sociale di un modello razionalista che ha fondato ogni ideologia di potere e d’opposizione
[10] Pensiamo, ad esempio, al diverso ruolo del corpo (quello delle donne in particolare) nelle società tradizionali e in quelle modernizzate. Nelle prime, esso è terreno di scontro simbolico tra spinte innovative e reazioni fondamentaliste. Da una parte la liberazione dei costumi come rivendicazione “semiotica” della modernità e dall’altra la difesa ad oltranza dell’identità culturale. Nelle seconde, al contrario, esso è, spesso, luogo privilegiato per l’attuazione della strategia dell’”innovazione conservativa” tipica della mercificazione consumistica.

Fonte:
http://www.fucinemute.it/2005/02/il-corpo-di-cristo-tra-presenza-e-assenza/


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Curatore, Bruno Esposito

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