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venerdì 31 maggio 2013

Nino Baragli (Roma, 1 ottobre 1926 – Roma, 29 maggio 2013), montatore cinematografico.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Nino Baragli, all'anagrafe Giovanni Baragli (Roma, 1 ottobre 1926 – Roma, 29 maggio 2013), è stato un montatore italiano.
Nipote del montatore Eraldo Da Roma, era in attività dal 1944 ed è stato il montatore cinematografico di più di duecento film fino al 1996.
"Nino Baragli, uno dei più grandi montatori del cinema italiano, attraversa la storia del montaggio in Italia. Ha iniziato alla fine degli anni ’40: ha montato i film di Pier Paolo Pasolini, Luigi Comencini, Mauro Bolognini, Bernardo Bertolucci, Francesco De Robertis e altri. Veniva da una piccola parentesi nel campo della fotografia. Anch’egli ha cominciato da operatore.
“Nel 1944 la sorella di Nino Baragli aveva seguito al nord suo marito Carlo Bellero, operatore del film “Alfa Tau!” di Francesco De Robertis. Erano rimasti al nord all’epoca del governo di Salò e si trovavano nei teatri di posa della nuova Scalera a Venezia, ove si era trasferita la casa di produzione, che cercava di portare a termine la produzione del film “Marinai senza stelle”.
Carlo Bellero faceva l’operatore e Nino Baragli raggiunse Venezia e cominciò da aiuto-operatore: caricava e scaricava gli châssis. Non c’erano macchine di primo ordine: erano “Arriflex”, facili da caricare. Poi dette una mano al regista pugliese Francesco De Robertis che si faceva il montaggio da solo, stava seduto alla moviola, tagliava, attaccava, proprio come un montatore. C’era una ragazza che faceva da assistente, non si numerava la pellicola, non si trovavano mai i tagli.” [1]
Molto conosciuta è la sua collaborazione con il regista italiano Sergio Leone: Baragli infatti ha partecipato ai film leoniani Il buono, il brutto, il cattivo, C'era una volta il West, Giù la testa e il gangster movie C'era una volta in America.
Baragli ha inoltre collaborato attivamente con il regista Federico Fellini.

Ha ricevuto il "David di Donatello" per il miglior montatore.

Fonte:
http://it.wikipedia.org/wiki/Nino_Baragli



Alcuni film...

A cavallo della tigre [1961] Montaggio
A sud niente di nuovo [1956] Montaggio
Accadde al commissariato [1954] Montaggio
Accattone [1961] Montaggio 
Ad ogni costo [1967] Montaggio
L'Africana [1990] Montaggio
Agostino [1962] Montaggio
Alambrado [1991] Montaggio
Ambrogio [1992] Montaggio
Amore amaro [1974] Montaggio
Amore e rabbia [1968] Montaggio ("La sequenza del fiore di carta") 
Appassionata [1974] Montaggio
Auguri e figli maschi! [1951] Montaggio
L'avaro [1989] Montaggio
Le avventure di Pinocchio [1972] Montaggio
Il barbiere di Rio [1996] Montaggio
Basta che non si sappia in giro [1976] Montaggio ("L'equivoco")
La bella di Lodi [1963] Montaggio
La bella di Roma [1955] Montaggio
Il bell'Antonio [1960] Montaggio
La bellezza d'Ippolita [1962] Montaggio
Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno [1954] Montaggio
Bianco, Rosso e Verdone [1980] Montaggio
Bubu [1971] Montaggio
I buchi neri [1995] Montaggio (supervisione)
La bugiarda [1965] Montaggio
Il buono, il brutto, il cattivo [1966] Montaggio
Caligola [1976] Montaggio
I cannibali [1969] Montaggio
Capriccio all'italiana [1967] Montaggio ("Perché?" / "La gelosa")
Casotto [1977] Montaggio
Cattivi pensieri [1976] Montaggio
Cavalli si nasce [1988] Montaggio
C'è Kim Novak al telefono [1993] Montaggio
C'era una volta il West [1968] Montaggio
C'era una volta in America [1984] Montaggio
Chi dice donna, dice donna [1975] Montaggio
Città violenta [1970] Montaggio
COMIZI D'AMORE [1965] Montaggio 
La commare secca [1962] Montaggio
Il commissario [1962] Montaggio
Il compagno Don Camillo [1965] Montaggio
CONTAMINATION - ALIEN ARRIVA SULLA TERRA [1980] Montaggio
Copkiller [1982] Montaggio
COSTA AZZURRA [1959] Montaggio
I cuori infranti [1963] Montaggio
I cuori infranti [1963] Montaggio
D'ANNUNZIO [1986] Montaggio
DANZA D'AMORE SOTTO GLI OLMI [1974] Montaggio
Il Decameron [1971] Montaggio
Delitto d'amore [1974] Montaggio
Il delitto Matteotti [1973] Montaggio
Django [1966] Montaggio
Le dolci signore [1967] Montaggio
Don Chisciotte [1984] Montaggio
La donna è una cosa meravigliosa [1964] Montaggio ("Una donna dolce dolce")
Dove vai in vacanza? [1978] Montaggio ("Sarò tutta per te")
Un dramma borghese [1979] Montaggio
DUE PEZZI DI PANE [1979] Montaggio
Edipo Re [1967] Montaggio 
El Greco [1966] Montaggio
L'eredità Ferramonti [1976] Montaggio
Le fate [1966] Montaggio ("Fata Elena")
Fatti di gente perbene [1974] Montaggio
FINALMENTE LIBERO [1953] Montaggio
La fine è nota [1992] Montaggio
La finestra sul Luna Park [1957] Montaggio
Fräulein Doktor [1968] Montaggio
Galileo [1968] Montaggio
GANGSTERS [1992] Montaggio
Il Gatto [1977] Montaggio
Ginger e Fred [1985] Montaggio
Il giocattolo [1979] Montaggio
Il gioco della verità [1974] Montaggio
GIROLIMONI IL MOSTRO DI ROMA [1972] Montaggio
Giù la testa [1971] Montaggio
GRAN BOLLITO [1977] Montaggio
Il grande colpo dei sette uomini d'oro [1966] Montaggio
Hotel Colonial [1986] Montaggio
I CAMMELLI [1988] Montaggio
I CRUDELI [1967] Montaggio
I DIVERTIMENTI DELLA VITA PRIVATA [1990] Montaggio
I NUOVI ANGELI [1961] Montaggio
I PAVONI [1994] Montaggio
I SOLDI [1965] Montaggio
IL CAMPANILE D'ORO [1955] Montaggio
IL CAPPOTTO DI ASTRAKAN [1979] Montaggio
IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE [1974] Montaggio 
IL GIORNO DELLA CIVETTA [1967] Montaggio
IL MALATO IMMAGINARIO [1979] Montaggio
IL PRETE SPOSATO [1970] Montaggio
IL TURNO [1981] Montaggio
L'impiegato [1959] Montaggio
IMPUTAZIONE DI OMICIDIO PER UNO STUDENTE [1972] Montaggio
Incompreso [1966] Montaggio
Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova veneziano [1969] Montaggio
L'ingorgo [1978] Montaggio
Intervista [1986] Montaggio
Io, Amleto [1952] Montaggio
IO SONO LA PRIMULA ROSSA [1954] Montaggio
Italian Secret Service [1967] Montaggio
Johnny Stecchino [1991] Montaggio
Jona che visse nella balena [1993] Montaggio
JUS PRIMAE NOCTIS [1972] Montaggio
LA CAMPANA DI SAN GIUSTO [1954] Montaggio
LA CORRUZIONE [1963] Montaggio
LA DONNA DEL LAGO [1965] Montaggio
LA FUGA [1964] Montaggio
LA GIORNATA BALORDA [1960] Montaggio
La moglie è uguale per tutti [1955] Montaggio
LA NOTTATA [1974] Montaggio
LA STREGA IN AMORE [1966] Montaggio
L'AMORE ATTRAVERSO I SECOLI [1967] Montaggio
L'AMORE ATTRAVERSO I SECOLI [1967] Montaggio
L'ASSOLUTO NATURALE [1969] Montaggio
L'ATTENZIONE [1985] Montaggio
Leoni al sole [1961] Montaggio
L'EROTOMANE [1974] Montaggio
L'ESTATE [1966] Montaggio
Libera, amore mio!... [1973] Montaggio
LITTLE RITA NEL FAR WEST [1967] Montaggio
L'ULTIMO SOLE [1963] Montaggio
La lunga notte del '43 [1960] Montaggio
Il lungo silenzio [1993] Montaggio
Madamigella di Maupin [1965] Montaggio
MAFIOSO [1962] Montaggio
MALAMORE [1982] Montaggio
Mamma Roma [1962] Montaggio 
La mandragola [1965] Montaggio
Marco Polo [1982] Montaggio
Mariti in città [1958] Montaggio
Marrakech Express [1989] Montaggio
Medea [1969] Montaggio 
Mediterraneo [1991] Montaggio
Metello [1969] Montaggio
La mia signora [1964] Montaggio (tutti gli episodi)
Il minestrone [1981] Montaggio
Mio Dio, come sono caduta in basso! [1974] Montaggio
Il mio nome è Nessuno [1973] Montaggio
MISS ARIZONA [1987] Montaggio
Mogli pericolose [1958] Montaggio
MOGLIAMANTE [1977] Montaggio
Le monache di Sant'Arcangelo [1973] Montaggio
MOSCA ADDIO [1986] Montaggio
Il mostro [1994] Montaggio
Nel segno di Roma [1958] Montaggio
Non chiamarmi Omar [1992] Montaggio
Non ci resta che piangere [1984] Montaggio
La notte brava [1959] Montaggio
OCCHEI OCCHEI [1983] Montaggio
ODIO MORTALE [1962] Montaggio
OGGI A BERLINO [1962] Montaggio
OMICRON [1963] Montaggio
L'orso di peluche [1993] Montaggio
Ostia [1970] Montaggio
Paolo il caldo [1973] Montaggio
Parigi o cara [1962] Montaggio
La paura fa 90 [1951] Montaggio
Per amore solo per amore [1993] Montaggio
PER LE ANTICHE SCALE [1975] Montaggio
I piaceri dello scapolo [1960] Montaggio
Il piccolo diavolo [1988] Montaggio
Porcile [1969] Montaggio 
PRIGIONIERA DELLA TORRE DI FUOCO [1952] Montaggio
PROFESSORE VENGA ACCOMPAGNATO DAI SUOI GENITORI [1974] Montaggio
PUERTO ESCONDIDO [1992] Montaggio
QUANDO LE DONNE PERSERO LA CODA [1971] Montaggio
QUANDO LE MONTAGNE FINISCONO [1994] Montaggio
QUEL TESORO DI PAPA' [1959] Montaggio
Quelle strane occasioni [1976] Montaggio ("L'ascensore")
La rabbia [1963] Montaggio (prima parte) 
La rabbia di Pasolini [2008] Montaggio (1963) 
I racconti di Canterbury [1972] Montaggio
La ragazza di Bube [1963] Montaggio
Un ragazzo di Calabria [1987] Montaggio
Ritratto di borghesia in nero [1978] Montaggio
ROGOPAG [1963] Montaggio ("La ricotta" / "Il pollo ruspante") 
SACCO E VANZETTI [1970] Montaggio
Salò o le 120 giornate di Sodoma [1975] Montaggio
SALUTI E BACI [1953] Montaggio
Scano Boa [1961] Montaggio
Lo scopone scientifico [1972] Montaggio
Segreti Segreti [1984] Montaggio
Senza sapere niente di lei [1969] Montaggio
SERPENTE A SONAGLI [1976] Montaggio
Sette donne per i Mac Gregor [1966] Montaggio
Silenzio... si nasce [1996] Montaggio
SOLE NUDO [1984] Montaggio
Le sorprese dell'amore [1959] Montaggio
Le stagioni del nostro amore [1965] Montaggio
La storia [1986] Montaggio
La storia vera della signora dalle camelie [1981] Montaggio
STORIE SCELLERATE [1973] Montaggio
STRANA LA VITA [1987] Montaggio
Le streghe [1967] Montaggio ("Senso civico"/"La Terra vista dalla Luna")
Il tallone d'Achille [1952] Montaggio (non accreditato)
TANGO BLU [1987] Montaggio
TEOREMA [1968] Montaggio 
Thrilling [1965] Montaggio ("Sadik")
TIRO AL PICCIONE [1961] Montaggio
La tratta delle bianche [1952] Montaggio
Tre spot per Banca di Roma [1992] Montaggio 2I tre volti [1964] Montaggio ("Gli amanti celebri"/"Latin Lover")
Troppo forte [1986] Montaggio
Turné [1989] Montaggio
Tutti a casa [1960] Montaggio
Uccellacci e uccellini [1966] Montaggio 
UN GENIO DUE COMPARI UN POLLO [1975] Montaggio
UNA VITA VENDUTA [1976] Montaggio
VA' DOVE TI PORTA IL CUORE [1995] Montaggio
Il Vangelo secondo Matteo [1964] Montaggio
La viaccia [1961] Montaggio
I viaggiatori della sera [1979] Montaggio
Le vie del Signore sono finite [1987] Montaggio
La vita, a volte, è molto dura, vero Provvidenza? [1972] Montaggio
La voce della luna [1989] Montaggio
VOGLIAMOCI TROPPO BENE [1989] Montaggio
Voltati Eugenio [1980] Montaggio
ZOO [1988] Montaggio

Fonte:
http://www.cinematografo.it/pls/cinematografo/consultazione.redirect?ida=6758



 Nino Baragli
Enciclopedia del Cinema (2003) 
di Stefano Masi

Montatore, nato a Roma il 1° ottobre 1926. Figura di spicco del montaggio italiano, acquistò grande prestigio nei primi anni Sessanta quando, dopo una già prolifica carriera, diede una coraggiosa quanto razionale forma alle 'sgrammaticature' del film d'esordio di Pier Paolo Pasolini, Accattone (1961), giudicato impossibile da montare da Leo Catozzo, montatore di Federico Fellini e uomo di fiducia della casa di produzione Federiz. Iniziò così il suo sodalizio artistico con Pasolini, uno dei più saldi e duraturi del cinema italiano, che lo condurrà a montare tutti i film del regista. Durante la sua carriera ha ricevuto il David di Donatello nel 1990 per La voce della luna di Fellini e Turné di Gabriele Salvatores, e nel 1991 per Mediterraneo di Salvatores, mentre nel 1998 è stato il primo montatore a ricevere il Nastro d'argento alla carriera, precedentemente non previsto per la categoria. Nipote del celebre montatore Eraldo Iudiconi (detto Eraldo da Roma), cominciò sin da bambino a frequentare la moviola dello zio; ma, in realtà, iniziò a lavorare nel cinema come aiutante del cognato Carlo Bellero, operatore dei film di Francesco De Robertis, negli studi veneziani della Scalera film, dove era giunto nel 1944 dopo un avventuroso viaggio attraverso l'Italia divisa in due dalla guerra. A Venezia il giovanissimo B. aiutò anche il comandante De Robertis nel montaggio del suo film Marinai senza stelle, realizzato nel 1943 ma distribuito solo nel 1949. Al ritorno a Roma, lavorò per breve tempo come sincronizzatore dei film montati da Renato Cinquini e come aiuto montatore per lo zio Eraldo, al montaggio, per es., di un film quale Eugenia Grandet (1946) di Mario Soldati, prima di esordire come montatore nel 1950 con La strada buia di Marino Girolami e Sidney Salkov. Negli anni Cinquanta montò un gran numero di commedie di Giorgio Simonelli e pellicole a basso costo. Il primo autore importante con il quale instaurò un rapporto di intensa collaborazione fu Luigi Comencini, per il quale continuerà a montare per oltre un trentennio. Al principio degli anni Sessanta ci fu l'incontro con Pasolini e con altri autori italiani della nuova generazione, come Mauro Bolognini, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, Ugo Gregoretti, Bernardo Bertolucci, e B. divenne così uno dei protagonisti ? sebbene quasi inconsapevole ? della grande rivoluzione del linguaggio cinematografico, teorizzata da Pasolini nelle sue riflessioni sul cinema di poesia. In film come Accattone e Mamma Roma (1962) dimostrò che le regole tradizionali del montaggio, costruite per decenni sulle entrate e le uscite di campo e sulla direzione degli sguardi, potevano essere forzate, indicando una strada da seguire a quella che sarà definita la nouvelle vague del cinema italiano. Il suo contributo al cinema di Pasolini è stato determinante soprattutto in film come Uccellacci e uccellini (1966), Teorema (1968), Porcile (1969), I racconti di Canterbury (1972), Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Assai intensa anche la sua collaborazione con Bolognini, per il quale montò molti film, da La notte brava (1959) a Il bell'Antonio (1960), da La viaccia (1961) a Senilità (1962). Determinante anche il suo contributo ad alcune opere di Sergio Leone, come Il buono, il brutto, il cattivo (1966), C'era una volta il West (1968) e, soprattutto, Once upon a time in America (1984; C'era una volta in America), per il quale si ritrovò in moviola trecentomila metri di girato ed ebbe un ruolo nella complessa organizzazione dei piani narrativi. Negli anni della sua maturità professionale B. ha formato giovani autori non ancora completamente padroni del linguaggio cinematografico. Il caso più significativo è stato quello di Roberto Benigni, per il quale B. ha montato Non ci resta che piangere (1984), Il piccolo diavolo (1988), Johnny Stecchino (1991) e Il mostro (1994). Affezionato alla tecnologia del montaggio in pellicola, si è rifiutato per anni di abbandonarla in favore delle tecnologie digitali Avid, da lui usate soltanto nel suo ultimo film, Silenzio si nasce (1996) di Giovanni Veronesi, dopo il quale ha deciso di abbandonare la moviola. Tra gli altri registi con i quali B. ha lavorato, da ricordare Franco Giraldi, Sergio Citti, Damiano Damiani, Tonino Valerii, Carlo Verdone, Pál Gabór, Pál Sándor, Gabriele Salvatores, Margarethe Von Trotta, Roberto Faenza e l'ultimo Federico Fellini. Nella sua lunga e prolifica carriera ha collaborato a circa trecento film.È stato uno dei fondatori, e per molti anni il presidente, dell'AMC (Associazione Montatori Cinematografici).bibliografia
S. Masi, Conversazione con Nino Baragli, in S. Masi, Nel buio della moviola, L'Aquila 1985, pp. 123-34.

Fonte:
http://www.treccani.it/enciclopedia/nino-baragli_(Enciclopedia_del_Cinema)/



Intervista a Nino Baragli

Questa è la prima di una serie di interviste a montatori, che vorremmo proporre alla vostra attenzione.
E’ tratta da un testo edito dall’ Accademia dell’immagine dell’Aquila, Nel Buio della Moviola , una lunga e interessantissima serie di interviste a tanti protagonisti e protagoniste del montaggio in Italia. STEFANO MASI è l’autore di questo libro.

NINO BARAGLI è stato uno dei più grandi montatori del cinema italiano. Con oltre duecento film montati ha veramente attraversato la storia del montaggio in Italia. Ha iniziato il suo lavoro alla fine degli anni ’40, ha montato i film di Pasolini, Leone, Fellini, Comencini, Bolognini, Bertolucci e tantissimi altri.

Signor Baragli, vorrei che mi spiegasse un piccolo mistero sulla nascita di questo mestiere. Un vecchio operatore italiano, Otello Martelli, mi raccontò che quando lui era giovanissimo l’operatore ed il montatore talvolta erano la stessa persona. Le sembra possibile?

Effettivamente mi sembra un pò strano. Ma non è impossibile

Diciamo che forse funzionava così: da una parte c’era l’intellettuale, che pensava, scriveva il soggetto e dirigeva il film; dall’altra c’era il tecnico che faceva sia la fotografia che il montaggio. Forse il tecnico, montatore e operatore, era quello che usava le mani, che toccava fisicamente la pellicola.

Adesso che ci penso non è una cosa tanto strana. Per esempio mio zio Eraldo fece per qualche tempo l’aiuto operatore prima di dedicarsi al montaggio. Non so come e perché sia passato, poi, a fare il montatore.

Suo zio Eraldo è Eraldo da Roma, il più grande montatore di tutti i tempi…

Il suo vero nome era Eraldo Judiconi. Cominciò la sua carriera negli anni trenta. Ricordo che quando faceva Addio Kira e Noi vivi io già stavo attaccato alla sua moviola, a vedere come si facevano le giunte, come si muoveva l’immagine…

Perché suo zio si faceva chiamare Eraldo da Roma?

Lui era stato anche tenore. Era bravissimo. Faceva molti concerti. Cantava soprattutto opere. Ricordo che fece la Tosca. Io ho ancora una fotografia in cui Eraldo indossava i panni di Cavaradossi. Eraldo da Roma era il suo nome d’arte quando cantava, ma in realtà si chiamava Judiconi: era il fratello di mia madre.

E questo nome d’arte se lo è portato dietro anche nel mondo del cinema. Che lei sappia, perché abbandonò l’opera?

In realtà lui non riusciva a sfondare nel mondo della lirica. Un giorno fece una audizione al Teatro dell’Opera: sentendolo cantare Rita Gigli, la figlia del grande Beniamino Gigli, lo scambiò per suo padre. Eraldo aveva una voce grandissima, ma sapeva che entrare nel grande giro era difficilissimo. Così decise di passare al cinema e cominciò a fare l’aiuto- operatore.

E lei, signor Baragli, ha cominciato a lavorare con suo zio Eraldo?

No. Vengo da una piccola parentesi nel campo della fotografia. Quello che lei diceva prima sui rapporti tra operatori e montatori è probabilmente giusto. Anch’io ho cominciato da operatore.

Come e quando?

Nel 1944 mia sorella aveva seguito al nord suo marito Carlo Bellero, operatore di film come Alfa Tau e La nave bianca. Erano rimasti al nord all’epoca del governo repubblichino e si trovavano a Venezia. Io, che non vedevo da tanto tempo mia sorella, raggiunsi Venezia con mezzi molto avventurosi…

Ed anche suo zio Eraldo si era trasferito a Venezia seguendo le orme del cinema repubblichino?

No. Lui era rimasto a Roma. A Venezia si era trasferita la nuova Scalera che stava cercando di portare a termine la produzione di un altro film di De Robertis, Marinai senza stelle. Io sono andato li.

Ma all’epoca lei che età aveva?

Non più di sedici o diciassette anni.

E che cosa faceva un ragazzino di diciassette anni nei teatri di posa della Scalera di Venezia?

Facevo il ragazzino di bottega di mio cognato. Lui faceva l’operatore ed io cominciai a fargli da aiuto-operatore: caricavo e scaricavo gli châssis. Non c’erano macchine di primo ordine: erano Arriflex, non troppo difficili da caricare. Poi siccome De Robertis si faceva il montaggio da solo, sono andato a dare una mano anche a lui.

Insomma un regista con un assistente al montaggio, ma senza montatore.

Devo dire che negli anni ‘40 non c’era ancora una precisa coscienza dell’importanza del ruolo del montatore. Poi, con alcuni grandi montatori come Serandrei ed Eraldo, la categoria dei montatori ha cominciato a dimostrare il proprio valore.

Subito dopo la guerra la figura del montatore era pressoché sconosciuta.

Certo, la gente della strada non conosceva i montatori ed ignorava del tutto il montaggio. Ma gli addetti ai lavori sapevano bene quanto fosse importante il ruolo del montatore. De Sica sapeva che mio zio Eraldo era un uomo straordinario. E Visconti sapeva che Serandrei gli aveva dato moltissimo.

Lei non sa se De Robertis abbia sempre usato questa pratica di montarsi i film da solo?

No, per quel che ho visto io , montava da se, stava seduto alla moviola, faceva tutto lui, tagliava, attaccava, proprio come un montatore. C’era una ragazza che faceva la assistente. Ricordo che c’era un gran casino in quella moviola: non si numerava la pellicola, non si trovavano mai i tagli…

Dopo questa esperienza lei è tornato a Roma, dove ha cominciato a lavorare con suo zio.

Si, ricordo che lui stava montando Eugenia Grandet, un film diretto da Mario Soldati. Con zio Eraldo ho fatto solo un paio di film. E neanche come assistente. Ero un semplice aiuto-montatore. Poi ho cominciato subito a fare il montaggio.

Qual’è la differenza tra aiuto-montatore ed assistente al montaggio?

E’ il contrario di ciò che avviene sul set, dove l’assistente è un collaboratore dell’aiuto-operatore: in moviola l’aiuto-montatore è un collaboratore dell’assistente al montaggio.

La gerarchia dei ruoli della moviola è questa: prima c’è il montatore, poi l’assistente al montaggio ed infine l’aiuto.

Quali sono i film che lei ha fatto come aiuto-montatore per suo zio Eraldo?

Uno era Eugenia Grandet. L’altro film si chiamava Premio di Roma: una strana cosa. Era una delle prime volte che gli americani vennero in Italia. Fu proprio una “bufala”, perché questi dicevano di avere grandi attori, di essere grandi nomi del cinema ed invece non lo erano. C’era un Montgomery, ma non era quello famoso, era un altro. Cose che succedevano subito dopo la fine della guerra.

Quindi stiamo parlando degli anni tra il 1946 ed il 1948.

Sì, subito dopo ho montato il primo film “mio”. Era il 1950. La produzione era americana e tutta la troupe parlava solo inglese. Io non capivo una parola. Il film si chiamava Dark road ed era prodotto da Mike Frankovic, che tutti noi chiamavamo “sigarone” perché aveva sempre un sigaro lungo così (qualche anno dopo sarebbe diventato il presidente della Columbia Productions). E su questo stesso Dark road Tonino Delli Colli debuttò come direttore della fotografia.

Come si esordiva nel ruolo di montatore alla fine degli anni ‘40?

Secondo me non è cambiato assolutamente nulla. Le scuole c’erano prima e ci sono adesso. Il Centro sperimentale c’era prima e c’è adesso. Allora come adesso, c’era il nepotismo, che è diffuso in tutto il cinema: io ho un amico,tu hai un amico, io ho un nipote… Il nepotismo è vivo in tutto il cinema e in tutta la nostra cultura. Secondo me non è cambiato nulla. Oggi come ieri il nepotismo detta legge. Le scuole, secondo me, non hanno possibilità di tirare fuori dei montatori. Probabilmente sono sbagliate le strutture… Per esempio io adesso ho due nipoti che fanno gli aiuto-montatori. Roberto Perpignani ha la figlia che pure fa l’aiuto. Montanari ha inserito suo figlio. Come vedi fanno tutti così.

E le forme di questo fenomeno sono oggi esattamente uguali a quelle vigenti quaranta anni fa?

Forse sono un pò variate. Quaranta anni fa i montatori erano un circolo chiuso, ancora più chiuso di adesso. Addirittura lo erano anche nei confronti dei propri parenti. Io mi ricordo che quando ho cominciato a fare il montatore mio zio Eraldo sconsigliò Camillo Mastrocinque che voleva prendermi come montatore. Di solito a Mastrocinque i film glieli montava mio zio. Ebbene, invece di caldeggiare la mia candidatura, gli disse che ero ancora troppo giovane, che dovevo crescere, che era meglio se glielo montava lui il film. Era un “clan” molto chiuso…

Perché c’era questo clima di chiusura nella categoria dei montatori?

Ricordo che , quando si incontravano nei corridoi di Cinecittà, mio zio Eraldo girava la testa da una parte e Serandrei dall’altra. Non si salutavano nemmeno tra loro. Non c’era il rapporto che oggi, per esempio, lega tutti noi dell’Associazione: Mastroianni, Perpignani, Fraticelli, Montanari ed io. Chi ci accusa di non lasciare spazio ai giovani si sbaglia. Piuttosto dovrebbe rendersi conto di quanto più dura fu la situazione per noi che esordimmo trenta o quaranta anni fa.

Quanti erano i montatori italiani provenienti dal Centro Sperimentale di Cinematografia?

Che io sappia non ce ne era nessuno. E nemmeno oggi…

Tranne Silvano Agosti.

Ma Agosti non è un montatore. Lui fa il regista.

E perché, secondo lei, c’è questo scarsissimo collegamento tra il C.S.C. ed il mondo del cinema?

Le scuole sono valide, ma fino ad un certo punto. Non è che tu impari a fare il montatore così come impari che due più due fa quattro. Talvolta nel montaggio due più due fa tre. Mi capisci? E’ una questione di inventiva. La capacità di montare un film è una cosa che uno ce l’ha o non ce l’ha. Le scuole non te le insegnano certe cose.

Non dimentichiamo però che ci vogliono le occasioni giuste per inserirsi al posto giusto. Altrimenti il talento serve a poco.

Come diceva Eduardo De Filippo, gli esami non finiscono mai. Ogni volata che monti un film è un esame che fai dinanzi al regista, dinanzi al produttore… Noi facciamo sempre esami.

Anche un film di produzione minore può essere un esame?

Almeno per me non c’è differenza fra un film e l’altro. Non ci sono film di serie A e di serie B. Tutti i film sono uguali. Tu pensa al regista che fa un piccolo film: per lui quello è sempre un Ben Hur…

Ti capita ancora oggi di giovani registi o con esordienti?

Certo. Pochi giorni fa ho parlato con Cinzia Torrini per un suo film che io dovrei montare. Dovrebbero esserci attori come Robert Duvall o John Savage. Lei ha scritto la sceneggiatura e mi ha chiesto se potevo dare un’occhiata. Così ci siamo messi insieme ed abbiamo fatto una revisione del copione. E’ una cosa che non mi era mai successa. Lei è al suo secondo film. E’ stata una esperienza bellissima. Io non ho preteso soldi, non ho preteso niente. Le ho detto.”Faremo tutto un conto!”

E’ normale che un montatore inizi la sua collaborazione col regista sin dalla fase di sceneggiatura?

Non succede quasi mai. Eppure sarebbe auspicabile. Il montaggio è una rilettura del copione dopo il filtro della regia. Perchè in moviola talvolta capita veramente di cambiare il film. Vedi il film che si trova su questi scaffali: è “L’attenzione” di Giovanni Soldati. Bene, io vorrei farti leggere il copione originale e poi farti vedere il film. C’è stato un gran cambiamento.

La partecipazione del montatore alla scrittura del film è un’utopia, in forte contrasto con l’atteggiamento di molti registi. Perpignani mi ha raccontato che Orson Welles gli diceva “Tu non devi pensare.”
Certo, per adesso sono pochi i registi che si prestano ad una collaborazione veramente piena.

Per ciò che concerne il lavoro del montatore, quali sono le principali differenze tra il cinema di ieri e quello di oggi?

Secondo me la differenza più notevole è la quantità di pellicola girata. I montatori di quaranta anni fa non si ritrovavano in moviola tutti i chilometri di pellicola con cui dobbiamo combattere noi oggi. Adesso per il film di Leone C’era una volta in America io ho avuto da scegliere tra trecentomila metri di pellicola. Mentre quaranta anni fa il girato che arrivava in moviola era sì e no diecimila metri.

Ma non si può fare il paragone con C’era una volta in America…

Certo, gli altri film non arrivano a queste cifre, ma siamo sempre sui settantamila metri. Bisogna anche tener presente che molti anni fa si girava più legato. Si faceva un certo montaggio interno all’inquadratura. Germi, per esempio, quando girava sapeva già dove voleva il taglio. adesso ci sono le seconde macchine, le terze macchine… girano fiumi di pellicola.

Non ci sono delle eccezioni a questa abitudine allo spreco?

Poco tempo fa ho visto il girato di un film fi Ferreri. Lui non gira così tanto. E’ uno che fa il cinema come si faceva tanti anni fa. 

Torniamo al 1950, anche in cui ha cominciato a fare il montatore. Se io entrassi in una moviola del 1950 che cosa vedrei di diverso rispetto ad oggi? Forse degli strumenti diversi? 

Non c’è dubbio! 

Mi può descrivere questi strumenti diversi?

Per quel che ricordo, la moviola allora aveva il pianale di legno. Era fornita solo di quattro piatti. Non c’era la manopola. Per andare avanti e indietro si usavano dei pedali: premendo il destro si andava avanti, premendo il sinistro si tornava indietro. Se li lasciava entrambi c’era la frenata. 

E c’era la pressa Catozzo?

No! E quello era il dramma! Negli anni cinquanta per tagliare bisognava essere proprio bravi. Adesso è facile tagliare, perchè al limite l’attacco lo vedi, provi e riprovi: se non va bene aggiungi due fotogrammi. Tanto non succede niente! Una volta, questo cuci e scuci non lo si poteva fare. Con la pressa ad acetone ad ogni giunta perdevi un fotogramma perché dovevi tagliare su un buco. E, dopo che aveva tagliato a fette un fotogramma, non potevi più ricostruire l’inquadratura. Quel fotogramma bisognava buttarlo via. 

E questa maggiore difficoltà nel fare le giunte vi creava qualche impaccio? 

Si faceva così. Per decidere bene dove fare l’attacco, prima di tagliare si guardava il fotogramma attentamente, con una lente di ingrandimento. 

Anche suo zio Eraldo usava la lente?

Zio Eraldo ne aveva una cerchiata d’oro, che gli era stata regalata da Rossellini o da De Sica, non ricordo bene. Poi, quando è morto me la lasciata in eredità. Con la sua lente zio Eraldo guardava i movimenti, dove stava il braccio, dove stava la testa. Accendeva la lucetta, guardava bene, controllava, faceva i segni. Poi guardava di nuovo, si faceva un’altra volta i segni. Insomma, prima di fare il taglio ne passava di tempo. 

Anche lei ha usato questa tecnica quando è diventato montatore?

Veramente no. A me non me ne fregava niente se sbagliavo, tanto sulla scena ci mettevo una pecetta nera. Però poi vedevi sulla scena tutte queste pecette nere.

A che servivano le pecette nere?

Per coprire il vuoto creatosi con l’asportazione di quella fettina di fotogramma tagliata per fare la giunta.

Immagino che non fosse una cosa sbrigativa.

Ci voleva un tempo enorme.

In pratica, a chi toccava questo lavoro di rattoppo? Forse all’assistente?

No, lo faceva il montatore. L’assistente si occupava delle colonne suono. Anzi quello delle colonne era un lavoro delicatissimo, perchè allora si montava con lo standard. La colonna suono si trovava già stampata accanto alla scena, ma tra il visivo ed il sonoro c’erano 19 fotogrammi di sfasamento. Per cui bisognava montare in una maniera tutta particolare.

Era come montare una copia già stampata con tanto di colonna?

Più o meno. Bisognava prima montare l’immagine. Poi allungare tutte le inquadrature per il doppiaggio. Insomma bisognava fare due volte il montaggio: non si finiva mai. E ti dirò di più. Negli anni subito dopo la guerra si faceva il doppiaggio (e credo che la Fono Roma lo abbia fatto fino a pochi anni fa) con la pellicola ottica negativa a mezza banda. Cioè un 35mm tagliata a metà, che si usava sia sotto che sopra, per economizzare. Una volta ho sincronizzato un film con il negativo della colonna.

E in pratica questo che voleva dire?

Che se per caso ti si rompeva la pellicola dovevi chiamare di nuovo l’attore e fargli riincidere quella battuta!

La sincronizzazione dell’immagine con il suono rientrava nei compiti del montatore?

Allora c’era molto suono in presa diretta. Esistevano dei reparti specializzati, ma anche gli assistenti facevano questo lavoro. Il montatore non se ne occupava in prima persona. Per quel che mi riguarda io l’ho fatto per arrotondare la paga all’epoca in cui ero assistente. Sincronizzavo per Cinquini, che stava montando “Il diavolo bianco”.

Di giorno faceva l’assistente e di sera il sincronizzatore?

Esattamente. Dopo la mia giornata in moviola, andavo in un’altra moviola e ci restavo fino a mezzanotte, per sincronizzare. Certe cose le fai solo se hai la passione!

Le restava ben poco tempo da dedicare alle altre cose e agli altri.

Questo mestiere bisogna amarlo fino all’esasperazione. Io non credo a quelli che si vantano di poter montare un film in dieci giorni. Forse lo si può anche fare, ma poi bisogna passare altri dieci giorni a rivederlo, perchè c’è sempre qualcosa che non funziona. A me non piacciono le cose fatte in fretta e furia. Ci vuole impegno…

Indipendentemente dal fatto che il materiale girato sia poco o molto?

Sai, conta poco. A volte, per farmi capire che è il film non è difficile da montare, mi dicono:”E’ un regista che gira poco”! Ma mica è detto che avere poco materiale ti semplifica il lavoro in moviola. Quando è tanto vuol dire che avrò bisogno di molto tempo per trovare quello giusto, ma lo troverò. Quando è poco, può darsi che non ci siano le cose giuste.

Mi puoi parlare di un tuo film che ti sembra particolarmente significativo per il lavoro di montaggio?

Mi pare che con Accattone sia un pò cambiato il sistema di montaggio. Il film lo doveva produrre la Federiz (cioè Federico Fellini e la Rizzoli). Pasolini girò due settimane. Poi il montatore Leo Catozzo comunicò alla produzione il proprio parere: gli sembrava impossibile montare quello che Pasolini stava girando! La lavorazione fu interrotta. Chi ha conosciuto Pasolini sa che era un uomo molto emotivo, molto passionale. Si sentiva distrutto per un affare del genere (per Mamma Roma si voleva addirittura suicidare perchè non gli piaceva). E allora è venuto fuori il produttore Alfredo Bini e abbiamo visto insieme questo materiale.

E a lei come sembrava quel materiale girato da Pasolini?

Quando l’ho visto mi è preso un colpo! Pasolini girava un uomo che correva. Poi, improvvisamente lo faceva ritrovare fermo. Noi montatori eravamo abituati alle uscite e alle entrate in campo. Pasolini invece un controcampo lo faceva a Frascati e un altro a Venezia. Ma io riuscii a capire esattamente quello che voleva. Pasolini non parlava mai. Ed era molto difficile capire il suo modo di lavorare.

Aveva una formazione ed una cultura tipicamente letterarie. Forse non aveva un buon rapporto con la tecnologia.

Io gli facevo sempre la stessa domanda: “Ma questa sequenza cosa vuol dire?”. Perchè lui scriveva il copione in un modo che non si capiva niente. Era un copione molto breve, ma con tante cose dentro. Io gli chiedevo:” Ma che vuol dire?”. Allora lui si toglieva gli occhiali, li appoggiava sulla gamba e cominciava a spiegarmi.

Ma la spiegazione di Pasolini in che consisteva? Era una spiegazione del contenuto oppure delle sue metafore?

Lui spiegava la sequenza come se fosse un libro. Non aveva mai delle regole fisse. Bisognava interpretarlo.

Ed i suoi colleghi che atteggiamento assunsero di fronte ad un atteggiamento così fuori della norma?

Serandrei quando vide Accattone si congratulò con me. Mi disse :”Sai, ho visto una cosa stupenda!”.

Da giovane lei ha mai lavorato nei reparti di sincronizzazione?

Si, perchè entrare nel grande giro del montaggio non era facile. E, in attesa del colpo buono, tutti i giovani facevano sincronizzazione.

Perchè era difficile entrare nel grande giro?

C’erano i “big” che assorbivano tutto il mercato e non ti facevano entrare nel giro importante. Facevano quattro o cinque film per volta. Serandrei, per esempio, ne faceva anche otto alla volta: lui era il numero uno della Titanus.

Come facevano questi grandi del passato a montare quattro, cinque o addirittura otto film allo stesso tempo?

Ci riuscivano. Anche noi li abbiamo fatti ai tempi d’oro. Io ne ho fatti anche quattro per volta.

Ma come si fa a stare contemporaneamente in quattro moviole, a tener dietro a quattro registi?

Certo non è facile. Ricordo una volta che stavo montando quattro film, tutti e quattro presso gli stabilimenti del vecchio Istituto Luce. Una mattina arrivo lì e trovo nel cortile tutti e quattro i registi, erano: Giuliano Montaldo, Florestano Vancini, Vittorio Caprioli e Ugo Gregoretti. Stavano aspettando me. Tutti e quattro. Appena li ho visti, gli ho detto ” Vado un attimo al bar, torno subito!” e me le sono squagliata. Poi li ho chiamati al telefono uno ad uno e ho fissato un incontro con ciascuno di loro.

Ma non le sembra che sia scorretto fare quattro film per volta?

Io cerco di non accavallare i film. Almeno ci provo. Ma noi montatori abbiamo molti clienti e dobbiamo accontentarli tutti. Talvolta ho detto di no a qualcuno. Ricordo che Scola voleva che gli montassi Riusciranno i nostri eroi. Me lo disse il produttore e lo stesso Ettore Scola telefonò a casa mia. Io non c’ero, parlò con mia moglie:”Dica a Nino che sono molto contento di montare il film con lui. Adesso parto per le riprese. Poi gli faccio sapere qualcosa.”

Contemporaneamente Pasolini cominciava Porcile, che non era una grande produzione, ma mi sembrava un film importante. Tra i due sono stato costretto a fare una scelta. Ho scelto di fare Porcile. Naturalmente con 
Scola non ho mai più lavorato! Vedi, è per questo che talvolta noi siamo costretti a dire di sì per forza. 

Quindi dovete dedicare alla moviola molte ore della vostra giornata?

Lo sai come ho fatto io per montare La notte brava di Bolognini? Fino ad allora i suoi film glieli aveva montati tutti Roberto Cinquini. L a notte brava era il primo film che montavo per Bolognini. C’erano dei problemi di finanziamento per l’edizione e, per preparare una proiezione destinata ai finanziatori, sono rimasto in moviola quattro giorni e quattro notti di seguito. Di tanto in tanto dormivo un’ora sul divano. Mi lavavo appena.

In queste situazioni di lavoro molto drammatiche, cos’è che aiuta un montatore?

Senza dubbio l’istinto. Certi montatori ce l’hanno, altri no. E’ l’istinto che ti fa capire cosa mettere dentro e cosa tirare fuori. Tu ci puoi stare pure una vita su una sequenza e magari non ti viene fuori. Oppure puoi capire subito come montarla.

Ma quando ti capita di fare più film contemporaneamente, come si adatta il tuo istinto alle diverse situazioni narrative di fronte alle quali ti trovi? Come fai a montare, per esempio, un film di guerra al mattino ed una commedia sentimentale al pomeriggio?

Nel cervello noi abbiamo come dei reparti a paratie stagne. Capisci.

A chiusura tanto ermetica da evitare ogni infiltrazione

Siamo proprio come i sommergibili che chiudono le paratie stagne quando si immergono.

Devono chiudere tutto altrimenti affondano. Noi abbiamo le paratie stagne nel cervello, da questa parte c’è il tale film, da quella ce ne è un altro.

Ma non le capita mai di cercare un ‘inquadratura per il tale film, che magari stava in un altro. Cioè non le capitano mai momenti di confusione?

Se capitassero vorrebbe dire che saremmo proprio matti.

Per fare questo mestiere occorre una memoria straordinaria.

La cosa importante è il rispetto che uno ha per il film e per il proprio lavoro. Se tu entri veramente in un film, non puoi confonderti. Capita solo se sei distratto.

Voi montatori avete creato una associazione di categoria. Quale è il vostro scopo?

Io vorrei insistere sull’importanza della nuova immagine del montatore. Noi abbiamo creato la Associazione Montatori Cinematografici per far conoscere la figura ed il lavoro del montatore, che è conosciuto solo dagli addetti ai lavori e talvolta neanche da quelli.

Quando è nata la vostra associazione?

Tre o Quattro anni fa. Ci siamo riuniti soprattutto per far conoscere il nostro lavoro. Quello che stai facendo tu adesso è molto importante. Mio zio Eraldo, il grande Serandrei ed i bravissimi montatori del passato sono scomparsi senza che nessuno si preoccupasse di raccogliere e di studiare il loro patrimonio di esperienza. I discorsi che si fanno sul montaggio si fermano a Griffith ed Ejzenstejn.

Avete già ottenuto risultati concreti con la vostra associazione.

Si, siamo riusciti ad entrare in certe manifestazioni, ad accedere ai Premi David di Donatello.

Come avete fatto ad ottenere un Premio David di Donatello per i montatori?

Abbiamo parlato con Gian Luigi Rondi, che si è dimostrato un uomo di grande sensibilità. Adesso stiamo lottando che anche i Nastri d’Argento diano un premio al montaggio.

Qual’è l’atteggiamento dei produttori di fronte alla nascita della vostra associazione?

Forse qualcuno di loro teme che noi vogliamo fare fronte unico contro i produttori, ma si sbaglia. Il montatore lavora sempre e solo per il bene del film.

Talvolta capita al montatore di dover fare da mediatore tra le aspirazioni del regista e le esigenze del produttore.

Si, talvolta capita di trovarsi tra due fuochi, perchè i registi ti chiedono una cosa e i produttori esattamente il contrario. Bisogna saper comprendere anche le ragioni dei produttori. Talvolta il produttore viene da noi a raccomandarsi: “Quella tal scena ci darà problemi con la censura, forse bisognerebbe tagliarla!”

E se il regista ci tiene particolarmente a quella scena?

Devi trovare il modo di accontentare l’uno e l’altro, per il bene del film soprattutto. Sono cose che capitano spesso. Ricordo un episodio che mi capitò mentre montavo Tutti a casa per Luigi Comencini. Ad un certo punto il produttore, che era Dino De Laurentis, lo aveva quasi convinto a tagliare una scena molto bella che Comencini aveva genialmente inventato durante le riprese: era la scena di loro che si arrampicano sul campanile. L’unico ad insistere per tenere quella scena fui io. Avevamo una proiezione di prova a Firenze e convinsi Dino a tenerla almeno per la pre-screening. Il pubblico la applaudì a scena aperta e non venne più tolta.

Ruggero Mastroianni mi ha raccontato di una curiosa tecnica che Serandrei usava per attaccare la pellicola, quando ancora non c’era la pressa Catozzo e le giunte si facevano ad acetone. Per fare una prima e veloce imbastitura, Serandrei tagliava la pellicola e, invece di grattare e attaccare con l’acetone,, ci sputava sopra e sovrapponeva il lembo di una inquadratura all’altra. Con la saliva la gelatina dell’emulsione delle due inquadrature si incollava, anche se solo debolmente. Poi il suo assistente faceva la giunta vera e propria. Che lei sappia c’erano altri che usavano questa tecnica?

Io non sputerei mai sulla pellicola, perchè mi da anche da mangiare… Non ho mai visto fare così. Posso solo dire che mio zio Eraldo non sputava sulla pellicola.

Serandrei era il numero uno dei montatori italiani del dopoguerra. Eppure i suoi colleghi non conoscevano le tecniche che egli usava: tra voi montatori non deve esserci una grande circolazione di informazioni.

Ogni montatore ha la sua tecnica. Io lavoro molto alla moviola. Ci sono quelli che in moviola fanno solo i segni sulla pellicola, lasciano fare le giunte agli assistenti e controllano il risultato finale in sala di proiezione proiezione. Io invece resto in moviola finche tutta la sequenza non è passata dal piatto di sinistra a quello di destra, in maniera soddisfacente. Io parto dal principio che il film è nato muto e debba essere comprensibile anche senza suoni e parole.

Vuol dire che lei monta senza il suono.

No, monto suono ed immagine contemporaneamente, ma quando è finita una sequenza, la rimetto in testa e la rivedo senza sonoro: deve funzionare anche muta. Altrimenti vuol dire che il lavoro non è perfetto.

Non le capita mai di fare il lavoro solo sulla scena?

Solo qualche volta. Ma non sempre si può fare così: se non sei padrone della lingua, devi montare con il suono. Per esempio, il primo film che ho montato, Dark road, era parlato tutto in inglese. E, in casi del genere, il suono devi montartelo da solo.

Fu molto complicato montare Dark road?

Complicatissimo. Inoltre era fatto con il sistema americano: il regista girava e poi se ne andava. Il produttore aveva il final cut, cioè poteva dire l’ultima parola sul montato. Io nemmeno lo sapevo.

Vuol dire che il regista non veniva in moviola?

Mai. Questa è una pratica tipicamente americana. Gli americani hanno tre fasi di montaggio. Il primo taglio lo fa il montatore. Il secondo taglio lo discutono insieme regista e montatore, ma non si fa in moviola perchè i registi non vanno mai in moviola: lo fanno in proiezione, prendendo delle note e usando dei proiettori con la marcia indietro. Infine c’è l’ultimo taglio, il final cut, che è riservato al produttore, il quale può imporre sempre la propria volontà. Naturalmente quando il regista si chiama Coppola o Sorsese o Spilberg la faccenda cambia.

In Italia questo sistema del final cut non ha mai preso piede?

No, è una cosa tipicamente americana. Io ho conosciuto diversi montatori americani, come Peter Zinner, quello che ha montato il Padrino. Effettivamente gli americani hanno un sistema tutto diverso. Spesso tengono anche una piccola moviola nel teatro di posa. Per Lady Hawke, per esempio, ho visto che ne tenevano una nel teatro n.5 di Cinecittà, dove giravano. La usavano per controllare certi effetti, certe angolazioni della macchina.

La cultura cinematografica americana tiene in maggior conto il ruolo del montatore?
Nella cultura cinematografica americana il montatore è una figura assolutamente centrale: è l’uomo più importante. Comincia a lavorare al film sin dall’inizio delle riprese. Sta da solo in moviola e agisce con la massima autonomia. Gli americani sanno bene che il film nasce proprio lì, nel buio della moviola.

Tratto da “Nel buio della Moviola” di Stefano Masi edito da LANTERNA MAGICA COOPERATIVA CINEMATOGRAFICA – L’AQUILA

Fonte:
http://www.amc-associazione.it/wp/?page_id=52

http://www.iltuoforum.net/forum/il-libro-ritrovato-f44/pier-paolo-pasolini-1922-1975-t2801.html


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Curatore, Bruno Esposito

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martedì 28 maggio 2013

Pasolini e Saviano - Pasolini, teatri di narrazione, Saviano: passaggi di testimone

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini, teatri di narrazione, Saviano: passaggi di testimone
Gerardo Guccini


1-Una voce che parla ancora

Se anche non avesse scritto il Manifesto per un nuovo teatro e alcuni fra i drammi più rappresentati e significativi del secondo Novecento, Pier Paolo Pasolini sarebbe comunque presente nelle opere e nella cultura dell'innovazione teatrale. Le ragioni del suo radicamento risaltano con particolare evidenza dalla sofferta iniziazione alla testimonianza che Roberto Saviano descrive nel penultimo capitolo di Gomorra, spiegando la scelta che lo ha portato a scrivere il libro.
Il brano fa comprendere perché la voce di Pasolini continui a parlare nitida ed esigente agli scrittori, agli intellettuali e ai teatranti che trasmettono conoscenze del reale acquisite per via d'esperienza, e consegnano quindi ai propri lettori o spettatori opere/sonda che li introducono all'esplorazione delle cose e di se stessi in quanto membri consapevoli della collettività umana.
La parola di Pasolini restituisce chi la pronuncia, vale a dire l'identità dell'autore, che, rapportandosi da persona a persona con gli interlocutori venuti dopo, si rigenera attraverso dialoghi interiori fatti di concordanze, di rispecchiamenti, di pensieri completati o intuiti nel passaggio dall'una all'altra mente. Il rituale riportato dalle pagine di Gomorra mostra una faccia di questo rapporto. Qui, la voce dell'interlocutore presente e quella dell'interlocutore assente si sovrappongono dicendo parole, che non solo procedono le une dalle altre e sono in parte uguali, ma attestano la stessa tensione etica, la stessa volontà di intervenire e non permettere che le cose, una volta conosciute, restino uguali a prima. Saviano dunque si immedesima nelle idee di Pasolini, o meglio nel loro procedere da un'esistenza che ne viene a sua volta segnata. Quest'iniziazione alla testimonianza, pur non facendo menzione al teatro pasoliniano, ne realizza l'essenza di «rito culturale». A Casarsa, ripetendo di fronte alle tombe di Pasolini e della madre il celebre articolo di denuncia civile apparso sul «Corriera della Sera» il 14 novembre 1974 («Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe…»), Saviano avverte nelle idee dell'autore intrecci di parole ed esistenza, che trasformano in interlocutore chi sente d'esserne il destinatario e dialoga con loro.

2-L'io narrante di "Gomorra"

Gomorra compenetra le forme del romanzo e quelle dell'inchiesta secondo tecniche di composizione che passano al lettore conoscenze del reale, evitando, però, svolgimenti lineari e pienamente esplicati. In altri termini, Saviano innesta la vocazione originaria della scrittura, che lancia nella realtà la forza delle parole, ad una personalità assolutamente contemporanea, abituata, cioè, a pensare per immagini, a congetturare attraverso montaggi, a recepire per frammenti, a considerare la discontinuità, l'assenza, l'interruzione delle presenza e l'omissione del senso, qualità proprie alle fenomenologie dell'esistente.
L'unità che Saviano infrange per trovare una forma duttile e trasformabile, che veicoli le strutture, la storia, i singoli profili e il mondo psichico del «sistema» camorristico, è proprio quella dell'io narrante.
Scelta in qualche modo obbligata. Narrando un'antropologia vissuta, Saviano non sceglie infatti, a differenza dell'antropologo o del reporter, determinate realtà da avvicinare, indagare e descrivere, ma decide di affrontare e conoscere attraverso le sue molteplici articolazioni la realtà in cui si trova di già immerso. La sua denuncia d'una economia fondata sull'orrore, che non solo viola le disposizioni del vivere civile, ma, quel che è peggio, tende a sostituirle, si intreccia a imbarazzanti dichiarazioni di vicinanza. Parte di una società segnata dalla connivenza e dall'omertà, l'autore non si dichiara immune dai mali che indaga e che, proprio perciò, può testimoniare al lettore. Questa posizione di osservatore incardinato all'argomento, di antropologo iscritto nella comunità indagata, colloca a monte di Gomorra e, invisibile a lato delle sue narrazioni, un fluido 'romanzo di formazione' dove si svolgono transizioni fra letteratura e realtà, scoperte, assunzioni di responsabilità, incontri, indagini documentarie e inchieste accanite, elementi tutti che Saviano, con scrupoloso senso della forma, rifiuta di narrare distesamente per non fare di se stesso un protagonista contrapposto al mondo antropologico del «sistema». Vale a dire, l'eroe del romanzo. Piuttosto, la sua preoccupazione è quella di spiegare la propria posizione rispetto agli eventi narrati, mostrando dove e come li vede, e dichiarando l'impatto emozionale ed etico di tali osservazioni. Gli undici capitoli di Gomorra esplorano ognuno una diversa diramazione del "sistema" camorristico. Collocandosi all'interno dei traffici con la Cina e l'alta moda, della sociologia del mondo criminale o dello smaltimento dei rifiuti, l'io narrante si presenta, di volta in volta, come infiltrato in veste di manovale, come reporter senza testate di riferimento, come parente di affiliati; lo vediamo trasportare casse inseguendo i rapporti fra criminalità e industria, mettere il registratore su tavole di pizzeria dove mangiano giovani affiliati, giungere in moto sui luoghi del delitto. Nessuno di questi accenni si sviluppa però in una narrazione sulle attività giornalistiche, sulla rete degli informatori (che non era d'altronde possibile indicare), sui mestieri svolti, sicché l'io narrante risulta talmente poco descritto e connotato in senso diegetico da poter essere, nota Wu Ming 1, addirittura sostituito:

l'io narrante di Gomorra è l'autore, ma non soltanto e non sempre. L'autore […] ha esercitato la libertà di "dare dell'io a qualcun altro", di collocarsi dietro gli occhi di diversi "io" che raccontano storie di camorra. Non "io è un altro" ("je est un autre", come scrisse Rimbaud), bensì "anche un altro è io" ("un autre aussi est je"). L'io che racconta dell'economia cinese in Campania non è lo stesso che racconta delle pecore spaccate a metà dai colpi di prova del "tubo" (il fucile fai-da-te usato dal "Sistema"), e così via. È sempre "Roberto Saviano" a raccontare, ma "Roberto Saviano" è una sintesi, flusso immaginativo che rimbalza da un cervello all'altro […][1].

Gomorra connette queste espressionistiche peripezie dello sguardo a serrati racconti cronologicamente ordinati, che documentano le saghe delle famiglie camorristiche, l'evolversi dei sistemi economici e i rapporti con le istituzioni. Quando, però, l'io narrante riferisce quello che ha visto e di cui è stato personalmente testimone, le sue relazioni, proprio perché l'io non è sempre lo stesso, individuano eventi che non è possibile disporre all'interno d'un tempo unitario. Da un capo all'altro del libro, quello che viene descritto in un capitolo potrebbe essere avvenuto, in molti casi, prima o dopo o contemporaneamente a quello che viene descritto nel capitolo successivo. I due criteri della conseguenzialità temporale – e cioè la continuità biografica dell'io narrante e quella diegetica della vicenda – saltano infatti entrambi a fronte di un'antropologia vissuta che non si struttura per episodi, ma per argomenti. Svolgendoli, Saviano alterna dimensioni temporali di ampiezza storica e vertiginose focalizzazioni, cogliendo, ad esempio, l'attimo in cui una pallottola vagante distrugge i pensieri e le percezioni d'una bellissima quattordicenne che ha la sventura di trovarsi, per strada, nelle ore del passeggio, nelle vicinanze d'un attentato.

3-Ritorno a Pasolini

Vi è però un momento in cui l'io narrante racconta l'episodio da cui procede Gomorra, segnando un nitido post quem oltre il quale il lettore viene invitato a collocare la stesura del libro e l'impegno dello scrittore a misurarsi con la realtà attraverso la parola. Ed è qui – in questo snodo nevralgico – che incontriamo il nome di Pasolini. Ricordandolo e quasi sovrapponendosi a lui, Saviano occupa il centro della scena senza per questo fare di sé un protagonista delle vicende narrate. Il ritorno a Pasolini, alle sue parole e al suo esempio, non s'inquadra infatti in una successione di fatti biografici. E cioè, non descrive la storia personale dell'io narrante, ma l'impulso da cui nasce del libro.
Parlando di Casarsa e Pasolini, Saviano racconta la scelta di vivere la letteratura facendone uno strumento d'azione civile. L'episodio cade, verso la metà del libro, nel capitolo Cemento armato, che affronta la speculazione edilizia, il monopolio dei Casalesi, le morti sul lavoro. Saviano ricorda, qui, la fine di Francesco Iacomino: quando questi cade dall'impalcatura tutti si allontanano; chi resta non lo soccorre, ma lo trascina a morire lontano per evitare che l'inchiesta risalga al cantiere. Questa penetrazione del male nelle tenere fibre dei rapporti quotidiani, scuote l'io narrante, che parla di sé al lettore:

la morte di Iacomino mi innestò una rabbia di quelle che assomigliano più a un attacco d'asma piuttosto che a una smania nervosa. Avrei voluto fare come il protagonista de La vita agra di Luciano Bianciardi che arriva a Milano con la volontà di far saltare il Pirellone per vendicare i quarantotto minatori di Ribolla, massacrati da un'esplosione in miniera, nel maggio 1954, nel pozzo Camorra[2].

A questo punto interviene il ricordo di Pasolini:

appena entrai nella crisi asmatica di rabbia mi rimbombò nelle orecchio l'Io so di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva fino all'assillo[3].

Lo scritto a cui si fa riferimento è il famoso articolo apparso sul «Corriere della Sera» del 14 novembre 1974 («Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe...»)[4].

Erano gli anni di piombo in cui le cosiddette "stragi di stato" trascinavano la storia del paese in spirali di sanguinosa violenza. Pasolini reagì alle mancate individuazioni dei responsabili, che impedivano alla memoria collettiva di elaborare il lutto, concependo lo straordinario gesto d'una testimonianza senza dati, senza nomi, senza contenuti specifici; d'una testimonianza, insomma, che introduceva nel dibattito pubblico la sua figura del testimone. La posta in gioco era altissima. Il fatto che i responsabili d'una fase oscura della storia civile potessero venire riconosciuti, pensati e testimoniati, non bastava certamente a fare giustizia, ma forniva comunque l'esempio d'un atteggiamento di consapevolezza e attesa, che non rinunciava né al diritto a conoscere né alla speranza nella giustizia.
Pasolini indicava ad una opinione pubblica frastornata e divisa che manifestare il senso degli eventi è un atto necessario e storicamente efficace.

4-L' "io" testimoniale da Pasolini a Saviano

A Casarsa, Saviano, con ancora in testa il martellante Io so pasoliniano, dispone le potenzialità della propria scrittura in un'analoga prospettiva d'intervento:

Andai sulla tomba di Pasolini non per un omaggio, neanche per una celebrazione. […] mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse ancora possibile riflettere senza vergogna sulle possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se […] era ancora possibile inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, l'affermazione dei poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura[5].

Pasolini, quindi, come antidoto allo svuotamento postmoderno della parola (della quale gli autori hanno imparato a vergognarsi), come ricerca d'una scrittura che trasmetta la sostanza del reale, come esempio d'un ripristinato equilibrio fra la forza conoscitiva della mente e quella della violenza. La visita a Casarsa si risolve con un passaggio di testimone:

Mi sembrò d'essere meno solo, e lì iniziai a biascicare la mia rabbia, con i pugni stretti sino a far entrare le unghie nella carne del palmo. Iniziai ad articolare il mio io so, l'io so del mio tempo[6].

È la genesi mitica di Gomorra. L'io so di Saviano, che integra la testimonianza pasoliniana con l'essenziale elemento delle «prove». Mentre Pasolini, non avendo prove, dice di sapere nomi che non pronuncia, Saviano «h[a] le prove» e fa i nomi. L'io so del primo si diffonde per contagio e trova rifugio nelle coscienze individuali. Quello del secondo s'intreccia a procedimenti giudiziari che sviluppano le vicende narrate al di là del libro:

Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e prendono l'odore. L'odore dell'affermazione e della vittoria. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove [7].

Il «rito civile» di Casarsa traduce in termini mitopoietici un evento reale. Nel 2005, «Nuovi argomenti», la rivista che fu di Pasolini, aveva deciso di ricordare il trentennale della morte dello scrittore, pubblicando una sezione di giovani autori chiamata Io so. Rispondendo alla richiesta, Roberto Saviano, Helena Janeczeck, Alessandro Leogrande, Marco di Porto, Osvaldo Capraro e Babsi Jones affrontano sette diversi problemi con piglio «corsaro»: la criminalità organizzata e l'uso dei minori, i nuovi avventurieri dell'economia italiana, il multiculturalismo ai tempi del terrorismo, l'antisemitismo di sinistra, la pedofilia nella Chiesa, lo stragismo vent'anni dopo, la percezione della guerra nei Balcani.
Solo Saviano include il titolo del dossier in quello del proprio contributo (Io so e ho le prove), che riprende lo schema del testo pasoliniano. Scrive Saviano nel 2005: Io so e ho le prove.
Io so come hanno origine le economie e dove prendono l'odore. L'odore dell'affermazione e della vittoria.
Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente.

Io so e ho le prove[8].

Questo inizio, come s'è visto, verrà poi incluso all'interno del capitolo Cemento armato dove vengono trattati gli stessi contenuti del testo scritto per «Nuovi Argomenti». Anche qui come in Gomorra si parla infatti di speculazione edilizia, del monopolio dei casalesi, del lavoro nero e delle sue stragi. Immediatamente, seguono i nomi: Io so ed ho le prove. E le prove hanno un nome. Sono Ciro Leonardo morto a 17 anni mentre stava riparando un solaio cascando dal settimo piano. Le prove si chiamano Francesco Iacomino, aveva 33 anni quando l'hanno trovato con la tuta da lavoro sul selciato all'incrocio tra via Quattro Orologi e via Gabriele D'Annunzio ad Ercolano[9].
L'ordito narrativo di Gomorra e la concatenazione di fatti reali che si conclude con l'articolo Io so e ho le prove dispongono in senso contrario gli stessi elementi. Il primo fa discendere dallo sdegno per le morti sul lavoro il viaggio a Casarsa e il ritorno a Pasolini. La seconda, invece, parte dal trentennale della morte di Pasolini per risolversi in uno scritto che affronta anche le morti sul lavoro. Alla luce del confronto testuale con l'articolo, il «rito civile» di Casarsa sembrerebbe ispirarsi a un incontro di voci e intenzioni effettivamente avvenuto, non di fronte alla tomba dello scrittore, bensì, con tutt'altre modalità, sulle pagine di «Nuovi Argomenti». Ascendenza che renderebbe l'episodio al contempo falso e più vero d'un fatto reale. Proiettato in un luogo emblematico della narrazione di Gomorra, l'Io so di Saviano sembra infatti esprimere, all'interno di queste concatenazioni intrecciate, il rapporto dell'autore con la scrittura di Pasolini. Le cose, però, sono più complesse di così.




5-Ossa sotto la carne

Nel 2006, fresco vincitore della 77esima edizione del Premio Viareggio Repaci con il libro-rivelazione Gomorra, Roberto Saviano viene intervistato per «Il mattino» da Maria Vittoria Messori, che, mostrando di essersi preparata all'incontro, gli chiede del viaggio a Casarsa. Saviano conferma:

Quando sono andato a Casarsa, sulla tomba di Pasolini, ero particolarmente arrabbiato. I pugni serrati non si volevano aprire nemmeno per scrivere. Sono andato lì in una sorta di empatia, per capire se era ancora possibile credere in una parola capace di aggredire la realtà. Ci ho riflettuto a lungo e mi sono convinto che la parola letteraria proprio perché svincolata da obiettivi, da sentenze di tribunale, può mostrare le budella del potere, può raggiungere un nucleo di significato molto semplice, che è poi quello dei tragici greci: verità e potere non coincidono mai[10].

L'intervistatrice, a questo punto, riconduce l'autore all'esito dell'episodio romanzesco: «È da lì, dalla tomba di Pasolini che hai iniziato ad articolare "Io so"». Risponde Saviano:

L' "Io so" del mio tempo: so e ho le prove. In questo libro non mi interessava mostrare un mondo altro di violenti e di crudeli diviso dal nostro, non mi interessava dare una lezione di morale. Ho voluto sussurrare all'orecchio del lettore "questo ti riguarda"[11].

Chiedersi se il «rito civile» di Casarsa venga dal dossier di «Nuovi Argomenti» o dal vissuto dell'autore, oppure se l'episodio reale stia a monte dell'articolo o del romanzo, non porta a conoscenze sostanziali. Quando i letterati e i teatranti prendono posizione nei riguardi del reale si trovano, infatti, nella condizione di dover coniugare l'autenticità dei dati con narrazioni la cui verità non dipende dalle corrispondenze con quanto è effettivamente accaduto, ma dal loro trasparire sul senso dei fatti reali. E cioè dalla loro capacità di mostrare, come suggerisce Celestini con efficace immagine, le ossa sotto la carne[12].

6-Il "dramma sociale" dei nostri anni

All'epoca di Pasolini, Sciascia, e dopo Pasolini, i narratori teatrali degli anni Novanta e, poi, gli scrittori che mescolano romanzo e inchiesta, fiction e non-fiction[13], come Lucarelli, Saviano, Genna, De Cataldo o Carlotto, hanno diversamente reagito al perdurare d'una Storia dove niente sembra risolversi e concludersi eppure tutto muta sotto la spinta di forze ostili all'organizzazione etica del reale. Le loro opere, pur non essendo «aperte», trattano infatti fratture non ricomposte, verità non appurate, contrapposizioni non appianate, traumi non risolti. In altri termini, i narratori compensano con comunicazioni di realtà e gesti di testimonianza l'accadere di «drammi sociali» incompiuti, spesso privi di protagonisti esplicitati e non suggellati da una conclusione.
La forma tipica del «dramma sociale», secondo la classica descrizione dell'antropologo Richard Turner, riproduce nella realtà le fasi della narrazione, presentando infrazioni delle regole, situazioni di crisi crescente, meccanismi di compensazione e reintegrazioni dei gruppi sociali turbati oppure esodi che sanciscono l'irrimediabilità della frattura[14]. Diversamente, il «dramma sociale» odierno si arena nell'infinito interagire fra la seconda e la terza fase, improntando dinamiche mnemoniche che non sedimentano all'interno della collettività cicli conclusi – modalità esemplificata dal crollo del muro di Berlino: "fine" del «secolo breve» – ma riflettono, in modo fazioso e partecipe oppure critico e dialettico, il riacutizzarsi di conflittualità permanenti che trasmettono continui impulsi a schierarsi, a scegliere contesti di appartenenza e fattori di riconoscimento.
La realtà, dunque, non produce oggi «drammi sociali» che strutturino la memoria della collettività. Piuttosto, manifesta con vicende sospese alle fasi del conflitto e della compensazione le faglie tettoniche su cui poggia (sconnessioni fra legalità e illegalità, ideologie laiciste e religiose, manifesto e occulto). Le differenti postazioni storiche dalle quali le hanno osservate, dapprima Pasolini, e poi, a partire dagli anni Novanta, gli esponenti della nuova narrativa italiana, fanno meglio comprendere l'attuale profilo di maestro e anticipatore dello scrittore/cineasta. Mentre Pasolini immagina il futuro a partire dalla sparizione delle culture popolari e dalla crisi di rappresentatività del sistema politico, i nuovi narratori si confrontano con una fase successiva e tipicamente italiana, che, nata dal dissolvimento dei vecchi partiti, si risolve anch'essa, a somiglianza della prima, in contraddittorietà permanenti e refrattarie alla sintesi.
Pasolini, indagando fra gli anni Cinquanta e Settanta i prodromi della fine, ha dunque individuato mentalità e strategie di potere, che, nel tempo, si sono ulteriormente affermate fino a costituire il mondo reale dei nuovi narratori e nostro. Le condizioni che hanno accompagnato la fine d'una fase storica coincidono con le potenzialità espansive di quella successiva.

7-L'esempio di "Ultimo volo"

In Italia, «paese delle mezze verità», si sente che qualcosa sta per finire mentre «non finisce mai niente»[15]. Sicché appare emblematico che il compositore Pippo Pollina concluda con un movimento in levare il trascinante bolero al termine del suo Ultimo volo. Orazione civile per Ustica. Le parole del testo (scritto dallo stesso Pollina), quanto più invocano la ricomposizione d'un atto di giustizia, tanto più dichiarano l'insolvenza narrativa dei fatti. La risoluzione della vicenda viene infatti delegata all'inevitabile morte.
Anche il narratore de Le mille e una notte conclude le storie riferendosi, con formula ricorrente, «a quella che distrugge l'edificio dei piaceri e disperde le riunioni». Per lui, però, evocarla significa toccare il limite d'ogni possibile continuazione d'una storia già conclusa con nozze, premi o punizioni. Per Pollina, invece, la morte dei responsabili non si situa al di là della storia, ma, in assenza di colpevoli riconosciuti e puniti, costituisce la sua sola possibilità di finire: E mi sembra di vederle le iene nella stanza dei bottoni con uniformi di cartapesta a decidere i vivi e i buoni travaccati in poltrone di pelle, che non si rischia niente son l'arroganza del potere e l'indifferenza di certa gente.
Eppure la storia va avanti non conosce padroni, anche a quelli che muovono i fili un giorno tremeranno le mani, perché esiste un passaggio comune, un comune destino che fa più vita la vita e non fa sconti per nessuno[16]
Il paradosso dell'età contemporanea è che, in essa, niente sembra esaurirsi e terminare al punto di poter risorgere (o «espatriare» come diceva Luckács) nelle forme tradizionali del romanzo, dove il lettore cerca appunto uomini in cui leggere il "senso della vita". E deve quindi, in un modo o nell'altro, essere certo in anticipo di assistere alla loro morte. Almeno in senso traslato: alla fine del romanzo. Ma meglio ancora se alla morte vera[17].
Le drammaturgie narrative hanno dunque appreso a dialogare con le dinamiche aperte della Storia e il continuo perdurare dei «drammi sociali», eleggendo la realtà quale contesto del proprio rapporto con il reale.

8-La narrazione e il reale

La rinascita del racconto, la rivalutazione della parola, la responsabilità del relatore nei riguardi delle cose significate e la conservazione del reale nell'opera composta [18], contrastano le derive d'una civiltà che ha smesso di raccontarsi, che ha cancellato gli spazi del confronto collettivo, che vede il prevalere delle immagini sui segni verbali, che coltiva comportamenti alienati e induce linguaggi autoreferenziali. Per questo, tanto in Pasolini, che nei narratori scenici e in Saviano, le dinamiche narrative coesistono con la loro messa in crisi, che viene evidenziata oppure trattenuta a seconda che prevalga l'assunzione delle dinamiche stesse del reale (irrisolte, frattali, sospese) oppure la loro compensazione rituale, per cui, come nel Vajont di Marco Paolini, la costruzione del racconto e i suoi effetti sullo spettatore risarciscono emozionalmente la mancata soluzione dei conflitti. È lo stesso sentire che presiede alla «trilogia della vita» di Pasolini (Decameron; I racconti di Canterbury; Il Fiore delle Mille e una notte). Mai i racconti scaturiti dalla dialettica fra il reale e l'identità del narratore sono così immediati e popolari, come quando celebrano – fra ricordo, festa ed elaborazione del lutto – l'assenza del mondo narrato. Dice Pasolini discutendo con Sergio Arecco:

nel "Decameron" che sto finendo il narrare è ontologico: si narra per il gusto di narrare o si rappresenta per il gusto di rappresentare. Cosa si narra o si rappresenta? Qualcosa che non c'è più: uomini, sentimenti, cose. Non c'è, dico, storicamente; esistenzialmente sopravvive (il popolo di Napoli)[19].

Il riferimento a uomini, sentimenti e cose che non ci sono più, in parte, richiama la condizione fondamentale del racconto, che «si autoproduce […] sulla soglia di quella fine che attira e genera la narrazione stessa»[20], in parte, segnala un'emergenza operativa senza precedenti nell'opera dell'autore. Pasolini, narratore di antropologie contrapposte come lo sono quella popolare e quella borghese, aveva infatti prevalentemente trattato tipologie umane presenti e vive. Negli anni Settanta, però, a seguito della massificazione culturale del decennio precedente, deve fare i conti con l'omologazione degli strati sociali, con gli effetti della televisione, con la sparizione delle diversità e la crisi dei linguaggi.
Per lui, trarre dal passato, non tanto miti da innestare dialetticamente alla comprensione del presente (come aveva fatto con Edipo o Medea), ma gli immediati precursori di quello stesso popolo che vedeva ormai limitarsi alla pura e semplice 'sopravvivenza' significava, sì, aderire all'ontologia del narrare, ma compiendo un atto ideologico implicito e tutt'altro che scontato. Nel suo programma d'intervento, la morte storica delle vite narrate, e cioè la loro appartenenza al passato, evidenziava infatti la frattura fra i «valori» alla base della nostra civiltà e la società uscita dalla «rivoluzione» tecnologica degli anni Sessanta. In sintesi, Pasolini attribuiva alla risoluzione filmica del passato il compito di «contestare» al presente:

Non ho scelto i personaggi del Decameron per caso ma per offrire esempi di realtà. Un personaggio del Decameron è esattamente il contrario di un personaggio che si vede nei programmi televisivi o nei cd. [cosiddetti] film consolatori. […] Adesso, preferisco muovermi nel passato proprio perché ritengo che l'unica forza contestatrice del presente sia proprio il passato: è una forma aberrante ma tutti i valori che sono stati i valori nei quali ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono mettere in crisi il presente. E allora amo questa ricostruzione del passato, di psicologie che, al presente, non sono più reali, perché i personaggi del Decameron esistono ancora, ma sono rari, sopravvissuti[21].

Vi sono narrazioni che rigenerano vicende accadute modellandosi sulle forme tipiche del «dramma sociale» i cui paradigmi esistenziali, dice Turner, infiltrano «gli atteggiamenti vitali irriducibili degli individui»[22]. Accanto a questa tipologia, vi sono però narrazioni che guardano in faccia la realtà e trattano accadimenti in atto e conflittualità irrisolte, coniugando la vitalità dei personaggi a un disegno ideologico che, come vediamo in Uccellacci e uccellini, muta l'opera, da oggetto di fruizioni solamente o principalmente edonistiche, in organismo dialettico.

9-La realtà e il nuovo teatro di narrazione

Si tratta d'una distinzione fertile di indicazioni. Applicata al 'teatro di narrazione' distingue gli spettacoli fondati su eventi trascorsi – come Kohlhaas (1990) di Marco Baliani, Il racconto del Vajont (1994) di Paolini e Radio Clandestina (2001) di Ascanio Celestini – da una zona più sperimentale e, nel complesso, recente che dissolve l'involucro narrativo preferendo interagire dal vivo con l'immaginario e le coordinate di realtà dello spettatore.
Con Corpo di stato (1998) Marco Baliani rinuncia al progetto di narrare il rapimento Moro in base agli atti processuali, e spiega sul filo dell'autobiografia le reazioni dell'estrema sinistra a quegli avvenimenti. Così, lo spettacolo, testimonia attraverso il narratore una cultura e una forma mentis oggi censurate e che, pure, continuano a indirizzare scelte ideali e orientamenti etici.
Miserabili. Io e Margareth Thatcher (2006) di Marco Paolini affronta nei modi di un work in progress ragionato ad alta voce le metamorfosi della società italiana a partire dagli anni Ottanta. Fra un intervento musicale e l'altro, vengono toccati macro-eventi (la liberalizzazione economica della Thatcher, quella reaganiana, il ritorno di Komeini in Iran) e micro-personaggi. Pasoliniana, la definizione che Paolini dà di questo lavoro: «Miserabili è anche uno spettacolo di pensiero».
Appunti per un film sulla lotta di classe (2006) nasce da interviste fatte da Ascanio Celestini ai lavoratori precari di un call center alla periferia di Roma, ma è anche ciò che dice il titolo: un insieme di appunti per una storia sulla lotta di classe oggi. Non c'è lieto fine, anzi, non c'è proprio una fine. Le lotte sindacali possono poco o nulla, e le richieste di miglioramenti vengono svuotate dal timore di perdere il posto di lavoro. Anche qui, come in Miserabili, gli interventi musicali strutturano la distribuzione dei segmenti narrativi, che può cambiare di sera in sera. A cantare, con voce penetrante e modulata dagli intenti, è lo stesso Celestini. Il primo pezzo tocca una problematica centrale della Storia e, transitivamente, della narrazione. I «disgraziati», quelli che hanno perso il lavoro, la casa oppure la ragione, si riuniscono e incominciano «ad aggirarsi/ come si aggirò quel famoso/ spettro per l'Europa». Il riferimento al celebre incipit del Manifesto di Carl Marx («Uno spettro si aggira per l'Europa») evidenza la differenza fra le masse proletarie dell'Ottocento e del Novecento e la folla dei «disgraziati», che, a differenza delle prime, sa di non avere obiettivi predestinati e di non rivestire alcun ruolo simbolico. Tant'è che proprio l'atto della rivoluzione, che struttura le rivolte in forma di «dramma sociale», affiora al suo interno come proposta insensata e raptus bizzoso, acida parodia del divenire della Storia attraverso una dialettica di tesi e antitesi incarnate da contrapposte classi sociali.
Ancora più radicale la scelta fatta da Pietro Floridia e Gianluigi Gherzi con La strada di Pacha (2009) dove non c'è nemmeno una narrazione, ma un repertorio di storie assimilate dal relatore scenico – Gianluigi Gherzi – a seguito di ore di colloqui con Pacha, straordinaria operatrice culturale di Managua. Queste costituiscono un orizzonte dell'immaginario, che Gherzi ripercorre e connette con improvvisati passaggi per rispondere alle domande e alle impressioni del pubblico. Sicché lo spettatore è destinatario, non già d'una narrazione su Pacha (e di cui Pacha sarebbe un contenuto), ma della memoria che il relatore ha della Pacha vera, che parla, si racconta, agisce e non è mai personaggio, ma vita riferita, e cioè realtà conservata all'interno dello spettacolo, che, rispettandone l'identità irrimediabilmente esterna alla scena, evita di narrarla o rappresentarla in forma drammatica.
Quando il reale si rivela liquido, soggetto a continue conflittualità e trasformazioni, la nozione di "realismo" cessa di implicare processi imitativi e naturalistiche tranches de vie, per indicare piuttosto una volontà d'intervento sul reale. Quello che viene ora praticato non è, quindi, un realismo di stile bensì di sostanza, che irretisce il presente in svolgimenti discorsivi che, da un lato, ne snidano gli archetipi, le forze e le presenze umane, e, dall'altro, gli contrappongono criteri informati dall'umanità del relatore.

10-Pasolini testimone del proprio tempo

Pasolini, nella storia del rapporto fra il mondo reale e gli artefici di realtà altre, costituisce un modello importante poiché aggancia alle trasformazioni della realtà la funzione testimoniale dell'autore, che, attraverso le opere e gli interventi pubblici, rilancia nel sociale il contraddittorio conflitto fra la propria identità e l'esistente:

Io (nel mio corpo mortale) vivo i problemi della storia ambiguamente. La storia è la storia della lotta di classe: ma mentre io vivo la lotta contro la borghesia (contro me stesso) nel tempo stesso sono consumato dalla borghesia, ed è la borghesia che mi offre i modi e i mezzi della produzione. Questa contraddizione è insanabile: non ammette di essere vissuta altrimenti che come è vissuta. Cioè ambiguamente: e questo produce un elemento di mistero (che si vorrebbe e non si vorrebbe spiegare)[23].

In questa prospettiva, la realtà non ricorre all'interno delle opere solo perché imitata, conservata e trasmessa, ma perché somatizzata da chi ne parla o scrive, e resa, quindi, persona. Il che equipara l'atto di scrivere a quello di narrare dal vivo. Entrambi, infatti, procedono dal corpo dell'autore/emittente risolvendosi, all'altro capo del processo, in percezioni di presenze traboccanti senso.
I riferimenti di Saviano alle crisi di asma, alla rabbia, alle unghie conficcate nella carne non sono pennellate descrittive, ma riguardano la condizione primaria della sua scrittura, che rilancia l'introiezione dei mali umani e sociali con atti comunicativi e di testimonianza. Sullo sfondo di questa affinità elettiva con Pasolini: il viaggio a Casarsa, la ricerca della tomba, il ripetere io so, il passaggio del testimone. Ciò che Salviano raccoglie da Pasolini non è una tecnica artistica, ma la possibilità di riscattarsi dall'inferno che ha scelto di conoscere, facendolo conoscere.
La capacità di comunicare le trasformazioni dell'uomo e della Storia attraverso l'esperienza che se ne è acquisita, e quella di coniugare lo svolgimento discorsivo al corpo del relatore suscitandovi contenuti altrimenti indicibili, trattengono Pier Paolo Pasolini fra i contemporanei, facendone un maestro postumo dei rapporti fra il mondo e l'io.
Stefano Agosti, in un importante approfondimento critico, osserva come il Pasolini poeta rifiuti di dare per inconoscibile il mondo al di là del linguaggio, ma lo cali nel dire, tendendo il discorso fino a fargli superare, in un tragico ritorno alla creaturalità delle cose, i limiti del commento, dell'esercizio logico, dell'astrazione verbale:

se la poesia novecentesca appare tesa allo sforzo di trasformare il "discorso" in "linguaggio", puntando al raggiungimento di una posizione pre-discorsiva, […] nel caso di Pasolini siamo invece di fronte a un'intenzione e un'operazione esattamente inverse. […] Pasolini dà il via a un esperimento che porta tutta la situazione espressiva oltre il discorso, dopo il discorso […]; nel [suo] caso, […] l'operatore, mantenendo intatta l'istanza del discorso ma sovradeterminandola criticamente, sembra accennare alla possibilità di una sua dimensione postuma […][24].

Per comprendere la funzionalità retorica e il potere attrattivo del discorso pasoliniano, conviene considerare che la sua dialettica fra segno e referente non sviluppa forme esclusivamente letterarie, ma anche orali e visive. Il discorrere di Pasolini sull'introiezione del mondo nel vivere del relatore si è storicamente svolto in versi, in forma di racconto, in dialoghi con i lettori, in trattazioni teoriche e manifesti, in articoli, in drammi, in sceneggiature, in film.
In ogni articolazione della sua opera, Pasolini esercita la possibilità di conoscere e di conoscersi, che però affronta, di volta in volta, con obiettivi e strumentazioni corrispondenti al medium utilizzato.

11-La presenza dell'autore nel teatro di narrazione

La poesia e il «teatro di Parola» restituiscono la presenza dell'autore, che, declinando verbalmente le tensioni fra il corpo e l'esistere, espone allo sguardo mentale del lettore un flusso monologante, che, da un lato, prevede dizioni straniate che lo concilino all'ipotesi di emittenti altre (i personaggi e gli attori), mentre, dall'altro, apre impressionanti finestre sulla corporeità pulsante di vita psichica da cui procede.
Il romanzo e il cinema mutuano invece dall'originaria passione per la pittura (Pasolini, non avesse smarrita la tesi, si sarebbe laureato con Roberto Longhi) il fondamentale principio della rappresentatività dell'arte, per cui l'identità dell'autore, pur affiorando continuamente, media le realtà riflesse dal suo sguardo: soggettivo nella misura in cui declina e ricompone l'oggettività delle cose. Il cinema, per Pasolini, è l'arte di «esprimere la realtà con la realtà»[25]. Concezione che anticipa il più tardo innesto di attori sociali o attori non ancora attori alle dinamiche dell'innovazione teatrale, avvicinando i film di Pasolini con attori sottoproletari[26] ai teatri di Armando Punzo, Pippo Delbono e Marco Martinelli.
Gli scritti teorici, liberamente sistematici, indagano i criteri e le strumentazioni logico/formali che conservano le qualità del reale nelle sue trasposizioni in opera, consentendo all'autore di comporre – sulla pagina – una realtà di segni, e – sullo schermo – una realtà di realtà che, pur formalizzate, restano continuamente leggibili e presenti come stratificazioni geologiche in un terreno esploso.
Il discorso pasoliniano prosegue anche in assenza di scrittura e voce, perché sorretto dalla coscienza che i segni sono molteplici e tutto è segno:

In realtà non c'è "significato": perché anche il significato è un segno. […] Sì, questa quercia che ho davanti a me, non è il significato del segno scritto-parlato "quercia": no, questa quercia fisica qui davanti ai miei sensi, è essa stessa un segno: non certo scritto-parlato ma iconico-vivente o come altro si voglia definirlo.

Sicché in sostanza i "segni" delle lingue verbali non fanno altro che tradurre i "segni" delle lingue non verbali […]. La sede dove questa traduzione si svolge è l'interiorità.
Attraverso la traduzione del segno scritto-parlato, il segno non verbale, ossia l'Oggetto della Realtà, si ripresenta, evocato nella sua fisica, nell'immaginazione.
Il non verbale dunque, altro non è che un'altra verbalità: quella del Linguaggio della Realtà.
Che io usi la scrittura o che io usi il cinema altro non faccio che evocare nella sua fisicità, traducendola, la Lingua della Realtà[27].
Pasolini, dunque, 'parla' il reale traducendone la lingua. Sistema che consegna all'attenzione dei teatranti svolgimenti disposti a tradursi in insegnamenti intorno alle esigenze essenziali del teatrale, che, come fa l'opera pasoliniana nel complesso, coniuga presenza, realtà e linguaggio.
Per questo, in prospettiva, è consigliabile ricostruire l'influenza di Pasolini sui teatranti, non solo analizzando le rappresentazioni delle opere drammatiche come ha splendidamente fatto Stefano Casi[28], ma anche seguendo le traiettorie delle differenti articolazioni della sua opera: i pensieri, le narrazioni filmiche e il Manifesto per un nuovo teatro che Baliani suole citare riconoscendo nel brano che qui segue «una bella anticipazione del teatro di narrazione»[29]:

Venite ad assistere alle rappresentazioni del «teatro di parola» con l'idea più di ascoltare che di vedere (restrizione necessaria per comprendere meglio le parole che sentirete, e quindi le idee, che sono i reali personaggi di questo teatro)[30].

Note:
 

[1] Wu Ming 1, recensione di Gomorra apparsa in «Nandropausa», n. 10, 21 giugno 2006, anche in Wu Ming, New italian epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino, Einaudi, 2009, pp. 29-30. Col titolo Wu Ming 1 su Gomorra nel sito http://robertosaviano.it/documenti/8889/125/0
[2] Roberto Saviano, Gomorra. Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Milano, Mondadori, 2008, 1a ed. 2006, p. 232.
[3] Ibidem.
[4] Pier Paolo Pasolini, Che cos'è questo golpe, «Corriere della Sera», 14 novembre 1974, col titolo Il romanzo delle stragi in Id., Tutte le opere. Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti, Milano, Mondadori, 1999, p. 362.
[5] Ivi, p. 233.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 234.
[8] Roberto Saviano, Io so e ho le prove, «Nuovi Argomenti», novembre-dicembre 2005, anche nel sito http://www.pasolini.net/saggistica_trulli_inedito.htm
[9] Ivi.
[10] Maria Vittoria Messori, Saviano: «io, nel segno di Pasolini», «Il mattino», 2 luglio 2006, anche nel sito http://www.pasolini.net/narrativa_robertosaviano.htm
[11] Ivi.
[12] «Non fotografo l'avvenimento, ma cerco di attraversarlo per cercare quello che gli strumenti che possiedo mi permettono di trovare. È un procedimento più simile alla radiografia che alla fotografia». (Ascanio Celestini, L'estinzione del ginocchio. Storie di tre operai e di un attore che li va a registrare, in Gerardo Guccini, a cura di, La bottega dei narratori. Storie, laboratori, metodi di Marco Baliani, Ascanio Celestini, Laura Curino, Marco Paolini, Gabriele Vacis, Roma, Dino Audino, 2005, p. 186).
[13] Per Wu Ming 1 la «sintesti di fiction e non-fiction» descrive «un modo di procedere […] "distintamente italiano", e che genera "oggetti narrativi non identificati"». (New Italian Epic cit., p. 109).
[14] Cfr. Richard Turner, Dal rito al teatro, Bologna, il Mulino, 1999, p. 131 (ed. orig. From ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play, New York, Performing Arts Journal Publications, 1982).
[15] È il lamento dell'arciprete Antonio Lepanto nell'ultimo capitolo del Candido (1977) di Leonardo Sciascia.
[16] Pippo Pollina, Ultimo volo. Orazione civile per Ustica, in Cristina Valenti (a cura di), Ustica e le arti. Percorsi tra impegno, creatività e memoria, Corazzano (Pisa), Titivillus, 2007, p. 125.
[17] Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull'opera di Nicola Leskov, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1995, p. 265 (titolo orig. Schriften, Suhrkamp Verlag, 1955).
[18] Pasolini, anche perciò maestro, diceva: «la caratteristica principale dei film che io faccio è quella di far passare dinanzi allo schermo qualcosa di "reale"» (Ideologia e poetica, «Filmcritica», n. 232, marzo 1973, ora in Pier Paolo Pasolini, Tutte le opere. Per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, II, Milano, Mondadori, 2001, p. 2994).
[19] Pier Paolo Pasolini, Ancora il linguaggio della realtà (a cura di Sergio Arecco, «Filmcritica», n. 214, marzo 1971), in Valerio Magrelli (a cura di), Con Pier Paolo Pasolini, «Quaderni di filmcritica», Roma, Bulzoni, 1977, p. 100.
[20] Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti: filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1997.
[21] Pier Paolo Pasolini, Ideologia e poetica cit., p. 2995.
[22] Cfr. Richard Turner, op. cit., p. 135.
[23] Pier Paolo Pasolini, Ancora il linguaggio della realtà cit., p. 91.
[24] Stefano Agosti, La parola fuori di sé, in Cinque analisi, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 154.
[25] Pier Paolo Pasolini, Razionalità e metafora (a cura di Paolo Castaldini, «Filmcritica», n. 174, gennaio-febbraio 1967), ora in Id., Tutte le opere. Per il cinema cit., II, p. 2914.
[26] «Mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); perché è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura (mentre quella del borghese è volgare), perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita) […]». (Pier Paolo Pasolini, Questo è il mio testamento, «Gente», 17 novembre 1975, ora col titolo Quasi un testamento in Id., Tutte le opere. Saggi sulla politica e sulla società cit., p. 868) Alla creaturalità degli attori sottoproletari di Pasolini, scelti per essere se stessi, corrispondono alcuni significativi sviluppi del teatro degli anni Novanta, «torna[to] a confrontarsi col mondo, non più riflettendolo, come avveniva nel sistema mimetico, ma assumendone direttamente le realtà». (Gerardo Guccini, Presentazione di Verso un teatro degli esseri. Documenti e voci dall'incontro di Lerici – 2 luglio 2000, «Prove di Drammaturgia», n. 1/2001, p. 24)
[27] Pier Paolo Pasolini, Ancora il linguaggio della realtà cit., p. 97, una limitata sezione dell'articolo, contenente il brano qui riportato, è stata edita col titolo Il non verbale come altra verbalità in Pier Paolo Pasolini, Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, II, Milano, Mondadori, 1999, p. 1594.
[28] Cfr. Stefano Casi, I teatri di Pasolini. Introduzione di Luca Ronconi, Milano, Ubulibri, 2005, e in particolare il cap. Pasolini in scena, pp. 284-305, e, per un esaustivo repertorio di dati, la Teatrografia, pp. 207-218.
[29] Marco Baliani, Esperienza – tempo – verità: un seminario sulla narrazione (CIMES, Bologna, febbraio 2000), in Gerardo Guccini (a cura di), La bottega dei narratori cit., p. 63.
[30] Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro (1968), in Id., Teatro, Milano, Garzanti, 1992, p. 711, ora in Id., Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull'arte cit., II, p. 2484.

Fonte:
http://www.griseldaonline.it/temi/verita-e-immaginazione/pasolini-teatri-di-narrazione-saviano-guccini.html

http://www.iltuoforum.net/forum/il-libro-ritrovato-f44/pier-paolo-pasolini-1922-1975-t2801.html


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