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venerdì 2 novembre 2012

'na specie de cadavere lunghissimo, Pasolini e Gadda...


"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





'na specie de cadavere lunghissimo,
Pasolini e Gadda, Gifuni e Giuseppe Bertolucci...

Il cofanetto Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione racchiude i due spettacoli che sono la summa del percorso teatrale di Fabrizio Gifuni: ’Na specie de cadavere lunghissimo (Premio Istryo 2006) e L’ingegner Gadda va alla guerra (Vincitore di due Premi Ubu nel 2010). Entrambi i lavori si avvalgono della collaborazione e della preziosa regia di un grande autore di cinema e teatro: Giuseppe Bertolucci. Il libro all’interno del cofanetto contiene un saggio di Giuseppe Genna.



«Il progetto Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione è nato dal desiderio di organizzare un grande racconto sulla trasformazione del nostro paese. Su ciò che eravamo, su ciò che siamo diventati o su ciò che in fondo siamo sempre stati. Per capire cosa è accaduto, come sia stato possibile arrivare a tutto questo. Quello che ne è venuto fuori, a distanza di anni, è un doppio sguardo sulla nostra storia del Novecento, feroce e inesorabile, dove al «teorema pasoliniano» sulla mutazione antropologica di un intero paese si aggiungono, come tessere di un unico mosaico, le note gaddiane sulla Grande Guerra e le sue annotazioni psico-letterarie sul ventennale flagello fascista.
Due sguardi incrociati sulle dinamiche della grande Storia, spesso sorprendenti, dove termini come progressista o conservatore, cedono il passo alla sola forza di due intelligenze in continuo movimento».


Una faccenda privata

In un gennaio particolarmente piovoso, nella città tossica di Milano, preoccupato dalla voce che gli sembra arrochita e che lo tormenta insieme ad alcuni problemi tecnici, siede tra i tavolini in palcoscenico attorno cui si sistemano spettatori di ’Na specie de cadavere lunghissimo l’attore Fabrizio Gifuni nel Teatro Franco Parenti. Ha creato, da un testo immenso che è l’opera di Pier Paolo Pasolini, un testo fantasma, sintetico e stranamente articolato al suo interno, commistionato inoltre con un poemetto di Giorgio Somalvico. Le due file di tavolini sono appendici della platea che invadono il palco, o viceversa. Fabrizio Gifuni squadra perplesso il suo pubblico, pur sapendo che nulla qui è suo e questo è il luogo della disappropriazione più radicale. In effetti, egli pare svuotarsi interiormente da contenuti mentali. Quando parte a monologare, vestito di una maglietta bianca e un paio di pantaloni da tuta, ha bisogno di un interlocutore: sta dopotutto incarnando Pasolini che scrive a Calvino. Sembrerebbe che sia per questo, dunque, che Gifuni incomincia a fare perno osservando uno spettatore preciso in prima fila in platea, agganciandone lo sguardo inerme come inerme è chiunque sia seduto, perfino i re o coloro che, come scrive Ponge, “non toccano le porte”. L’attore invece le spalanca, le porte – in questo caso violando costantemente l’inermità dello spettatore indifeso, che per quel primo dei tre “atti” della rappresentazione resterà infilzato dallo sguardo via via aggressivo, rabbioso, sprezzante, interrogativo, pietoso – comunque sempre empatico – di Fabrizio Gifuni o del personaggio che egli interpreta.




Quello spettatore ero io.

Restare sospesi nello sguardo persistente dell’altro significa rimanere nella più assoluta ambiguità: da un lato si è intercettati e visti e quindi si è riconosciuti esistere, ma d’altro canto accade quanto in Prufrock constata drammaticamente Thomas Stearns Eliot: “E ho conosciuto tutti gli occhi, conosciuti tutti – | Gli occhi che ti fissano in una frase formulata, | E quando sono formulato, appuntato a uno spillo, | Quando sono trafitto da uno spillo e mi dibatto sul muro…”
Mentre si svolgeva l’azione (ma quale azione? Le parole sono un’azione? Eppure il corpo dell’attore agiva, si spogliava, si rivestiva, fingeva di stare male e per fingere al meglio probabilmente stava davvero male), io ero terrorizzato. Non riuscivo a sostenere quello sguardo. Sempre meno urbano il discorrere di quel Pasolini luterano, corsaro. Però sempre più preciso il bisturi dello sguardo con cui Gifuni inchiodava me alla poltroncina, che una volta era stata comoda, borghese: teatrale, appunto. Mi dibattevo come una farfalla trafitta da un spillo.
Tremavo. Aumentava lancinante il turbamento. Avevo paura di un danno. Comprendevo lo strazio dello stupro subìto. Avvertivo l’ansia ondulatoria che impone lo sciame sismico al suo rutilante riapparire. Quell’uomo stava violentandomi semplicemente con uno sguardo, cercando i miei occhi nelle traiettorie fulminee che partivano inaspettatamente da punti diversi dello spazio scenico. Ogni punto, un punto cardinale.
Ero terrorizzato. Non ne potevo più. Desideravo andarmene al più presto, fuggire da quello spettacolo che soltanto io e l’attore sapevamo esistere all’interno dello spettacolo più vasto e ufficiale. Mi sperperava una violenza muta, sottaciuta, la quale corrispondeva precisamente alla violenza che era la sostanza aggredita dall’urlo di Pasolini, il quale altro non era se non uno spettro che conclamava attraverso la voce di Gifuni, a quasi quarant’anni di distanza dalla sua morte fisica.
Un esercito fantasma mi premeva addosso, se ci si pensavo. Parole pensate erano state scritte quasi mezzo secolo prima di quel momento ed erano ora parole pulsanti, sottratte a una morte di carta e scagliate con violenza verso di me: lance non fisiche, però che mi trafiggevano. Io ero l’oggetto dell’invettiva di Pier Paolo Pasolini, un ultracorpo che prendeva le sembianze di un personaggio senza nome il quale a sua volta occupava il fisico e le movenze di Fabrizio Gifuni. E tutti i nemici evocati dall’ode civile che, estratta come un forcipe dall’opera totale di uno scrittore il quale grava come un fantasma sulla bilancia della cattiva coscienza italiana, erano legione: quei giovani privi di forma, quel potere dal volto bianco, quella chiesa imbelle e votata all’ultimo silenzioso colossale martirio che era la sua fine, quei politici che agivano un fascismo di tipo nuovo e tecnocratico, quei padri colpevolmente assenti, quei millenni cancellati da pochi decenni di società cibernetica, quei barbari incendiari che risalivano dall’inferno verso il centro abitativo borghese, quel malore inesistente ma che pressava il costato e lo stomaco dell’autore, del personaggio, dell’attore, della persona Fabrizio Gifuni.
Tutto ciò mi assediava e io coincidevo con quanto accadeva nello spazio scenico. Stavo male come il monologante: “io”, il monologante unico e continuo della mia esistenza, questo personaggio attoriale che in me non tace mai, stava molto male, si comprimeva zone doloranti come Fabrizio Gifuni, al ritmo medesimo del malore di lui.
Poi vennero i canti corali dell’“atto” secondo. Nel buio potevo nascondermi, mentre salivano alte arcaiche parole: erano greco tragico, era la tragedia greca.
E dunque eccomi pubblicare qui un rapporto sintetico, come se a stenderlo fosse una Stasi della mente, il resoconto che posso consegnare di quell’esperienza: “è stata vissuta una imitazione di un’azione nobile e compiuta la quale, per mezzo dell’empatia che diventa simpatia e del perturbamento che si esprime con terrore, provoca la presa di consapevolezza e il discioglimento del sentimento di tremore”. E’ una traduzione personale della formula con cui Aristotele definisce l’esperienza tragica, in cosa consiste fare l’esperienza della tragedia. Avevo, avevamo tutti, fatto l’esperienza di una tragedia, grazie a Fabrizio Gifuni.




Storia di uomini e paesi che sono fantasmi, che vivono tragedie

C’è differenza tra una leggenda e un’autobiografia: in quella differenza si situa un genere raro, carsico, però sconvolgente, che è l’antibiografia – cioè una variazione della tragedia.
Fare antibiografia significa premere sui tasti del mito e della storia, allo stesso tempo. Che l’antibiografia sia indifferentemente una rappresentazione agiografica o deprivativa, centrata sul racconto di se stessi o di altri o, se non di persone, allora di cose e di potenze – già questa indifferenza ai codici e alle discipline basterebbe a indicare che l’antibiografia si situa nel cerchio magico di una narrazione slogata, di una scena in cui si muovono spettri: scena e spettri che la comunità può comprendere e intorno a cui può radunarsi. Affermare che la tragedia è uno dei nuclei pulsanti del politico è altrettanto banale quanto sostenere che il tragico è uno dei tratti qualificanti della vita di qualunque vivente. Non sarà dunque accostando il Pasolini e il Gadda inscenati come fantasmi dal corpo e dalla voce di Fabrizio Gifuni che si potrà caratterizzare come teatro politico o civile quanto accade nelle sale in cui si tengono queste drammatiche variazioni rappresentative.
Che l’Italia stessa sia un fantasma, ovvero qualcosa che si vede ma non esiste del tutto, è una constatazione che costituisce il battesimo laico di chiunque appartenga a questo contesto nazionale divenuto incivile, arruffato fino alla demenza più che senile, preda di fascismi sempre nuovi e sempre i medesimi, poiché è dell’italiano un temperamento che si potrebbe definire “microfascismo antropologico” (la definizione è di Wu Ming 1). Questo, dunque, è il messaggio di superficie che viene pronunciato da Gifuni, e non soltanto da lui.
Il fatto specifico è che Gifuni pronuncia un simile messaggio in una forma fantasmatica, in una lingua fantasmatica, secondo ritmi che risorgono da tempi remoti e quasi obliati, attraverso l’attualità urgente di una realtà che tutti noi siamo e che, in quanto occidentali, dimentichiamo, essendone però ossessionati maniacalmente: cioè il corpo. E’ a questo livello corporeo che si pone, a detta di Gifuni stesso, l’origine biologica e biografica di un’invettiva contro il tempo e contro il mondo, scagliata tanto da Pasolini quanto da Gadda: “Sono due scrittori, due italiani che più lontani tra loro forse non potrebbero essere, per formazione, per lingua, per visione della storia e anche per visione politica. Che cosa unisce questi due autori? Una cosa abbastanza rara per l’Italia: un esercizio quotidiano, una pratica quotidiana di demolizione di se stessi, attraverso cui questi due autori si conquistano sul campo il diritto e lo statuto morale per esprimere un giudizio su quello che li circonda. Pasolini è molto vicino alle istanze della tragedia greca (…). In Gadda non c’è gusto per la tragedia: c’è una struttura ontologica profondamente tragica”1.
Non è dunque la presunta antitalianità dei due autori che diventano personaggi l’elemento su cui fa perno il lavoro teatrale di Gifuni. Il perno è invece l’istanza tragica. Ed è proprio ciò che si avverte – un teatro politico che è realizzato attraverso il movimento tragico stesso, cioè quella pratica continuativa della demolizione di se stessi, della demolizione dell’“io”2. Si tratta di vedere come riesce a Gifuni questo “esercizio quotidiano” di autodemolizione (“esercizio” peraltro in greco tragico si dice àskesis, etimo di “ascesi”), riversato nel qui e ora della scena assoluta.
Assistere a ’Na specie de cadavere lunghissimo o a L’ingegner Gadda va alla guerra lascia (ha lasciato) una profonda impressione. Quale? E’ più precisamente una serie di impressioni. Si tratta in pratica di un fantasma assoluto, che non concede riconoscimenti certificati, bensì soltanto accensioni di sensitività, bave di luce, confusione commista a certezze folgoranti, indistinzioni. ’Na specie de cadavere lunghissimo: abbiamo sulla scena Pasolini? Se sì, quale Pasolini? Siamo forse esposti all’urto dell’eresia stessa? Oppure ci assale un grande attore che si scortica e si spalanca il costato con le proprie mani, pur di farci osservare come sia possibile ciò che è viscerale? Quale succo ricaviamo, quale esito sortiamo, noi, il pubblico, scrutando ed essendo scrutati da Fabrizio Gifuni che è se stesso e Pasolini oppure quel fantasma di Pino Pelosi che è detto “Er Pecora” e non “Rana”? Quale efficacia o messaggio andiamo cercando in questo spettacolo? E alla fine otteniamo cosa?
L’ingegner Gadda va alla guerra (senza scordarsi il sottotitolo: o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro): stiamo entrando nelle latitudini del dolore da ferita, da irrimediabile lutto per una guerra, per un disordine del mondo, per la morte di un fratello, per un rapporto con la madre, per una neurosi sempiterna, per l’invenzione di una lingua che tenta di spostare un poco più in là i termini dell’agonia di quel linguaggio fantasma, l’italiano? E’ una tragedia, quella a cui assistiamo?





E’ intanto un’orgia di fantasmi. Canzonette farsesche e misteriose del Ventennio mussoliniano (c’è anche un ventennio berlusconiano, ça va sans dire) si sovrappongono agli impressionanti falsetti rituali di quelle musiche che accompagnavano le tragedie greche di periodo classico. Perfino i suoni giungono fantasmi da tempi distanti tra loro. I fantasmi sono analogici, nel senso che permettono connessioni e suggestioni. Storia e vita sono messe in discussione da azioni vive e al tempo stesso morte. La “farsa” che è “mistero”, il “mistero” che è “farsa”, l’identità di “farsa” e “mistero”, tutto ciò definisce in eguale misura un certo genere teatrale che è qui proposto e definisce anche, per la natura stessa di questo genere teatrale, un certo genere di conoscenza. Ciò avviene grazie a una forma artistica: antibiografia o complesso monologo teatrale, non si sa come definirla, è una forma che ha in Gifuni un interprete temibile, proprio perché sa farla emergere come elemento decisivo del discorso stesso. Noi non siamo più abituati ad avvertire con consapevolezza quanto magnetico sia il potere della forma del discorso, non siamo più abituati all’atletica della persuasione che la retorica ordina e dispone. Siamo infatti abituati soltanto a subire persuasione, talmente grossolana da non potere proprio essere definita “occulta”. La forma in cui si esprime Gifuni, con cui fa esprimere Gadda e Pasolini e noi tutti, è però una forma che non funziona come un fine in sé e nemmeno come un mezzo di “espressione” o per “illustrare” qualcosa. La forma – la sua struttura, la sua variabilità, il suo gioco di opposti (e cioè tutti gli aspetti tecnici e tangibili della teatralità) – è qui un particolare atto di conoscenza. Questo atto di conoscenza coincide con l’oggetto fantasmatico della conoscenza stessa: è il mistero.
E’ attraverso l’evocazione del fantasma che viene realizzata un’immersione nel mistero. E’ attraverso il discorso di un enorme leviatano di fantasmi che viene qui realizzandosi la disarticolazione dell’io. Il profluvio di discorsi, di taglia e incolla, di accostamenti inediti e di plenitudini con cui ci investe questo testo (autentica rete, lacera in più punti, che in altri punti invece tiene e dunque propriamente irretisce) conduce a una più superficiale disarticolazione: quella della memoria.
Letteralmente non si riesce a ricordare, pure ricordando: è Pasolini che parla ma non lo riconosco, mi pare di ricordare una “lettera luterana” ma non la riconosco, è Amleto che parla e il suo discorso è un fantasma di parole che dialoga con il fantasma del padre, è forse Gadda di Eros e Priapo che sta assaltando il disturbo narcisistico del potente e io non lo riconosco a pieno. In ogni momento delle tragedie inscenate da Gifuni avviene questo svuotamento di sé, avviene questo movimento: credo di sapere; mi accorgo di non sapere con precisione e inizio ad avvertire confusione; sento di non sapere e avverto il panico dello svuotamento, non posso appoggiarmi a nulla di saputo; al terrore di non appoggiarmi su nulla, subentra una calma trasparente e profonda.
Non saprei definire quanto accade in questi spettacoli se non nei termini in cui Jerzy Grotowski circoscriveva il teatro come “mistero”, distinguendolo da certe forme di iniziazione religiosa: “Il ‘segreto’ nel mistero moderno è qualcosa di inseparabile dai partecipanti stessi, per il fatto che non cerchiamo nulla al di fuori di loro, al di fuori dell’uomo. Ciò che costituisce il ‘segreto’ collettivo dei partecipanti al gioco teatrale, dunque il loro destino e la struttura della loro vita, appare qui come l’oggetto evidente, fondamentale del mistero”3.






Tutto un altro tipo di discorso

Quello che tiene Fabrizio Gifuni, in due sessioni (Pasolini | Gadda) che potrebbero non essere separate da alcuna cesura, è un discorso. Un discorso misterioso, il quale ha più a che fare, piuttosto che con un discorso ordinario, con la relazione che una ex scimmia tiene di fronte ad accademici in un racconto di Kafka: “Ripeto: non mi attirava imitare gli uomini; li imitavo solo perché cercavo una via d’uscita, nient’altro” – il che costituisce una posizione esistenzialmente tragica, il punto in comune a cui Gifuni fa riferimento per toccare Gadda con Pasolini.
Privo di sviluppo (antibiografico…), il discorso di cui è protagonista il monologante è tale che, contando su una certa perfezione e un certo carisma interni, appare strutturato da un ordine e dissesta ogni ordine.
Una descrizione della forma e degli esiti di quanto a Gifuni riesce nella sua scena assoluta è rintracciabile in un desiderio, probabilmente esaudito, che espresse Michel Foucault il 2 dicembre 1970, tenendo una relazione davanti ad altro genere di accademici (quelli del Collège de France): “Nel discorso che devo oggi tenere, e in quelli che mi occorrerà tenere qui, forse per anni, avrei voluto poter insinuarmi surrettiziamente. Più che prendere la parola, avrei voluto essere avvolto, e portato ben oltre ogni inizio possibile. Mi sarebbe piaciuto accorgermi che al momento di parlare una voce senza nome mi precedeva da tempo: mi sarebbe allora bastato concatenare, proseguire la frase, ripormi, senza che vi si prestasse attenzione, nei suoi interstizi, come se mi avesse fatto segno, restando, per un attimo, sospesa. Inizi, non ce ne sarebbero dunque; e invece d’essere colui donde viene il discorso, secondo il capriccio del suo svolgimento, sarei piuttosto il punto della sua scomparsa possibile”4.
L’esito, anzi la sostanza stessa di questo desiderio avrebbe questa forma: “Vorrei che fosse tutt’intorno a me come una trasparenza calma, profonda, indefinitamente aperta, in cui gli altri rispondessero alla mia attesa e in cui le verità, a una a una, si alzassero”5.
Nessuno è escluso da questa forma di desiderio, da questo orizzonte di calma trasparente e profonda, che è la forma stessa raggiunta da Fabrizio Gifuni quando (e lo si nota acuendo l’attenzione nei momenti in cui meno essa è tesa a risultare intensa: cioè all’inizio, proprio in incipit, quasi in una sorta di prespettacolo, di fuori dello spettacolo) manifesta di sé un processo di svuotamento interiore e di coordinamento con la possibilità che ciascuno degli spettatori si svuoti interiormente. Il che avviene, decretando il riconoscimento che si tributa a un artista e alla sua opera d’arte.

Note

  1. Da un’intervista rilasciata da Fabrizio Gifuni a Marco Belpoliti per Doppiozero 
  2. La demolizione di sé, fisica e mentale, come elemento qualificante della tragedia è il cosiddetto “smembramento” (sparagmòs) dionisiaco. E’ una tesi dalla ormai più che consistente tradizione, bene sintetizzata da William Storm (in After Dionysus. A theory of the Tragic, Cornell University Press, 1998): “Dopo avere subìto una simile ‘invasione’ di personalità, il personaggio intriso di potenza dionisiaca è fatto a pezzi – non semplicemente ucciso o distrutto in ogni senso, ma propriamente e aggressivamente frammentato e lasciato in pezzi. E ulteriormente, è evidente che ci troviamo davanti a un processo non esclusivamente corporeo. C’è uno sparagmòs della mente e del senso di sé nella tragedia, il che è una specifica funzione dell’impulso di Dioniso sul personaggio”.
  3. Jerzy Grotowski, “Farsa-Misterium”, in Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski. 1959-1969, Fondazione Pontedera Teatro.
  4. Michel Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi.
  5. Ibid.



La tragedia nella scena assoluta di Fabrizio Gifuni
di GIUSEPPE GENNA

fonte....Giuseppe Genna


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Pier Paolo Pasolini, Veltroni scrive ad Alfano: «Oggi la scienza può dirci la verità su quel delitto»

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Pier Paolo Pasolini, Veltroni scrive ad Alfano:

«Oggi la scienza può dirci la verità su quel delitto»

Gentile Ministro Alfano, vorrei cominciare questa lettera aperta con parole che vengono da lontano nel tempo: «Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo». È così che il presidente del Tribunale dei minorenni Alfredo Carlo Moro fissò il suo giudizio e il senso della sentenza con la quale il Pelosi fu condannato a quasi dieci anni di reclusione per l’uccisione di Pier Paolo Pasolini, intellettuale italiano. Le sentenze successive hanno confermato la responsabilità del ragazzo ma hanno sostenuto che lui fosse solo, quella notte. La verità processuale è fissata in quel giudizio della sentenza di secondo grado: «È estremamente improbabile che Pelosi abbia potuto avere uno o più complici». «Estremamente improbabile» non significa «assolutamente impossibile». D'altra parte quel ragazzo, uno che sembrava sociologicamente e fisicamente l'incarnazione di un personaggio pasoliniano, aveva fornito una confessione piena che escludeva il concorso di altri. Dunque perché cercare ancora?

Ma l’inchiesta, come hanno documentato in modo inappuntabile su «Micromega» Gianni Borgna e Carlo Lucarelli, fece acqua da tutte le parti
Come molte indagini di quegli anni. Ho rivisto in tv, in questi giorni, le immagini girate da quel grande giornalista che si chiamava Paolo Frajese a via Fani il sedici marzo del 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro, presidente della Dc e fratello del giudice Alfredo Carlo. Frajese faceva il suo dovere indugiando con il suo cameraman in mezzo ai corpi riversi a terra, ai berretti delle false divise, ai bossoli dei colpi sparati da terroristi e dai poveri agenti della scorta. C’erano decine di persone che passeggiavano sulla scena del più clamoroso attacco alla Repubblica. Qualcuno calpestava i proiettili, qualcun altro armeggiava con le portiere delle auto. Una follia. E non credo che ci appaia così solo perché ora tutti hanno imparato dall’America che la prima cosa da fare è isolare la scena del delitto. Era una follia, e peggio, anche allora. Era successa la stessa cosa nelle ore immediatamente successive all’omicidio di Pasolini nel buio desolato dell’Idroscalo di Ostia. Quando la polizia si era portata lì, nelle prime ore del mattino, c’erano dei curiosi attorno al corpo e di lì a poco, nel campetto attiguo, si sarebbe giocata una partita di calcio con tanto di pallone che cadeva nella zona del delitto e veniva rinviata da poliziotti gentili. Spariscono tracce, specie quelle degli pneumatici e dei passi. Indizi che credo sarebbero stati utili per accertare quante persone si fossero trovate lì e la dinamica dei fatti. L'automobile, la «stanza» fondamentale delle prove, viene consegnata alla scientifica solo quattro giorni dopo il delitto. In quella Alfa 2000 ci sono un maglione e un plantare per scarpe che non appartengono né a Pasolini né a Pelosi. C'è sulla portiera del passeggero, non quella del guidatore nella quale il ragazzo dice di essersi infilato di corsa per fuggire, una macchia di sangue, come l'impronta di una mano appoggiata. Ma l’auto, nel deposito della polizia, era rimasta aperta e sotto la pioggia.

Poi c’è un altro particolare. Pelosi ha solo un graffio sulla testa e una macchia di sangue sul polsino. È assai strano che sia così se le cose sono andate come lui ha raccontato, se c’è stata la feroce colluttazione che il ragazzo descrive nel suo volume «Io, angelo nero»: «Lui si trasformò in una belva. I suoi occhi erano rossi rossi e i tratti del viso si erano contratti fino ad assumere una smorfia disumana... Lo stesso bastone me lo tirò in testa, io mi sentii spaccare in due, il cuore mi batteva fortissimo. Lui si fermava poi ribatteva ancora... Fatto qualche metro mi afferrò e mi tirò un cazzotto sul naso...», poi il racconto di una rissa selvaggia. Pasolini verrà ritrovato pressoché irriconoscibile, un «grumo di sangue». Ma a Pelosi basta, come raccontò, fermarsi ad una fontanella. Potrei continuare. Ma vorrei tornare alle parole del giudice Moro. Non credo che fosse un «complottista». Credo avesse osservato dati di fatto e incongruenze. Chi poteva avere interesse ad uccidere Pasolini? Sulle colonne di questo giornale aveva scritto meno di un anno prima il famoso articolo «Il romanzo delle stragi », quello in cui diceva di sapere «i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer o sicari... Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore che... coordina anche fatti lontani, che mette insieme pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero».





Non so se queste parole abbiano preoccupato qualcuno, se abbia preoccupato il lavoro che conduceva per la scrittura di «Petrolio»
Ma erano anni bastardi, non dimentichiamoli. Anni in cui da destra e da sinistra venivano compiuti, come fossero normali, atti inauditi. Ai quali spesso seguivano appelli ben firmati per la libertà dei responsabili. Come accade per gli assassini dei fratelli Mattei che ora sono liberi in Sudamerica. Anni bastardi, nei quali poteva bastare essere una donna e civilmente impegnata per essere sequestrata e violata, come accadde a Franca Rame. Anni nei quali si facevano stragi e si ordivano trame. Non bisogna essere «complottisti» per domandarsi cosa diavolo c'entrasse la banda della Magliana con la scomparsa di una giovane cittadina vaticana o con l'intricata vicenda del Banco Ambrosiano o con il rapimento di Moro. Ma al di là delle convinzioni personali e persino al di là della ricerca di una matrice politica del delitto Pasolini esistono una serie di evidenze sulle quali oggi forse si può fare chiarezza. E non solo perché nel 2005 Pelosi ha ritrattato tutto dichiarando che ad uccidere Pasolini erano stati tre uomini che lui non conosceva. Ha detto molte verità il ragazzo e, dunque, forse nessuna verità. Mi domando che interesse avesse, in quel momento, a riaprire una vicenda per la quale aveva già scontato la pena. Mi domando se forse il tempo passato non avesse rimosso ciò che, negli anni del delitto, gli faceva paura.

Ma non conta. Stiamo ai dati di fatto: il paletto insanguinato, i vestiti, il plantare. Oggi le nuove tecnologie investigative consentono, come è avvenuto per via Poma, di riaprire casi del passato. Anche qui voglio usare parole non mie ma quelle che nascono dall’esperienza di Luciano Garofano, che ha diretto il Reparto Investigazioni scientifiche di Parma. Garofano è coautore con il biologo Gruppioni e lo scrittore Vinceti di un libro che si è occupato del caso Pasolini. «Oltre alle analisi del Dna che si potrebbero effettuare su molti reperti (alcuni dei quali mai sufficientemente presi in considerazione: il plantare, il bastone, la tavoletta...), attraverso lo studio delle tracce di sangue e di sudore, le scienze forensi vantano oggi un nuovo, importante alleato... La disponibilità degli abiti di Pasolini ma soprattutto quelli di Pelosi, ci consentirebbe di ottenere importanti informazioni sulla modalità dell’aggressione. Dallo studio delle macchie di sangue ancora presenti, si potrebbe infatti stabilire (e magari confermare) la tipologia di armi usate per colpire, le posizioni reciproche dell’omicida e della vittima e riscontrare quindi l’attendibilità della versione fornita allora da Pelosi... Un caso che, come tanti altri enigmi del passato, non possiamo considerare chiuso».
Ecco, signor Ministro, è questo che voglio chiederle. Per questo, come per altri fatti della orribile stagione del terrore (come il caso di Valerio Verbano o gli altri che con il sindaco Alemanno abbiamo proposto alla sua attenzione) ora si può, si deve continuare a cercare la verità. Forse saranno smentite le convinzioni del giudice Moro, forse ci sarà una nuova ricostruzione. I magistrati a Roma hanno lavorato con dedizione e scrupolo alla soluzione del delitto di uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo. Ora la scienza e le tecnologie possono aiutarci a dire una parola definitiva. E lei, fornendo un impulso all’iniziativa della giustizia potrà assolvere ad una funzione assai rilevante. Conviviamo da anni con un numero di ombre insopportabile. Più ne dissiperemo e meglio sarà per tutti noi, per il nostro meraviglioso Paese. E più ancora della verità giudiziaria credo ci debba oggi interessare la verità storica. Grazie, Signor Ministro, della sua attenzione.
Walter Veltroni
22 marzo 2010

fonte....Corriere.it

 


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Omicidio Pasolini: interrogatorio Pino Pelosi, l'anello

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Omicidio Pasolini: interrogatorio
Pino Pelosi, l'anello 




L'anello di Pino Pelosi - Il colonnello Vitali riferisce, per quanto appreso a sua volta dal personale operante, Carabinieri di Ostia, che subito dopo l'arresto il Pelosi chiese di cercare in macchina un anello, e che un anello fu poi rinvenuto vicino al cadavere.

«Io cercavo le sigarette, l'accendino e un anello mio: si tratta di un anello d'oro con pietra rossa, a fianco della pietra ci stavano due aquile e tutt'intorno la scritta "United States of America"».
A questo punto il dottor Masone esibisce l'anello repertato che il Pelosi riconosce per il proprio e dichiara che "può darsi" che l'abbia perso mentre vibrava i colpi. Si fa presente che la scritta è lievemente differente e che dice esattamente "United States Army"
L'imputato dichiara: «L'anello è mio, l'ho comprato da uno "stuart" che lo ha portato dall'America. Ripeto che i fatti sono quelli da me narrati e che ho agito per difendermi e che ho colpito duramente quando ho avuto l'impressione che il Paolo mi volesse proprio ammazzare per come si stava comportando. Durante i fatti che ho descritto ero solo, anzi siamo stati sempre solo io e il Paolo dal momento in cui abbiamo lasciato l'osteria fino a quando è successo quello che è successo».
Interrogatorio del 2 novembre 1975


A domanda risponde: «Io portavo due anelli ognuno al dito mignolo delle mani. Non ricordo in quale dito mignolo io portavo l’anello d’oro che ho perduto e che ho cercato in caserma. Non so se lo portavo al mignolo della mano destra o della sinistra». A domanda risponde: «A sfilarlo, il detto anello, veniva via subito, mentre l’altro anello d’argento che ho qui in carcere mi sta stretto. Non ricordo nemmeno il dito in cui portavo l’anello che ho qui in carcere. A volte questo lo spostavo da un mignolo all’altro perché mi stava stretto e mi dava fastidio».
Interrogatorio del 13 novembre 1975

A domanda risponde: «Non posso precisare come ho smarrito l’anello d’oro laminato. Può darsi mentre colluttavo col Pasolini, può darsi mentre scappavo. Se sapevo dove mi era caduto non l’avrei chiesto ai carabinieri».
Interrogatorio del 13 novembre 1975


fonte...Cronaca-Nera.it


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Omicidio Pasolini: interrogatorio Pino Pelosi, la fuga

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Omicidio Pasolini: interrogatorio
Pino Pelosi, la fuga




Dopo la colluttazione con Pier Paolo Pasolini, Pino Pelosi scappa verso la macchina gettando vicino alla rete di recinzione i due pezzi della tavoletta e il bastone insanguinato. Poi sale nella macchina di Pier Paolo Pasolini e scappa, fermandosi alla fine della strada presso una fontanella per ripulirsi dal sangue. Alle ore 1,30, lungomare Duilio di Ostia, una gazzella dei carabinieri vede passare l’Alfa 2000 contromano e inizia l’inseguimento.

A domanda risponde: «I due pezzi di tavola e il paletto che sono stati ritrovati vicino alla rete metallica, in prossimità della macchina del Pasolini, li ho raccolti io e li ho buttati verso la rete, mentre correvo verso la macchina, preso dalla paura».
Interrogatorio del 15 novembre 1975


Allora sono scappato in direzione della macchina, portando con me i due pezzi di tavola che ho buttato e anche il paletto verde che ho pure buttato vicino alla rete e vicino alla macchina. Subito dopo sono salito in macchina e sono fuggito con quella. Ero stravolto e ho impiegato del tempo per metterla in moto e per accendere le luci.
Interrogatorio del 2 novembre 1975


Nel fuggire non so se sono passato o meno con l'auto sul corpo del Paolo.
Interrogatorio del 2 novembre 1975


Descrivo le manovre che ho fatto con l'auto. L'auto era col muso rivolto alla rete di recinzione e con il "culo" alla porta di calcio. Ho ingranato la retromarcia e sono passato sotto la porta, e poi ho fatto la conversione curvando a sinistra».
«lo non ho investito volontariamente il corpo del Paolo e nemmeno ricordo di esserci passato sopra con l'auto inavvertitamente. Ero sotto shock e non capivo niente. Ricordo solo che sulla strada alla prima fontanella mi sono fermato per lavarmi e togliermi le macchie di sangue che avevo indosso».
Interrogatorio del 2 novembre 1975


L’uomo è caduto per terra e sentendolo rantolare sono fuggito dirigendomi verso la macchina sita a una certa distanza, che non so precisare, e terrorizzato per l’accaduto e sanguinante mi ponevo al posto di guida cercando di avviarla. Non ci riuscivo che dopo pochi minuti e innestando la marcia indietro facevo a ritroso un angolo retto con l’autovettura, innestando quindi la marcia in avanti e partendo a tutto gas, ormai in preda al panico, dato che avevo il volto e gli occhi coperti di sangue. Lungo il percorso non ho avvertito se le ruote della macchina passassero sul corpo dell’uomo che giaceva a terra. Mi sono fermato a una fontanella sita alla fine della strada per lavarmi il viso che era tutto insanguinato come pure le mani che erano coperte di sangue. Poi sono giunto sul lungomare di Ostia dove sono stato fermato dai carabinieri.»
Interrogatorio del 5 novembre 1975

A domanda risponde: «Non mi ricordo se, quando ho avviato la macchina del Pasolini, ho acceso i fari. Non conosco i comandi della macchina».
Interrogatorio del 15 novembre 1975


A domanda risponde: «Mi trovavo sul lungomare di Ostia, dove sono stato fermato dai Carabinieri, perché cercavo la piscina del Kursal che per me sta di fronte allo spiazzale della via Cristoforo Colombo, per andare a casa. Io non conoscevo altra strada».
Interrogatorio del 15 novembre 1975


A domanda risponde: «Dopo che il Pasolini si è accasciato a terra sono stato preso dalla paura. La zona era buia, tremavo tutto, non conoscevo il posto e ho pensato di prendere la macchina perché a piedi non sapevo dove andare».
Interrogatorio del 15 novembre 1975


Il corpo di Pasolini era a terra e rimase a terra quando partii con la macchina. lo comunque non lo vidi allorché con la macchina giunsi all’altezza di quel punto che d’altronde neppure ricordavo con esattezza. Non lo vidi, altrimenti non sarei stato così matto da montargli addosso. Pensai solo di andarmene: non pensavo che fosse morto, ma in quel momento, poiché il motivo preminente era quello di andare a riprendere la mia macchina, non mi interessava la possibilità che a seguito delle ferite il Pasolini, abbandonato, potesse morire».
Interrogatorio del 9 dicembre 1975


A ulteriore domanda dell’avv. Mangia, risponde: «In macchina io accesi il motore, armeggiai per conoscere i comandi, accesi i fari, mi raccolsi per qualche secondo, poi misi la retromarcia, e in quel momento i fari si spensero e io tentai e riuscii a riaccenderli. Quando poi proseguii in avanti i fari erano accesi, ma non ricordo quale tipo di luci. Ricordo che non erano sempre visibili le buche, anche per l’erba che talora le occultava. Non vedevo l’ora di andarmene».
Interrogatorio del 9 dicembre 1975

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Omicidio Pier Paolo Pasolini: interrogatorio Pino Pelosi, gli indumenti ritrovati all' Idroscalo di Ostia

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Omicidio Pasolini: interrogatorio

Pino Pelosi,  gli indumenti ritrovati all' Idroscalo di Ostia




Secondo perizie successive, la camicia di Pasolini sarebbe stata utilizzata per tamponare il sangue, da Pasolini stesso. La camicia verrà ritrovata lontana dal corpo esanime, a 70 metri di distanza.

A domanda risponde.- «Non ricordo, dato quello che è successo, se il Pasolini si fosse tolto in macchina qualche indumento.
Interrogatorio del 2 novembre 1975

A domanda risponde: «Durante la colluttazione avvenuta quando siamo scesi dalla autovettura, vicino al reticolato, e poi dopo, quando sono scivolato due volte per terra, il Pasolini non era a dorso nudo ma era coperto da un indumento. Non ricordo e non so niente della maglietta del Pasolini che è stata rinvenuta, intrisa di sangue, e alla rovescia, sul luogo dove si è svolta la colluttazione. Null’altro ho da aggiungere.»
Interrogatorio del 2 novembre 1975

A domanda risponde: «Non ricordo se quando il Pasolini mi inseguì e poi mi colpì, indossava anche la camicia. Escludo, comunque, di aver toccato a terra o comunque spostato la camicia: non so se questa si sia sfilata al Pasolini durante la colluttazione o se se la sia sfilata lui stesso nell’inseguirmi. Io in quel frangente portavo indosso il maglione rosso che è stato sequestrato».
Interrogatorio del 9 dicembre 1975

A domanda risponde: «Dopo il primo tentativo del Pasolini col paletto io fuggii lungo la stradetta su cui fu poi rinvenuto il corpo del Pasolini. Il fatto che sui calzoni e sulle scarpe non siano state rilevate tracce di terra e fango può dipendere dal fatto che io lavai alla fontanella anche le scarpe, ponendole sotto il getto d’acqua, e che potrei essere caduto in una zona erbosa, per quanto non ricordi tale punto».
Interrogatorio del 9 dicembre 1975

A domanda risponde.- «Ricordo che, mentre guidavo la macchina del Pasolini, dopo l’accaduto, ho notato adagiato sul cruscotto, vicino al parabrezza, un giacchetto o un maglione. Ho notato altresì che sul sedile posteriore vi era un montgomery o un giaccone pesante mentre i carabinieri mi portavano a Monte Mario e io ho dato uno sguardo nell’interno dell’autovettura per cercare le mie sigarette e l’accendino. L’autovettura “GT” si trovava nel garage dei carabinieri.»
Interrogatorio del 5 novembre 1975


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Omicidio Pasolini: interrogatorio Pino Pelosi, la colluttazione

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Omicidio Pasolini: interrogatorio
Pino Pelosi, la colluttazione




Il Paolo si era tolto gli occhiali che aveva lasciato in macchina, e nel vederlo in viso mi è sembrato con una faccia da matto tanto che ne ho avuto proprio paura. lo sono scappato in direzione della strada asfaltata sul terreno fangoso mentre il Paolo mi inseguiva. Siccome portavo ai piedi le stesse scarpe con i tacchi alti che ho in questo momento, ho inciampato e sono caduto. A questo punto mi sono sentito addosso il Paolo che si agitava alle mie spalle, io ho capito che voleva ricominciare e mi sono rigirato divincolandomi, e allora il Paolo mi ha colpito alla testa col bastone proprio nel punto dove ho il cerotto e dove mi è stato dato un punto di sutura al Pronto soccorso.
Interrogatorio del 2 novembre 1975


Sembrava che non avesse sentito niente e sembrò non sentire nemmeno due calci nelle "palle". Allora gli ho afferrato i capelli, gli ho abbassato la faccia e gli ho dato due calci in faccia. Il Paolo barcollava, ma ha trovato ancora la forza di darmi una bastonata sul naso. Allora non ci ho visto più e con uno dei due pezzi della tavola di cui ho detto prima l'ho colpito di taglio più volte finché non l'ho sentito cadere a terra e rantolare. Allora sono scappato in direzione della macchina, portando con me i due pezzi di tavola che ho buttato e anche il paletto verde che ho pure buttato vicino alla rete e vicino alla macchina.
Interrogatorio del 2 novembre 1975


Ripeto che i fatti sono quelli da me narrati e che ho agito per difendermi e che ho colpito duramente quando ho avuto l'impressione che il Paolo mi volesse proprio ammazzare per come si stava comportando. Durante i fatti che ho descritto ero solo, anzi siamo stati sempre solo io e il Paolo dal momento in cui abbiamo lasciato l'osteria fino a quando è successo quello che è successo».
Interrogatorio del 2 novembre 1975


lo a mia volta, dopo avere ricevuto il colpo, ho afferrato il bastone con le due mani e sono riuscito a scaraventare lontano da me il Paolo. Sono nuovamente fuggito e sono stato nuovamente raggiunto; il Paolo mi ha colpito col bastone, ora ricordo. era un paletto verde, e mi ha colpito alla tempia, alla testa e in varie parti del corpo. Io ho visto per terra la tavola con la scritta di cui ha detto prima il dottor Masone e gliela ho rotta in testa, ma questo non è servito a farlo smettere.
Interrogatorio del 2 novembre 1975


A domanda risponde: «Sono stato colpito dal Pasolini con l’asta di legno che lui aveva in mano la seconda volta, quando sono caduto. Infatti come ho detto in precedenza alla S.V. sono caduto due volte mentre fuggivo inseguito da Pasolini».
Interrogatorio del 13 novembre 1975

A domanda risponde: «Ribadisco ancora una volta che il Pasolini mi ha colpito con un paletto, che aveva raccolto per terra, per la prima volta, quando, durante la fuga, sono scivolato la seconda volta in una zona fangosa. Preciso ancora che col paletto sono stato colpito alla testa e ho riportato la ferita alla testa che mi fu destro, alla gamba che non so precisare, e anche alla schiena. Mi ha colpito anche a calci e mi ha dato un pugno al setto nasale».
Interrogatorio del 15 novembre 1975


A domanda risponde: «Ho reagito afferrandolo per i capelli e vibrandogli due calci ai genitali. Poi ho raccolto una tavoletta che era a portata di mano e gliel’ho vibrata in testa. A seguito dell’urto la tavoletta si spezzava in due parti. Col pezzo di tavola che mi è rimasto in mano ho continuato a colpirlo, servendomi sempre dello stesso pezzo di legno per menarlo, e ciò fino a quando non l’ho visto cadere. Devo però dire che nello stesso tempo il Pasolini continuava a colpirmi col paletto di legno di cui ho parlato prima
Interrogatorio del 15 novembre 1975


Preciso ancora che la zuffa tra il Pasolini e me, avvenuta dopo che sono caduto la seconda volta, era reciproca e che io impugnavo per colpirlo il pezzo di tavola che mi era rimasto in mano dopo la rottura, mentre il Pasolini brandiva il paletto di cui ho già parlato. Dopo che è caduto a terra ricordo che mi sono spaventato, non l’ho più colpito e sono fuggito».
Interrogatorio del 15 novembre 1975


A domanda della difesa, risponde: «Sono stato colpito per primo dal Pasolini dopo la seconda caduta.»
Interrogatorio del 15 novembre 1975


A domanda risponde: «Ricordo che nel corso della colluttazione riuscii a impossessarmi del paletto che teneva il Pasolini e con esso lo colpii più volte, in faccia e sulla testa: egli riuscì a impossessarsi poi di nuovo del paletto e fu allora che io presi la tavoletta. Avevo già inferto i calci in faccia e ai testicoli. Ci trovavamo in quel momento nel punto ove presumo sia stato trovato il cadavere, poiché di lì il Pasolini non si mosse più. Dopo i colpi infertimi dal Pasolini mi sentivo indolenzito in varie parti del corpo.
Interrogatorio del 9 dicembre 1975

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Omicidio Pasolini: interrogatorio Pino Pelosi, Idroscalo di Ostia

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Omicidio Pasolini: interrogatorio
Pino Pelosi, Idroscalo di Ostia





L’Alfa 2000 si apparta nel campetto da calcio, vicino alla porta. Inizia un rapporto sessuale che però si interrompe, secondo quanto raccontato da Pino Pelosi. Pino esce dalla macchina, si avvicina alla recinzione e Pier Paolo Pasolini lo insegue, diventa violento. Sempre secondo i racconti di Pelosi, Pasolini prende un bastone e lo rincorre per altri 50 metri.

Mentre la macchina si avviava sulla vecchia strada di Ostia, l’uomo mi ha fatto presente che si dirigeva verso Ostia dicendomi che conosceva un posticino dietro un campetto di calcio. Infatti la macchina scantonava per una traversa dirigendosi verso un campetto e poi proseguiva per una stradetta e quindi camminando ancora un poco per un prato si è fermata vicino a una rete di recinzione, “con la parte anteriore verso la rete metallica”. La zona era completamente al buio e a me era perfettamente sconosciuta.
Interrogatorio del 2 novembre 1975

A domanda risponde: «Quando siamo usciti dalla pizzeria sita a San Paolo, il Pasolini mi ha detto che si dirigeva a “Ostia” senza però precisarmi esattamente il luogo. Prima di quel momento non mi aveva indicato il posto dove mi portava».
Interrogatorio del 13 novembre 1975

«Il luogo è quello descritto, e preciserò meglio quello che ivi è accaduto. Ricordo infatti che il Paolo lasciò la strada asfaltata e si addentrò in un viottolo a terra battuta, e si fermato con l'auto vicino alla porta da calcio. Ricordo che in vicinanza c'erano delle baracche in muratura.
Interrogatorio del 2 novembre 1975

[a seguito del rapporto sessuale] Quindi l’uomo mi ha proposto di scendere dalla macchina per prendere un poco di aria; al che ho risposto che sentivo freddo ma ho finito per acconsentire. Infatti mi sono diretto verso la rete seguito dall’uomo che improvvisamente mi poneva le mani sul didietro. Preciso però che prima di mettermi le mani sul didietro l’uomo è venuto addosso a me accostandomisi tutto col bacino e ponendo la sua verga sul mio didietro. Io lo ho scansato, e fu a questo punto che lui mi ha messo le mani sul didietro. Ancora una volta gli ho tolto le sue mani dal mio culo.

Allora l’uomo, chinandosi per terra, ha raccolto un paletto ponendolo contro il mio sedere. Ho scansato ancora una volta l’individuo e sono scappato, inseguito però dal medesimo che, approfittando del fatto che sono inciampato, mi si buttava addosso tenendo sempre in mano il paletto e esercitando una certa pressione col paletto sul mio corpo. Ho cercato di liberarmi della pressione afferrando con le mie mani il centro del paletto che lui teneva, peraltro, alle estremità con entrambe le mani.

Sono riuscito a respingerlo all’indietro con una forte spinta, facendolo cadere col sedere a terra e approfittando della circostanza sono scappato, scivolando però dopo una breve corsa nel fango, sfavorito dal fatto che le mie scarpe avevano il tacco alto. L’uomo mi ha raggiunto e, mentre stavo per terra, mi ha cominciato a menare con il paletto alla testa, alle tempie, al ginocchio, e vibrandomi un pugno al naso, mentre mi intimava di non strillare e di fare quello che voleva lui. Ciò nonostante sono riuscito a sollevarmi in ginocchio, ad afferrarlo poi per i capelli per aiutarmi ad alzarmi del tutto e poi gli ho sferrato due calci o due ginocchiate, non ricordo bene, alla faccia o al petto. Malgrado i colpi l’uomo si è ripreso e si è iniziata allora una colluttazione tra noi due: infatti io tenevo con una mano l’estremità del paletto che lui aveva afferrato per l’altra estremità mentre con l’altra mano ci tenevamo stretti, respingendoci reciprocamente.

L’uomo riusciva però a liberare il paletto dalla mia mano e fu allora che io gli vibrai due calci sui genitali, mentre lui imperterrito continuava a menare coi paletto come se fosse impazzito. Io strillavo sempre, mentre lui mi diceva “T’ammazzo”. Allora mi chinavo per terra, afferrando una tavoletta di forma rettangolare, mentre l’uomo continuava a colpirmi alla spalla con il paletto. Gli vibravo la tavoletta in testa che al primo colpo si è spaccata in due e con il moncone che mi è rimasto in mano l’ho colpito ripetutamente alla nuca e al collo, a casaccio. L’uomo è caduto per terra e sentendolo rantolare sono fuggito dirigendomi verso la macchina sita a una certa distanza, che non so precisare, e terrorizzato per l’accaduto e sanguinante mi ponevo al posto di guida cercando di avviarla.
Interrogatorio del 2 novembre 1975


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Omicidio Pasolini: interrogatorio Pino Pelosi, la cena in trattoria

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Omicidio Pasolini: interrogatorio
Pino Pelosi, la cena in trattoria


Pier Paolo Pasolini e Pelosi si indirizzano verso la trattoria Biondo Tevere, dalle parti della basilica di San Paolo, dove l’uomo è conosciuto: ma Pino non lo conosce, dice di non averlo mai visto. Pino Pelosi mangia, spaghetti aglio, olio e peperoncino e petto di pollo, Pasolini non ordina nulla, fa solo domande. Restano nella trattoria fino alle 23,30, poi escono. Si fermano a fare benzina in un self-service e poi imboccano una strada alberata, verso Ostia, la via Ostiense.

Mi ha portato in una trattoria vicino alla Basilica di San Paolo, e precisamente sul raccordo che conduce sul viale Marconi e sullo svincolo per Ostia Lido. Mi ha detto che era un cliente della trattoria, infatti lì lo salutavano tutti. La trattoria era deserta ma il personale proprio perché era cliente (...) di questo signore che diceva di chiamarsi Paolo. Io ho mangiato perché avevo fame, lui ha soltanto bevuto una birra. Nell'osteria non mi ha fatto proposte, ma mi ha parlato amichevolmente, ha voluto sapere del mio lavoro. Siamo stati insieme dalle ore 23 alle 23.20 nella trattoria, poi siamo risaliti in macchina. Il signore ha fatto benzina presso un Selv Serv (sic!) e poi ha preso una strada, anzi precisamente l'Ostiense, e cioè quella alberata e con reticolati.
Interrogatorio del 2 novembre 1975

L’uomo mi ha chiesto: “Dove vogliamo andare?”. Io gli ho risposto: “Dove vuoi”. Infatti la macchina si è avviata in direzione di via Nazionale. Lungo il percorso mi ha interpellato dicendomi: “Che cosa vogliamo fare? Che programmi hai?”. Io risposi che avevo fame e volevo mangiare. Al che lui replicò che conosceva un trattoria: anche se era tardi, lui era cliente, e si poteva andare a mangiare anche a quell’ora.
Interrogatorio del 2 novembre 1975

L’uomo mi ha portato in una trattoria sita nei pressi della Basilica di San Paolo e dove non ero mai stato prima di allora, né la conoscevo per sentito dire. Ricordo che l’uomo, mentre si avviava con la macchina verso la trattoria, mi ha detto che era un po’ tardino, dato che erano le 23. Non ricordo però se nell’indicare l’ora ha guardato l’orologio.
Interrogatorio del 2 novembre 1975

Durante il percorso dalla Stazione alla trattoria l’individuo mi ha chiesto se lavoravo e che genere di lavoro facessi. Alla mia risposta che dovevo andare a lavorare il prossimo lunedì in una salumeria, che dovevo alzarmi presto per raggiungere il posto di lavoro da “Setteville” alla “Storta”, l’uomo ha ammesso che si trattava di un lavoro faticoso, date le ore scomode di partenza e di arrivo e la distanza da percorrere. Contemporaneamente mi toccava con la mano destra i genitali, e poiché io gli resistevo, respingendo la mano, egli insisteva dicendomi: “Dai, stacci che poi ti darò 20.000 lire, e adesso ti porto anche a mangiare”. lo mi trovavo senza una lira e l’ho lasciato fare.
Interrogatorio del 2 novembre 1975

Entrati in trattoria mi sono accorto che l’uomo era un buon cliente dato che era ossequiato e salutato dal padrone e dai camerieri e che, anche se era tardi e la trattoria era senza clienti, il gestore si premurò subito a ordinare la mia richiesta di un piatto di spaghetti all’olio e peperoncini e il petto di pollo con una birra. L’uomo non cenò, dicendo che aveva già mangiato e si limitò a bere un bicchiere di birra. Alla fine del pasto l’uomo tirò fuori una banconota da 10.000, che io notai distintamente, però non posso precisare a quanto ammontasse il conto.
Interrogatorio del 2 novembre 1975

Dopo di che siamo risaliti in macchina, dirigendoci sulla via vecchia di Ostia e dopo circa un chilometro ci siamo fermati a un distributore automatico, e precisamente vicino all’Alfa Romeo di San Paolo. Sono sceso anch’io aiutandolo a far benzina, e mentre lui teneva in mano la pompa, io infilavo 4.000 lire nella cassetta della colonnina, che lui mi aveva consegnato.
Interrogatorio del 2 novembre 1975

 fonte...Cronaca-Nera.it



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