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lunedì 12 novembre 2012

Pasolini all’Inferno

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini all'Inferno
di Andrea Cortellessa

«Più veloce d’un cuore / ahimè, cambia la forma d’una città», scriveva già Baudelaire. E non aveva ancora visto niente. Le grandi città di oggi vivono mille metamorfosi. Bruciano ogni volta, per ogni volta rinascere dalle proprie ceneri. Ma se, una volta, tanto bastava a dannare la memoria del leggendario Imperatore-Poeta che s’ispirava alla vista delle fiamme, oggi i fuochi della disgregazione, e della ristrutturazione, sono all’ordine del giorno. Magari non alla lettera: com’è invece avvenuto, all’alba dello scorso primo aprile, nel quartiere romano del Pigneto. Lo scherzo, brutto e quasi metafisico, s’è consumato ai danni del Bar Necci di Via Fanfulla da Lodi, dato appunto alle fiamme da ignoti. Luogo storico, recita l’insegna, per la data d’apertura (1924); ma soprattutto in virtù della parte recitata, è il caso di dire, nel primo film diretto da Pier Paolo Pasolini.

Era il quartier generale nei «sopralluoghi» che negli anni Cinquanta portano Pasolini a scrivere i romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta; poi a collaborare con registi come Soldati, Bolognini, Fellini, Lizzani e Zurlini; infine, travolto dalla nuova e irresistibile passione, a realizzare la sua opera prima cinematografica: Accattone, 1961. Naturale che una scena del film Pasolini scegliesse di ambientarla proprio all’interno del Bar; e che il suo esterno venisse ricreato, a pochi metri di distanza, sulla stessa strada. È il set-chiave, che fa da raccordo ai vari episodi ambientati in quartieri assai distanti l’uno dall’altro, nella sterminata savana suburbana. Dove non cessa d’aggirarsi – tormentato dalla fame e da più astratti desideri – Vittorio detto Accattone, il «pappone» interpretato da Franco Citti. Colui cioè che aveva fatto da «dizionario vivente», era stato il Virgilio di Pasolini nelle malebolge romane. Dall’Appia Antica al Ponte di Testaccio dove, improvvisa e traumatica, giunge la conclusione. Contorniato da due «ladroni», «il Balilla» e «Cartagine», Accattone ruba qualche fetta di salame, vede la polizia, scappa in moto. Si sente un fracasso; tutti corrono al Ponte. Accattone è steso a terra. Apre un istante gli occhi, mormora: «Aaaah… Mo’ sto bene!». Il Balilla, ammanettato, si fa il segno della croce. Sullo sfondo si staglia il grande crocifisso in cima al monte Testaccio. Come già in precedenza (con un uso della colonna sonora per l’epoca inaudito, poi imitato sino al luogo comune) esplode Bach, la Passione secondo Matteo.
Un finale indimenticabile per un film indimenticabile. La sua versione della nouvelle vague, cui Pasolini ammetterà d’essersi ispirato in Una disperata vitalità, il più «cinematografico» dei suoi poemetti. Ed è proprio questa indimenticabilità a entrare in cortocircuito con l’ultimo fait divers di una vita, quella pasoliniana, che la sorte – anche postuma – insiste a presentarci violenta.
Come pochi altri al mondo, Roma è uno di quei luoghi «in certo modo doppi» di cui parla genialmente Leopardi. L’«uomo sensibile e immaginoso», si legge nello Zibaldone, «vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose». A differenza di Proust un secolo dopo, Leopardi non poteva nemmeno immaginare che questa «seconda vista» l’avrebbe fornita, potenzialmente a ciascuno di noi, un semplice congegno meccanico come il cinema. È nella nostra memoria che scatta il cortocircuito descritto da Leopardi: ogni volta che nella realtà, nella «lingua scritta della realtà» di cui parlano i non meno geniali saggi sul cinema raccolti da Pasolini in Empirismo eretico, ci imbattiamo in uno dei luoghi che – nella nostra vita anteriore di spettatori – abbiamo già visto: nella luccicante memoria artificiale del cinema.
La Roma del grande cinema neorealista, ma anche quella onirica della Dolce vita, quella supremamente astratta dell’Eclisse, giù giù sino all’Eur metallico del Daniele Vicari di Velocità massima, è l’oggetto di un curioso libro di Franco Cordelli, da poco uscito per le Edizioni Falsopiano di Alessandria: Vacanze romane. Set protagonisti film: raccogliendo gli articoli apparsi lungo anni di collaborazione al dorso romano del «Corriere della Sera», quella che ne sortisce è una guida alla città tutt’altro che sentimentale, piuttosto fenomenologica: secondo quello sguardo strabico che ricalca l’oggi a colori su una memoria che è, per lo più, in bianco e nero. C’è anche il Citti di Accattone, ovviamente: che si aggira «filosofeggiando» in una Roma «epica e mitica: che non s’era mai vista e che non c’è più».

Vano chiedersi cosa direbbe Pasolini del Bar Necci da un paio d’anni ristrutturato secondo i dettami dell’international style in un Pigneto inopinatamente divenuto fighetto (secondo una parabola già di Trastevere, Testaccio, Garbatella e San Lorenzo) ma ancora percorso, si vede, da scintille di fuochi non spenti. Lui che nel ’75 – a meno d’un mese dall’altro atroce fait divers, che porrà fine alla sua esistenza, all’Idroscalo di Ostia – aveva avuto in sorte di vedere all’odiata televisione proprio quell’Accattone che, all’apparire, aveva fatto mostruoso scandalo. In soli quattordici anni s’era consumato quello che Pasolini enfaticamente definisce un «genocidio» culturale: al posto dell’innocenza sacrale dei corpi, al posto dei borgatari santi degli anni Cinquanta, negli stessi luoghi ora vedeva i giovani «svuotati dei loro valori e dei loro modelli – come del loro sangue», «larvali calchi» del modo di vita «piccolo-borghese».
Quello appena citato è uno dei documenti citati in un altro libro estremamente curioso e utile, la dettagliata quanto acuta monografia di Stefania Parigi su Pier Paolo Pasolini., Accattone (Lindau). Proprio su una ravvicinata messa a fuoco dei luoghi si articola la lettura del film, che ne mette in luce le ripetizioni, i parallelismi, le citazioni: in una struttura apparentemente libera se non svagata, in realtà ordinata da segrete, sorprendenti simmetrie interne. Una prima lettura di Accattone non può che prenderlo (come faceva lo stesso Pasolini) quale «il reliquiario di un mondo scomparso», ma la “seconda vista” di Parigi ci restituisce uno sguardo diverso, visionario e «doppio» come quello del Pasolini estremo, il Pasolini di Petrolio. Una volta Pasolini definisce il cinema «Mangiarealtà»: una macinatrice divorante, dunque, che dietro di sé lascia solo macerie, scorie, cenere. Sorprende scoprire la quantità di metafore, nell’opera di Pasolini in generale e in Accattone in particolare, legate a un sole che divora, scheletra, incenerisce. Se, come dice Parigi, quello del primo film è per eccellenza «un viaggio all’inferno di Pasolini e un ininterrotto andare verso la morte del suo personaggio», non è un caso che le prime parole della sceneggiatura siano «Tutto brucia». La «vampa atroce» del sole sferza i diseredati come anime mai ferme su un sabbione d’oltretomba (il film è introdotto da un esergo dantesco). È una stagione quella che racconta Pasolini. E non è nemmeno un caso se uno dei compagni di Accattone si chiama Cartagine: come la città incendiata dai romani («Che tu potesse fa’ la fine di Nerone», gli grida la prostituta Maddalena).
Confrontare le foto del Bar Necci subito prima e subito dopo l’incendio del primo aprile fa uno strano effetto. I colori slavati da locale fighetto, tutto plastiche pastello, sono stati furiosamente divorati da un grigio nero, antracite: simile al volto da dèmone di Accattone caduto nella sabbia del Tevere. Le pareti, spettrali, sembrano uscite da una Delocazione di Claudio Parmiggiani. Unico dettaglio a essersi salvato dalle fiamme, su una parete, il quadro che ritrae proprio Pasolini: sorridente e coloratissimo, pop. Le fiamme contornano la cornice, quasi con rispetto. Ho mostrato queste immagini ad alcuni amici. Una ha commentato: «ha fatto paura anche alle fiamme, Pasolini». Un altro ha sostenuto che dev’essere stato proprio lui, Pasolini, il mandante dell’incendio. Hanno ragione, mi pare, tutti e due.
Una versione più breve di questo articolo è stata pubblicata su La Stampa il 14 aprile, col titolo Pasolini e le ceneri di Roma.

Fonte: Nazioneindiana - 21 aprile 2009


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Il Cristo dell’eresia – Recensione di Enrico Cerquiglini a un saggio su Pasolini di Erminia Passannanti

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Il Cristo dell'eresia
Recensione di Enrico Cerquiglini a un saggio
su Pasolini di Erminia Passannanti

Erminia Passannanti, Il Cristo dell’eresia.
Rappresentazione del sacro e censura
nei film di Pier Paolo Pasolini
Novi Ligure, Edizioni Joker, collana Transference (2009)

Il saggio di Erminia Passannanti, Il Cristo dell’eresia. Rappresentazione del sacro e censura nei film di Pier Paolo Pasolini, presenta una lucidissima e documentata analisi di come il sacro diventi oggetto di gran parte della produzione cinematografica di Pasolini e di come si sottragga ad un’ortodossia fatta di dogmi e di inoppugnabili verità. La figura del Cristo che ne emerge è carica di una forza rivoluzionaria incoercibile che si sottrae alla fissità istituzionale della Chiesa e che chiede di vivere, di realizzarsi in ogni rapporto umano, in ogni epoca storica. I film accuratamente analizzati dalla Passannanti sono La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo, Teorema e Salò o le 120 giornate di Sodoma, quelli insomma in cui la presenza della figura del Cristo è predominante o per presenza o per presunta assenza (Teorema e Salò).
La ricotta, cortometraggio del 1963, ricorda la Passannanti, costò a Pasolini una condanna per vilipendio della religione cattolica. La colpa del regista sembra essere stata quella di essersi occupato, da ateo dichiarato, della figura del Cristo che la Chiesa ha istituzionalizzato e svuotato della forza della Parola, ridotto a icona da adorare, ma distante dall’uomo sofferente (Stracci, sottoproletario affamato), isolato in un amore sterile e lontano dalla vita-morte dell’uomo. La figura del Cristo viene confinata sul piano emozionale nella raffigurazione iconografica, mentre è Stracci che rappresenta tragicamente l’umano e la sua morte: «si ricollega semanticamente (e per i censori, in modo blasfemo) alla passione di Cristo, sovrapponendo alla Passione una riscrittura in chiave marxista delle storia degli umili, sacrificati, come Stracci, alla divorante logica del Capitale». (p. 37)
Il film quindi rappresenta una lettura sostanzialmente marxista della realtà. Scrive a proposito la Passannanti:
tutto soggiace alla logica del Capitale, anche i simboli più sacri, come dimostra la scena in cui la corona di spine conservata in una scatola vuota di Pasta Federici sia innalzata da due rozze mani d’operaio contro lo sfondo plumbeo del paesaggio urbano della periferia romana dove sorge Cinecittà.
Non c’è vilipendio del sacro, bensì critica mossa alla struttura della società moderna, che avvilisce i simboli religiosi. Il declino dell’istituzione religiosa, lo suggerisce il ricorso all’arte sacra, è determinato dall’urbanizzazione e industrializzazione, per contrasto continuamente citata nel film, come fenomeno responsabile di avere secolarizzato le istituzioni ecclesiastiche, aumentando il prestigio dell’arte sacra, ma riducendone il contatto con i fruitori dei ceti poveri. (p. 34)
Come detto, la lettura pasoliniana non solo non fu gradita dal Vaticano ma fu oggetto dell’attenzione delle autorità giudiziarie italiane, quasi a voler ribadire che non è il Cristo ad essere intoccabile bensì l’interpretazione che di esso dà la Chiesa, recependo in questo modo l’infallibilità vaticana anche nell’esercizio dell’attività giudiziaria di uno stato (Italia) dall’ordinamento costituzionale laico.
Per i cattolici vicini al Cristo come istituzione inviolabile – scrive la Passannanti -, tutto si riduce alla perseveranza della difesa dello status iconico, assicuratogli con tanta tribolazione dottrinale attraverso secoli di dispute teologiche. Per i non cattolici ed i laici, Cristo invece attraversa epoche e società con la sola forza della sua Parola, che perdura senza bisogno di essere chiusa sotto custodia e tutelata dai cani mastini del Vaticano. (p. 45)
Il film successivo sposta il tiro: Pasolini porta sullo schermo il Vangelo di Matteo e la figura del Cristo diventa centrale, diventa Parola e non in forma di fiction, ma Parola evangelica. Non un Cristo rivisitato ma visitato e scoperto nella sua essenza contemporaneamente antica e moderna: «lo spettatore incontra un Cristo intramontabile e, alo stesso tempo, moderno. Lo osserva impegnato nel processo, e nel metodo, nel suo “farsi un nome”, nel vedersi riconoscere un prestigio di predicatore e maestro, ovvero un dominio ideologico tra le genti della Palestina a cui rivolge il suo messaggio, e per le quali elabora una dialettica socialista oltre che spiritualistica, che mostri al popolo sottomesso al “Dio del danaro” la velleità del possesso». (p. 57-58)
Le parole del Cristo pasoliniano aprono e svelano il mondo del potere e il modo in cui si auto legittima e si mantiene, attraverso forme anestetizzate, incapaci di rinvigorire e rivitalizzare l’azione dell’umano:
Rispetto ai suoi discepoli e seguaci, egli chiarisce i metodi tramite cui Stato e Chiesa ottengono sottomissione ed obbedienza e, dunque, incita le masse alla presa di coscienza in senso rivoluzionario; sollecita fede nel suo messaggio e stabilisce un dialogo diretto con la sua persona; istruisce gli apostoli al proselitismo. Il Cristo di Pasolini mostra, altresì, le tecniche di propaganda e condizionamento culturale con cui i burocrati dell’ortodossia dottrinale esigono dal popolo una cieca sudditanza ai loro programmi conservatori, eludendo qualsiasi dialogo con la dissidenza interna ed esterna. Il potere temporale, infatti, prescrive la fede come stato di dipendenza, obbliga alla confessione e alla penitenza e soprattutto non delega, ma accentra, il proselitismo. (p. 60)
Con Teorema, Pasolini indaga la dicotomia sacro-borghese: le due realtà inconciliabili finiscono per collidere e il sacro sconvolge il mondo borghese nelle sue strutture portanti. Rivolgendosi all’ospite, il padre afferma: «…è difficile affrontarti. Sono due le ragioni per cui io mi sento costretto a parlarti: prima di tutto si tratta del mio senso morale, e poi c’è qualcosa dentro di me di confuso… che forse appunto soltanto parlando è possibile chiarire». (Teorema) Proprio nella figura paterna, spiega la Passannanti, si manifesta in modo assoluto il fallimento del modello borghese: la sua reazione all’incontro con l’ospite misterioso è frutto di una rivelazione di essenzialità che genera ebbrezza e angoscia, che libera dalla sordità e dall’assurdità della borghesia. Lucidamente l’Autrice del saggio coglie l’essenza del dettato di questa pellicola:
In breve, dal contesto contenutistico se ne deduce che le autorità ecclesiastiche della religione istituzionalizzata non producono, nel credente, altro che sensi di colpa e disistima, tenendo il corpo confinato ad una distanza sessuofoba: da esse il praticante a poco a poco si distacca, abbandonando l’ortodossia e l’osservanza delle regole prefissate, mentre il Cristo-ospite di Teorema, che non giudica e non punisce, semplicemente sconvolge nell’intimità che stabilisce con l’amato, soddisfacendo individualmente il bisogno del sentimento religioso: anzi, nel concedersi sessualmente fuori e oltre l’unione del matrimonio, il suo corpo diventa non già il sostituto, ma il veicolo stesso della comunicabilità di tale sentimento (p. 70)
Nel mondo cattolico, spiega l’autrice, i giudizi non furono unanimi; il cattolicesimo si divise sulla valutazione del film. Teorema ricevette il premio OCIC (Organizzazione Cattolica Internazionale per il Cinema e l’audiovisivo) – segno che l’opera aveva in qualche modo toccato sensibilità presenti nel mondo cattolico – ma dovette subire l’ostracismo delle gerarchie ecclesiastiche:
La Santa Sede reagì istantaneamente alla decisione dell’OCIC, condannando pubblicamente Teorema nelle pagine dell’Osservatore romano del 14 settembre, bandendo, con il veto “Escluso per tutti”, la visione della pellicola alla comunità dei cattolici osservanti. Il 18 settembre, Papa Paolo VI intervenne in persona rivolgendosi direttamente ai fedeli dal balcone della sua residenza di Castel Gandolfo per mettere in guardia l’audience cattolica contro “l’inammissibile film” (evidentemente Teorema) premiato dai cardinali dell’OCIC, eretici della Teologia della liberazione (p. 73)
Questa ennesima chiusura, questo escludere tutti dalla visione non può che negare ogni possibile discussione con chi della religione si è fatto garante per secoli. Ma questa levata di scudi in difesa di dogmi e icone impedisce proprio nel momento in cui se ne avverte l’urgenza, la ripresa della Parola del Cristo e della sua scandalosa e sconvolgente forza vitale. Scrive a proposito la Passannanti: «Il messia di Pasolini […] insegna a redimersi dallo scandalo maggiore di cui un essere umano possa macchiarsi: il peccato dell’indifferenza agli altri e dell’ipocrisia verso se stessi». (p. 74)
Il saggio si chiude con una disamina del Salò-Sade (film già studiato dalla Passannanti nel saggio Il Corpo & Potere. Salò o le 120 giornate di Sodoma) che coglie in profondità i temi dell’ultimo Pasolini già nei riferimenti culturali che costituiscono le coordinate dell’opera filmica. Habermas, Luhmann, Marcuse, Foucault e Barthes sono presenti nella metafora del potere onnivoro che è Salò. Il sacro è ormai destinato a farsi parodia del sacro e legittimazione di un potere che desacralizza i corpi-vite. Non mostra più valenze positive, non apre al mistero dell’esserci, ma è strumento di un potere che annulla corpo e spirito, in quadri insostenibili in cui il sacro asservito al potere non può che far sorgere il bisogno della Parola. Al nichilismo non può che essere opposto il Cristo, di cui si avverte la totale assenza e la presenza nella sofferenza delle vittime.

Restando ancora nella prospettiva del fascismo storico, la Passannanti coglie «come, congiuntamente, il regime fascista e la Chiesa cattolica abbiano avuto spazio e tempo d’azione per assoggettare gli italiani alla macchina di un potere, che agiva su due livelli: quello politico e quello spirituale. Tale combinazione di dogmi, metodologie disciplinari e tattiche repressive venivano applicate sia dai burocrati del regime, sia dai funzionari della Chiesa, che influivano dai pulpiti sulla coscienza privata e collettiva dei fedeli». (p. 82)
Nello stesso periodo in cui Pasolini lavorava a Salò, Pasolini stava individuando le coordinate di un nuovo fascismo – frutto di una seria riflessione sulle dinamiche della società dei consumi e sulla sua capacità di realizzare un fascismo molto più devastante di quello storico del ventennio – efficace e temibile, capace di omologare e nientificare l’uomo, desacralizzandolo, ponendolo nella condizione esistenziale del vuoto e dell’angoscia.
Il lavoro della Passannanti è inoltre prezioso per la sostanziosa ed informata premessa in cui si evidenziano gli aspetti principali della censura cinematografica in Italia, frutto di un legame, spesso strettissimo, tra Vaticano e potere politico italiano. Legame questo che ha fortemente cercato di bloccare quanti – Pasolini in testa – hanno provato a realizzare un cinema intellettualmente e civilmente libero.
L’analisi cristologica sviluppata in questo saggio propone una lettura del Cristo come figura dalla forza dirompente, in grado di arginare il degrado antropologico proponendo una rottura rivoluzionaria per riacquistare un’umanità che le strutture dell’attuale potere hanno asservito e finito per negare.
L’impatto del cristianesimo sulla società dell’impero romano è stato sicuramente, almeno nella prima fase, dirompente e con una forte valenza rivoluzionaria. Il Cristo, prima ancora di essere figlio di Dio, era portatore di riscatto, di speranza, di vita (anche attraversando la morte). In questo superamento della morte, meglio ancora, in questo com-prendere la morte, si realizzava il legame (religio) con una dimensione altra, con Dio.
Non sfugge certo a Pasolini, ricorda la Passannanti, la portata straordinaria di questa figura, né la sua potenziale attualità. Pur da una posizione materialistica affronta la figura del Cristo cogliendone l’aspetto di una divinità che è sostanzialmente essenza dell’umano. Scriveva infatti a Lucio S. Caruso della Pro Civitate Christiana di Assisi, a proposito del progetto di un film sul Vangelo di Matteo: «io non credo che Cristo sia il figlio di Dio, perché non sono credente – almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino, credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità» (Lettera pubblicata con la sceneggiatura Il Vangelo secondo Matteo, Milano, Garzanti, 1964, pp. 16-17).
In questa «umanità così alta» Pasolini finisce per realizzare il suo ideale di divino umano, sottraendolo alle strutture gerarchizzate dell’istituzione ecclesiastica.

Fonte: Nazioneindiana, 2009


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