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mercoledì 7 novembre 2012

Pasolini: Sesso, politica, Eni..., di Ottiero Ottieri

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini: Sesso, politica, Eni...

di Ottiero Ottieri     
Torniamo ancora su Pasolini con l’intervento di Ottiero Ottieri al convegno “A partire da 'Petrolio'. Pasolini interroga la letteratura” tenuto a Pavia il 4-6 novembre 1993, intervento registrato ma mai pubblicato. 

Parlerò solamente dei contenuti perché con le forme io non mi sono trovato mai bene. Allora direi che Pasolini, e soprattutto quello di "Petrolio", non è tanto un profeta: è uno scrittore attuale. Perché è uno scrittore attuale?
Cominciamo subito col primo spalancamento, la prima frana di "Petrolio", che è il sesso. È difficile trovare un personaggio che si masturba, possiede la madre, la nonna, le sorelle, alcune cameriere… Non è uno scherzo! Ora, questo scatenamento sessuale può ricordare quello che oggi c’è in televisione, nei giornali, cioè un’ipersessualità, che però – come avrebbe detto Cossiga – è perversa. Cioè una sessualità dongiovannesca, casanovesca… insomma, un vero grido di questa sessualità. La quale poi viene descritta in maniere così forti, così belle, che mi hanno fatto pensare alla Cappella Sistina. Le posizioni che il protagonista prende di fronte al ragazzo di quel momento, sono da grandissima arte figurativa. In questo senso non c’è assolutamente nessuna oscenità, anzi c’è il grande coraggio di dire come un omosessuale funziona veramente. Anche se Pasolini era un omosessuale per modo di dire, o per lo meno la pederastia in lui era così tanto di lui che non assomigliava a niente. Invece viene fuori un uomo profondamente narciso, che amava sul serio e voleva bene solo al suo membro. I membri degli altri servivano per esporre il suo.


Naturalmente in "Petrolio" non c’è un rapporto con qualcuno, questo Carlo non ha un amante fisso, qualcuno che potesse… ecco, questo personaggio è uno che non si rapporta a niente. Solo si guarda il suo sesso, che praticamente è migliore e più importante del sesso di tutti i suoi ragazzetti.
Per questo contenuto sessuale, "Petrolio" è stato anche definito un romanzo d’amore, non ricordo da chi (era una recensione su “L’indice”). Un romanzo d’amore: è verissimo! Per l’amore che il protagonista ha per la patta, per la chiusura lampo dei pantaloni di tutti questi ragazzotti. Naturalmente tutto questo in un modo così, come si può dire… poetico. Se c’è poesia e non poesia, ecco, questa è la poesia. Ed è in virtù di questa attualità e di questa riuscita che siamo qui. Perché – credo – se si fosse dovuto parlare solo di Pasolini, di fare delle critiche, dei commenti a Pasolini, ci sarebbe stato questo convegno? Il convegno è nato dal dopo Pasolini, cioè dopo "Petrolio". Allora, dopo "Petrolio" che si fa?
C’è un’altra cosa, qui, nei rapporti sessuali, nelle descrizioni dei terreni, di questo confine tra città e campagna, che per Pasolini è fonte di ispirazione di tutta la sua vita… Forse col cinema è più facile descrivere queste cose, ma con la scrittura, con la letteratura, è molto difficile fare delle descrizioni del cielo, delle marane. Descrizioni continue. Uno dice: ora ha finito di descrivere. No, si aggiunge… e sono tutte descrizioni talmente belle… È per quelle che siamo qui, e siamo qui per l’attualità e anche per il valore artistico: e non si tratta dell’attualità dei giornalisti. Queste parti della sessualità, la patta e i luoghi della sessualità (che sono poi dei casini, questi ragazzi vengono pagati, per cui è esattamente come andare al casino), queste descrizioni delle posizioni sessuali e dei muretti, degli orti, dei marciapiedi, sono talmente belle per cui di questo libro basterebbe solo questo.
Un altro argomento di attualità. Pasolini scopre il potere, il potere politico, ma soprattutto il potere economico. Inventa un personaggio, che è il Troya, il quale è un numero due che non vuole diventare numero uno, bensì proliferare orizzontalmente, mettendo dentro tutta la famiglia, aprendo un’aziendina per la nipote in Brasile… insomma si espande. Questa del numero due è una mia vecchia fissazione, perché ho assistito a molti di questi numeri due che stanno per diventare numero uno, tutta la vita; e invece arriva un altro da fuori… Loro di fare il numero uno hanno paura, per cui tutto si sistema. Dunque Pasolini, che non era particolarmente specializzato sul tema industrial-commerciale (infatti qualcuno mi raccontava che andava scrivendosi dei nomi, di come si chiamano le aziende), si è voluto grandemente divertire. C’è un punto in "Petrolio" in cui si sgranano tante di quelle sigle di ditte e di controditte. Certo, non è la visione della nostra giovinezza, che era una visione operaistica. Noi non descrivevamo il prolificarsi delle aziendine, bensì la condizione operaia, e questa ormai è una cosa... Che poi la condizione operaia si potrebbe studiare ancora oggi, se uno avesse il fiato. Ecco, in quel punto si vede benissimo che Pasolini si diverte: perché lui, come uno dal di fuori, prende in giro questo mondo di ramificazioni, di poteri, sottopoteri – che poi è Tangentopoli.


Quindi Pasolini non è un profeta, è uno scrittore di oggi. “Profeta”, che cosa vuol dire? È una cosa pesante, di una religiosità perversa. Lui stava a contatto con argomenti che sono gli argomenti di oggi, da Gardini a non so chi. Questo è un altro dei temi, dei contenuti di "Petrolio".
Poi c’è un altro problema, che non è solo di "Petrolio" ma anche degli "Scritti corsari". Qual è l’ideologia finale di Pasolini prima di morire? È che bisogna contrapporsi, con tutta la nostra forza, contro la borghesia, ma soprattutto contro il consumismo. Allora, e parlo un po’ anche di me, io ho lottato molto in favore del consumismo, perché pensavo che l’alternativa del consumismo fosse la miseria. E se c’è la miseria, ben venga il consumismo. Ma adesso il consumismo ci ha talmente rotto l’anima, ci ha talmente disgustato che dobbiamo, se si può, cominciare a rifiutarlo di brutto. Ecco, che cosa allora possiamo dire che sostituisce il consumismo? insomma: qual è l’avvenire? Quando si cercano le alternative, lo si fa perché si vedono davanti anni e anni e si dice, beh, bisogna…
Ma qui non si tratta tanto della parola d’ordine del nuovo (che ci ha afflitto negli ultimi anni qui in Italia). Si tratta dello sgorgare dal profondo, diciamo così, di tutti gli italiani del bisogno di qualcosa di più umano. Allora: consumismo no, borghesia no, comunismo non ne parliamo, socialismo roba solo da ridere, allora cosa? Facciamo, come Berlusconi, il nostro partito con dei managers? Effettivamente si potrebbe anche provare a mettere un amministratore delegato al ministero dell’ambiente… perché se noi non ci sbrighiamo a trovare nuovi valori (e già la ricerca di nuovi valori è diventata anche questa, che poteva essere una cosa seria, una cosa da ridere… il nuovismo! i nuovi valori! basta!)… in questo stesso tempo il capitalismo stravincente diventa sempre più cattivo. E che cosa ci lascia in eredità, o meglio, perché non è che muore, che cosa ci consiglia per vivere? Ci consiglia le sue ideologie, che stando a Milano uno le può studiare molto bene: per esempio, l’ideologia dello shopping. Lo shopping sostituisce l’andare in chiesa, per cui la faccenda del comprare e vendere diventa la vita: la vita è soltanto un marketing.
Ma queste aziende sono importantissime, perché quando chiudono creano la tragedia, e infatti noi oggi abbiamo il problema dell’occupazione. Quindi queste aziende ci devono essere. Ma perché esse non diventino delle ideologie, bisogna trovare dei contravveleni, non so, elaborare, pensarci, trovare qualcosa. E viene subito fuori l’elemento religioso – viene subito fuori l’umano. Anche i giovani non sanno più che cosa dire. Poiché tutto va male, o è andato tutto male… Mia figlia giorni fa mi parlava di catto-comunismo. E già un tempo si parlava dei comunisti cristiani. E io in fondo penso che il catto-comunismo potrebbe andare bene se mette insieme Cristo con il socialismo, non quello reale ma quello utopistico.


Un’altra cosa indovinata da Pasolini (ma non come profeta, come uomo di un’intelligenza quasi mostruosa) è stata di prendere l’Eni come protagonista di queste descrizioni industriali. Come è arrivato Pasolini, lui abbastanza ignaro di queste cose, a puntare proprio sull’Eni, da cui viene fuori "Petrolio"? Forse perché la morte di Mattei è stato uno dei primi allarmi di stragismo, brigate nere e rosse. E infatti in "Petrolio" ci sono delle cose molto tipiche dell’industria petrolifera: si va in Oriente, perché lì c’è il petrolio. La scelta dell’Eni sarà marginale ma a me dà proprio la sensazione della divinazione. Pasolini non poteva scegliere un’azienda più adatta ai nostri scopi. Eccoci a un punto in cui rischiamo di non trovare più né l’umano né le tecniche che possano permettergli di realizzarsi. E allora questo umano diventa metafisico, utopistico. Nel Novecento non c’è stato il socialismo, non fa niente, io non metto termini. Non c’è stato nel Duemila, vedrai che ci sarà nel Tremila, e sarà davvero la società perfetta.
Tornando al campo artistico, qual è l’insegnamento che gli scrittori possono trarre da questo libro? “A partire da Petrolio” dove si va a finire? Si va a finire o nella disperazione nera – che d’altra parte costeggiamo tutti i giorni – oppure in questo neoumanesimo. Ci sono molte discipline che convergono sull’umano. Mia moglie e io abbiamo un’amica che è una grande psicoanalista e ci dice che nel mondo psicanalitico c’è un movimento per creare una “psicanalisi dal volto umano” – il che vuol dire che fino ad adesso è stata col volto bestiale. L’umano rispunta sempre, rispunta una cosa a cui tengo molto: non diciamo proprio una giustizia economica, che forse è impossibile, ma una eguale dignità. Questo slogan non l’ho inventato io, ma Salvatore Veca, e forse nemmeno lui, deve averlo trovato nei suoi autori “contrattualistici”. Vogliamo una eguale dignità. E non è una cosa tanto facile.
Ciò che noi scrittori abbiamo imparato da "Petrolio" non è tanto il fatto che oggi si può scrivere solo un romanzo che parli di sé (lo fa anche Arbasino, tremila pagine su un romanzo che parla del romanzo). Almeno per i giovani, questo è un argomento già vieto: la metafora, l’allegoria, a loro non interessa, interessa solo alcuni studiosi e la cultura, ma è un argomento che non attraversa nemmeno un muro di latta. Così anche noi scrittori dobbiamo darci da fare per la scelta di contenuti umani.
Ottiero Ottieri 

Fonte: LO STRANIERO -

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Pasolini e quell’"attore per sbaglio", Enrique Irazoqui

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Pasolini e quell’"attore per sbaglio", Enrique Irazoqui

Appena entrati nella bellissima mostra di Marlene Dumas alle Stelline a Milano, sulla sinistra ci si trova di fronte a un piccolo quadro stupendo e serratissimo: è un volto dallo sguardo profondo, di un uomo dagli occhi scuri e dalle sopracciglia folte, molto mediterranee, che si staccano dall’incarnato che l’artista con le sue pennellate ha voluto insistentemente pallido. È un ritratto che cattura lo sguardo per la sua densità umana: si percepisce che la pittrice con questo volto ha avuto un rapporto non episodico e non casuale.
Quanto a noi, la sensazione immediata è quella di un volto già visto. Leggendo l’etichetta si capisce che in effetti per molti può essere così: “Pasolini’s Jesus” è il titolo che l’artista olandese ha dato a quel ritratto. Il volto infatti è quello del protagonista del Vangelo secondo Matteo. In mostra si trovano altri “segni” dell’interesse di Marlene Dumas per Pasolini: un ritratto del regista, e uno della madre Susanna.
Ma è questo Gesù che colpisce e quasi inchioda la nostra attenzione. Era accaduto anche allo stesso regista quando nel 1964, per la prima volta s’imbatté nel volto di questo che allora era un ragazzo. Enrique Irazoqui aveva 20 anni, era un giovane militante comunista catalano, arrivato in Italia per far conoscere la causa degli antifranchisti a qualche intellettuale nostrano “impegnato”. Non aveva in agenda di incontrare Pasolini, che neanche sapeva chi fosse. Ci arrivò per vie traverse, un po’ prevenuto perché gli avevano riferito della sua omosessualità. In effetti quell’incontro andò in maniera strana. Appena aperta la porta, Pasolini era sbottato in un grido guardando il ragazzo: “È lui!”. Poi, durante la chiacchierata lo aveva squadrato minuziosamente girandogli attorno di continuo. Ma l’obiettivo di quegli sguardi era molto diverso dai sospetti di Irazoqui. Prima di salutarsi Pasolini infatti gli chiese se voleva essere lui il suo Gesù che da tanto stava cercando. Voleva un volto che ricordasse i Gesù dipinti da El Greco, con qualche eco preraffaellita.
Il rifiuto di Irazoqui fu secco: lui comunista che vedeva nella chiesa soprattutto la grande alleata del nemico Franco, come avrebbe potuto essere il protagonista di un film sul Vangelo? Pasolini mise di mezzo tutte le amicizie per convincerlo, in particolare quella di Elsa Morante che per Irazoqui rappresentava un mito. Ma solo il suggerimento che i soldi guadagnati potevano aiutare la causa alla fine lo convinsero ad accettare.
Com’è finita lo sappiamo: Irazoqui ha dato il volto al più bel Gesù della storia del cinema. E una foto famosa di lui con la tunica indossata nel film al fianco di un Pasolini pensoso, appoggiati ad un muretto che si affaccia su Matera, è diventata l’icona intensa struggente di quel rapporto nato per caso.

Fatta quella parte, Irazoqui ha naturalmente subito chiuso con il cinema. Con qualche imbarazzo assistette comunque alle anteprime, alle quali erano stati naturalmente invitati tanti esponenti della sinistra, intellettuali e politici. Una volta il giovane attore si trovò a fianco di Pietro Ingrao e Giorgio Amendola i quali, pur apprezzando il film, avevano suggerito caldamente di tagliare le scene dei miracoli di Gesù. Irazoqui riferì la cosa a Pasolini, il quale a sua volta gli chiese lui cosa ne pensasse. E lui senza esitare, aveva risposto: “Per me devono restare”.
Quando ancor oggi chiedono a Irazoqui di ricordare quell’esperienza lui la racconta in questi termini: “All’improvviso sono stato catapultato in un mondo di amici e di stimoli così forte che è stata davvero la scoperta della vitalità e della libertà. Una sorta di esplosione di gioventù... una scoperta della vita, per me”. Era quella libertà che permetteva a Pasolini di rispondere così a chi, con petulanza, gli chiedeva perché dicendosi non credente avesse fatto un film su Gesù: “Se sai che sono un non credente, allora mi conosci meglio di quanto io conosca me stesso. Posso anche essere un non credente, ma sono un non credente che ha nostalgia di una fede”.
Tornando da dove abbiamo preso le mosse: Marlene Dumas nel piccolo spazio del quadro esposto alle Stelline è riuscita a condensare tutto il senso di questa storia nei pochi centimetrati quadrati di questa tela. Quel volto non è semplice la rappresentazione realistica del Gesù pasoliniano, è la restituzione sintetica e intensissima di un’esperienza vissuta. Non è il solo quadro importante di una mostra molto bella che non va persa. Certo è il quadro che una volta usciti non si stacca più dai nostri occhi.



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